Meno Stato più mercato dell’arte: è l’appello che viene da Arte Fiera per rilanciare un settore che nel mondo cresce in modo euforico, mentre in Italia arretra. Si stima che il fatturato globale di quest’affascinante comparto economico sia di 51 miliardi di euro e generi 2,8 milioni di posti di lavoro. Una torta gigantesca, che nutre il nostro paese solo di briciole, a causa di una burocrazia severa a timorosa. Per incrementare la fetta tricolore invece basterebbe un’oculata semplificazione normativa. Se n’è parlato ieri a Bologna al convegno “Il mercato dell’arte moderna e contemporanea: l’Italia nello scenario europeo”.
Le briglie riguardano soprattutto la circolazione internazionale di opere di tutte le epoche.
“Il nostro settore soffre e molti miei colleghi si trasferiscono all’estero – sostiene Carlo Orsi, presidente dell’Associazione antiquari d’Italia – perché c’è crisi e perché l’antico, da noi, non va molto di moda. Pesano soprattutto i lacci che imbrigliano la commerciabilità. Per rilanciare il settore chiediamo solo norme più semplici, che ci consentano di competere alla pari con i nostri concorrenti stranieri”. Un controllo della mano pubblica meno stringente “non è un pericolo. Noi antiquari siamo i primi a collaborare perché le cose da tutelate non sconfinino, siamo i primi a contribuire ai cataloghi, a dialogare con i musei. Confidiamo che il Governo ci ascolti, perché la situazione è davvero grave”.
Per i mercanti d’arte, ma anche per i collezionisti, è arrivato il momento di superare la contrapposizione fra pubblico e privato, perseguendo i comportamenti illeciti e allo stesso tempo aiutando chi si comporta bene.
“Un collezionista – osserva Giuseppe Calabi di CBM&Partners – non metterà mai in mostra un suo oggetto, se questo significa perderne il controllo. È una limitazione severa della proprietà, perché non far circolare e non esportare un’opera significa limitare il suo valore di 2/3. D’altra parte nel 2014 lo Stato italiano ha speso solo 350mila euro per opere d’interesse pubblico. Una cifra ridicola, ben diversa da quelle di Francia o Inghilterra che pagano quanto acquistano a valore di mercato”.
L’arte moderna e contemporanea d’altra parte ha bisogno della circolazione internazionale come un pesce ha bisogno dell’acqua. Solo in questo modo le opere si valorizzano, diventano note al grande pubblico, vengono valutate dai critici e quotate. La notorietà e il successo sono i fertilizzanti del valore economico dell’arte, ma anche di quello culturale. “Si pensi a quanto il commercio internazionale degli impressionisti francesi – osservano gli operatori – ha contribuito a rendere i loro quadri patrimonio universale”.
La speranza di collezionisti, antiquari e gallerie, per uscire da questa stagnazione risiede in un emendamento al disegno di legge sulla concorrenza in discussione al Senato. “Sono 4 i punti che ci interessano – conclude Calabi – l’innalzamento da 50 a cento anni dell’opera per la sua circolazione sui mercati internazionali; delle soglie di valore per le esportazioni, superiori ai 150mila euro, come prevede la comunità europea; l’introduzione del silenzio assenso qualora la pubblica amministrazione superi i termini previsti per le autorizzazioni; la revisione di un circolare del 1974 che lascia alla burocrazia un arbitrio troppo grande”. La politica, con Roberto Rampi, della commissione cultura della Camera, non sembra insensibile: “Valorizzare un’opera vuol dire tutelarla. La vostra battaglia non finirà qui”.