È ufficialmente iniziato l’effetto domino della nuova “Trump doctrine”, il secondo mandato da presidente degli Stati Uniti di Donald Trump, che si annuncia più radicale del primo. Si parte con i Paesi “amici”, quelli governati dagli alleati politici, che non a caso sono stati tra i pochi invitati all’Inauguration Day: oltre alla premier italiana Giorgia Meloni, c’era il presidente argentino Javier Milei, il politico probabilmente più vicino al tycoon per le sue idee ultra-liberiste, che arrivano fino al disprezzo dello Stato come istituzione. Milei in poco più di un anno alla Casa Rosada ha rimesso a posto i conti pubblici e ridotto l’inflazione: successi innegabili che però sono andati a discapito delle politiche sociali e delle classi più povere, la cui precarietà è aumentata. In questa fase di fiducia sui mercati finanziari, con la Borsa di Buenos Aires che va a gonfie vele e gli investitori internazionali che promuovono a pieni voti le sue mosse, Milei può adesso contare su un asso nella manica: il rapporto privilegiato con Donald Trump. Lo stesso che ha Giorgia Meloni, la quale però è anche vincolata all’Unione europea, di cui l’Italia fa indiscutibilmente parte.
Milei punta dritto agli Usa: addio al Mercosur?
Milei invece del Mercosur, l’alleanza commerciale tra i Paesi del Sudamerica, se ne infischia e anzi al World Economic Forum di Davos, dove è volato subito dopo la cerimonia di Washington, ha chiaramente detto che preferirebbe evitare una decisione drastica come l’uscita dal Mercosur – “ci sono modi per andare avanti senza perdere l’alleanza” – ma allo stesso tempo non la esclude e ammette che sta per “negoziare un accordo di libero scambio con gli Stati Uniti”. “Ci sono meccanismi che permettono accordi bilaterali anche al di fuori dell’unione sudamericana – ha spiegato il presidente argentino -, quindi credo che possiamo procedere. In caso contrario, potremmo uscire”. In realtà, il blocco fondato da Argentina, Brasile, Paraguay, Uruguay e Venezuela e poi allargato a tutti gli altri Paesi dell’area, di cui Buenos Aires rappresenta un quinto del Pil totale, non vedrebbe di buon occhio uno sganciamento di questo tipo, come era già accaduto nel 2022 quando l’Uruguay voleva firmare per conto suo un trattato con la Cina. Milei però non sembra il tipo da farsi problemi e tirerà dritto, come ha fatto con i conti pubblici e l’inflazione, a colpi di “motosega” e cioè di tagli draconiani (del 50%) alla spesa pubblica: il risultato è che l’inflazione mensile è passata dal 25,5% di gennaio 2024 al 2,7% dello scorso dicembre, il peso argentino nel 2024 si è valorizzato più di qualsiasi altra valuta (+44% da gennaio a novembre), e il Paese ha raggiunto il primo avanzo primario in 12 anni, chiudendo l’anno con un saldo commerciale record a 18,9 miliardi di dollari.
Nuove trattative: Milei fa il suo gioco con il Fmi
In questo clima favorevole, forte anche di un Pil previsto sia nel 2025 che nel 2026 al +5%, Milei naviga col vento in poppa e può così bussare alla porta del Fondo Monetario Internazionale, un istituto che ha sede a Washington ed è dunque vicino alla Casa Bianca. Non per niente il presidente argentino, in occasione del Trump Day, ha avuto un incontro con l’ex vicepresidente della Commissione europea e ora direttrice operativa dell’Fmi Kristalina Georgieva, la quale ha confermato al quotidiano argentino Clarin che “un’equipe del Fondo è in questi giorni a Buenos Aires per trattare un nuovo programma di aiuti e il risultato sarà di un’Argentina più prospera e dinamica”. Dopo aver incassato già l’anno scorso gli elogi dell’Fmi – nonché uno sconto sulla restituzione del maxi debito da 50 miliardi di dollari contratto all’allora presidente Mauricio Macri – Milei punta ora ad un nuovo finanziamento da 11 miliardi di dollari, che servirebbe in questo caso ad aumentare le riserve in dollari della Banca centrale e ad interrompere il regime di controllo sui cambi, in vigore ormai dal 2011. Sembra cosa fatta, dato che il voto degli Stati Uniti è decisivo nel direttorio del Fondo.