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Argentina al voto: tornano i peronisti in un Sudamerica in fiamme

Pixabay

Domenica 27 ottobre l’Argentina torna alle urne dopo il quadriennio alla Casa Rosada di Mauricio Macri, la cui presidenza – che doveva essere quella della svolta dopo anni di crisi e di kirchnerismo – è stata a dir poco un flop. L’esponente liberista lascia in eredità un Paese che si è sì aperto ai capitali internazionali, senza però che questo abbia influito sulla crescita economica e sul tenore di vita degli argentini.

Anzi, quest’anno il Pil decrescerà secondo le stime del 3%, l’inflazione (il cui abbattimento era un cavallo elettorale di Macri) è tornata a livelli allarmanti, ben oltre il 50%, e le persone che vivono al di sotto della soglia di povertà hanno raggiunto il picco storico del 35% della popolazione.

Ecco perché è praticamente certo (i sondaggi arrivano a calcolare un divario di 20 punti percentuali) che a vincere sarà il ticket Fernandez-Fernandez: ovvero Alberto Fernandez, ex delfino di Cristina Kirchner, come presidente, e l’ex presidente, ancora molto popolare in Argentina (la sua autobiografia è il libro più venduto dell’anno) come sua vice.

Archiviate le elezioni, il problema sarà casomai capire con che presupposti inizierà questo nuovo corso peronista, con alla guida non più la spregiudicata moglie dell’ex presidente Nestor Kirchner ma il più moderato – e proprio per questo non sgradito ai mercati internazionali – Alberto Fernandez. Soprattutto, c’è da rinegoziare il prestito monstre da 56 miliardi ottenuto dall’Fmi e che Buenos Aires ha dilapidato, arrivando negli ultimi mesi ad un passo da un nuovo default, dopo il drammatico corralito dell’inizio degli anni 2000.

Di primaria importanza sarà innanzitutto capire l’entità della vittoria del Frente de Todos: se Alberto Fernández dovesse raggiungere il 45% delle preferenze – oppure anche il 40% distanziando il secondo candidato di almeno 10 punti, ipotesi che sembra probabile – potrebbe essere eletto al primo turno senza necessità di passare al ballottaggio. La forza della maggioranza sulla quale il nuovo presidente potrà contare (e che si tradurrà in forza contrattuale con l’Fmi) dipenderà naturalmente anche dai risultati delle votazioni nelle province argentine.

Intanto il nuovo presidente in pectore ha assicurato che la sua formula di governo sarà pluralista, fondata sulla collaborazione tra le diverse componenti della maggioranza e del movimento e meno votata a convergere sulla figura di un leader carismatico, con chiaro riferimento al passato del kirchnerismo incarnato dalla sua numero due.

Per quanto riguarda Macri, la debacle in arrivo alle urne potrebbe invece tradursi non soltanto in una battaglia persa ma proprio nella fine della sua esperienza politica, che l’ex governatore di Buenos Aires nonché patron del Boca Juniors, il club di calcio più popolare in Argentina, aveva iniziato tra grandi entusiasmi e consensi.

Macri lascia in eredità un accordo con l’Fmi per un prestito da 56 miliardi di dollari, circa il 78% dei quali già accordato. Questo mese il Fondo di Washington avrebbe dovuto sborsare in favore del Paese sudamericano altri 5,4 miliardi, portando così a termine così il pagamento dell’88% del totale del prestito accordato a Buenos Aires in tre anni, ma i rappresentanti dell’organismo internazionale hanno escluso qualsiasi ulteriore elargizione prima dell’insediamento del nuovo governo.

Naturalmente, i successivi versamenti verranno concessi se lo staff tecnico dell’Fmi dovesse avere delle garanzie sulle condizioni degli accordi già presi con il governo Macri. Il prestito concesso secondo il piano triennale di stand by fa dell’Argentina ad oggi il principale debitore dell’organismo internazionale.

Come si muoverà il nuovo governo? Come farà fronte al rimborso del prestito e dei tassi d’interesse senza cedere alle temute ma forse necessarie politiche di austerità e ad una maggiore pressione fiscale? E’ evidente che Fernandez non può più tornare indietro, perché i soldi sono già stati quasi tutti incassati e per assicurarsi i pagamenti successivi si dovranno giocoforza dare delle garanzie.

La strada obbligata, come molti avevano previsto, è dunque quella di una ristrutturazione del debito ed una revisione delle scadenze: gli accordi con l’Fmi prevedono ad oggi una devoluzione del prestito che dovrebbe iniziare nel 2021 e terminare nel 2024. Secondo gli accordi e il piano di pagamenti stabiliti l’Argentina dovrebbe affrontare le più dure tranche di pagamento nel 2022, quando dovrà restituire all’Fmi 18.200 milioni di dollari e nel 2023 con 22.600 milioni. 

Quella di Buenos Aires non è tuttavia l’unica situazione calda all’interno del continente sudamericano, messo a ferro e fuoco nelle ultime settimane da diversi focolai di tensione. Prima c’è stata la rivolta in Ecuador, poi quella deflagrata improvvisamente in Cile, la cui economia continua ad andare apparentemente a gonfie vele ma che ora è sull’orlo della guerra civile a causa dell’aumento del costo della vita e della violenta repressione dell’esercito, che sta rievocando l’incubo della feroce dittatura di Pinochet.

In Perù diversi casi di corruzione hanno portato allo scioglimento delle Camere e presto si tornerà al voto, mentre a proposito di elezioni, nello stesso giorno in cui si vota in Argentina va alle urne anche il vicino e più tranquillo Uruguay, isola felice dove dovrebbe comodamente vincere il candidato del partito dell’ex presidente Pepe Mujica, al governo ormai dal 2005.

In Bolivia invece si è votato per il primo turno una settimana fa e la vittoria di Evo Morales (che corre per un quarto mandato consecutivo, sfidando le regole costituzionali) è messa in discussione dall’opposizione e da buona parte della popolazione, che sta scendendo in piazza accusando il leader andino di brogli.

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