È stato un mercoledì quasi di follia, l’ultimo a Buenos Aires. I sindacati hanno indetto uno sciopero generale contro la maxi riforma liberista varata per decreto dal nuovo presidente Javier Milei e 130 mila persone sono scese in piazza al grido di “la patria non si vende” e “lavoriamo per mangiare, ma non vogliamo solo mangiare”. La tensione è stata altissima per tutto il giorno, e anche se non si sono registrati episodi di violenza, mentre il Paese è rimasto praticamente paralizzato da mezzogiorno a mezzanotte (non garantiti nemmeno i servizi essenziali e cancellati quasi tutti i voli aerei) Milei gettava benzina sul fuoco definendo i sindacalisti “mafiosi”, i politici di opposizione “corrotti” e i giudici “complici”. Prima dello sciopero infatti si era messa di traverso al progetto del nuovo presidente anche la giustizia, sospendendo sei articoli del decretazo emanato a dicembre, tutti relativi alla parte sulla riforma del lavoro (uno dei quali relativo proprio all’obbligo di garantire i servizi essenziali durante gli scioperi). La giudice Liliana Rodríguez Fernández ha ritenuto che non sussistevano i presupposti di urgenza tali da giustificare il ricorso al decreto governativo, bypassando il normale dibattito parlamentare.
Milei e il suo pacchetto di riforme da 664 articoli
Milei tuttavia non ha intenzione di mollare l’osso: il suo pacchetto di riforme da 664 articoli, che rivoluziona non solo i rapporti di lavoro ma spazia a 360 gradi dall’economia alle istituzioni e al sistema elettorale, in qualche modo dovrà passare. Anche se in parte rivisitato, ma non tanto per compiacere magistrati e sindacati, quanto per convincere gli alleati del partito liberale dell’ex presidente Mauricio Macri, senza i quali il nuovo presidente non avrebbe la maggioranza al Congresso. Dopo l’impeto iniziale, sulla scia di una elezione quasi a furor di popolo, Milei sta infatti ripiegando su una strategia più prudente, accettando il confronto parlamentare. Proprio per questo, ha spostato il termine per convertire in legge il suo decreto dal 31 gennaio al 15 febbraio e ha deciso di presentare giovedì scorso all’attenzione della commissione della Camera un testo alleggerito, con 141 articoli in meno.
Le riforme e il pacchetto con gli alleati
E infatti il testo è passato, in attesa nei prossimi giorni di sottoporsi al vaglio dell’Aula. Il nuovo pacchetto ha ottenuto il via libera proprio grazie al compromesso con gli alleati: il partito personale del presidente, La Libertad Avanza, conta appena 37 deputati su 257 alla Camera e 7 senatori su 72 al Senato, e per raggiungere la maggioranza e far passare le leggi senza forzature ha bisogno di allearsi con altre formazioni, tra le quali la principale è proprio Proposta Repubblicana di Macri e della candidata sconfitta al primo turno delle ultime elezioni, Patricia Bullrich, ora ministro della Sicurezza con Milei.
Milei e la tassa sulle esportazioni
Non solo. Anche molti governatori regionali sono macristi, e non hanno gradito uno dei punti della riforma, che prevedeva una tassa al 15% per le esportazioni di praticamente tutti i settori produttivi, in particolare quelli delle cosiddette “economie regionali” (agrumi, cotone, erba mate e tabacco, ad esempio). Per questo motivo, uno dei punti sui quali il presidente ultraliberista ha deciso di cedere è proprio quello della tassazione sulle esportazioni: permarranno imposte solo sul commercio di soia, carne bovina, grano e mais, e alcuni prodotti industriali. Il nuovo pacchetto, più snello, rinuncia anche ai contestatissimi poteri straordinari conferiti all’esecutivo: il testo iniziale prevedeva la possibilità da parte del governo di dichiarare un non meglio precisato “stato di emergenza economica, fiscale, sociale, sanitaria, amministrativa o di difesa” e di agire con poteri speciali esautorando di fatto il Parlamento per un periodo di due anni, prorogabili di altri due. Praticamente la durata di un intero mandato presidenziale: il nuovo testo riduce questa possibilità a un periodo di un anno, prorogabile di un altro anno. Per quanto riguarda il sistema elettorale, nell’ottica di una semplificazione Milei avrebbe voluto eliminare le primarie obbligatorie (che sono quelle che ad agosto lo hanno lanciato verso la Casa Rosada): questo punto sarà invece discusso in Parlamento.
Argentina: lavoro, pensioni e privatizzazioni
C’è poi tutta la parte su lavoro, pensioni e privatizzazioni, in parte bocciata dai giudici e per intero contestata dai sindacati e dall’opposizione peronista (che al Congresso, al netto delle alleanze, ha pur sempre il triplo dei seggi del solo partito di Milei): il presidente vorrebbe liberalizzare e privatizzare tutto il possibile, comprese 41 aziende statali, alcune delle quali strategiche come quelle dell’energia, ma ha valutato di estromettere dalla lista la petrolifera Ypf e di concedere la privatizzazione solo parziale di Banco Naciòn, Nucleoeléctrica e della tlc Arsat. È stato escluso anche il discusso articolo sul diritto allo sciopero, che Milei avrebbe voluto di fatto ridurre al minimo ma che verrà lasciato alla discussione parlamentare, anche perché parte della riforma laburista è stata esplicitamente bocciata dal Tribunale: tra gli articoli respinti ci sono nel dettaglio quelli che sancivano lo stop all’Accordo Collettivo di Lavoro; lo stop alle assemblee sindacali sul luogo di lavoro se queste ostacolano lo svolgimento della normale attività; le sanzioni per chi impedisce l’attività di uno stabilimento e l’ingresso degli altri lavoratori; il consenso esplicito del lavoratore per la trattenuta dei contributi sindacali; le nuove regole sulle ore di lavoro straordinarie; e l’obbligo di prestare i servizi essenziali durante gli scioperi. Sulle pensioni, Milei voleva abolire gli scatti automatici e decidere gli aumenti solo per decreto presidenziale, ma alla fine rimarrà il sistema attuale, seppur con alcuni aggiustamenti.
Argentina: ambiente e cultura
Infine, ambiente e cultura, due temi dei quali il nuovo presidente argentino farebbe volentieri a meno, al punto che ha abolito i rispettivi ministeri. Invece gli articoli che riducevano la tutela di boschi e ghiacciai sono stati cancellati, e su pressione di alcuni personaggi di fama internazionale del mondo della cultura, tra i quali il regista spagnolo Pedro Almodovar, Milei ha rinunciato a chiudere i rubinetti dell’Instituto de Cinema e Artes Audiovisuales (Incaa) e del Fundo Nacional de las Artes, che continueranno dunque ad erogare fondi pubblici a sostegno di attori e artisti. La nuova sfida di Milei è dunque quella di normalizzarsi, anche perché se è vero che da quando è stato eletto la Borsa va a gonfie vele, arrivando quasi a raddoppiare il proprio valore (soprattutto per via della maxi svalutazione del peso), c’è da affrontare con serietà una crisi finanziaria che non è mai stata così estrema, col cambio peso-dollaro ormai fuori controllo e un’inflazione che a dicembre, solo su base mensile, è scattata di oltre il 20%, il che significa che l’indice dei prezzi al consumo è praticamente triplicato rispetto a dodici mesi fa, in un Paese dove il 40% della popolazione vive sotto la soglia di povertà: oggi, l’Argentina è il Paese col tasso di inflazione più alto al mondo, più del Venezuela.