Il rogo della Città della Scienza di Bagnoli ha suscitato sdegno e persino commozione ma, ahimè, nessuna autocritica da parte degli amministratori. Eppure, come hanno impietosamente mostrato le riprese dall’alto, è l’intera area di Bagnoli, e non soltanto quella dolosamente incendiata, ad essere un cumolo di rovine, La verità è che Bagnoli è tutt’ora la più grande area industriale derelitta d’Italia. Un fallimento, tanto più grave se si considera che in Europa (persino nella non certo ridente città di Cardiff, nel Galles) e anche nel Nord d’Italia, aree non dissimili, come Campi a Genova o l’area Pirelli Bicocca a Milano, sono state bonificate, riqualificate e poi sviluppate. Perché a Bagnoli questo non è stato possibile? La colpa non può essere attribuita alla camorra o alla speculazione. Casomai la camorra e la speculazione cercano oggi di inserirsi nel vuoto che si è creato a Bagnoli. Ma la responsabilità di questo vuoto (un vero e proprio buco nero) è delle scelte sbagliate fatte dagli amministratori che si sono succeduti alla guida del Comune nel corso di questi ultimi venti anni ed è su queste che conviene ragionare.
Facciamo un passo indietro: l’acciaieria di Bagnoli, che dava lavoro a circa tremila operai, era fra le più moderne d’Italia. L’Iri vi aveva investito da poco ingenti risorse quando se ne decretò la chiusura per venire incontro alle richieste della CEE di ridurre la capacità produttiva della siderurgia italiana. Ai lavoratori e alla città di Napoli venne prospettata come contropartita la bonifica dell’area (230 ettari), nella quale sarebbero stati impiegati anche i lavoratori dell’Ilva, e la sua riconversione verso nuove attività produttive in grado di creare nuova occupazione. Sulla carta l’operazione , ancorché dolorosa, aveva un senso e sembrava poter avere successo. In fondo Bagnoli , a differenza di Cardiff , fronteggia una baia di straordinaria bellezza ed è vicina a quei Campi Flegrei ove, si dice, anche gli Dei amassero soggiornare . Inoltre, a differenza di quella della Pirelli di Milano ,l’area dell’Ilva era già pubblica e non vi era alcuna necessità per il Comune di acquisirla per evitarne un uso speculativo. Infine, per la bonifica e la riconversione si poteva contare sui finanziamenti che la CEE metteva a disposizione per le aree siderurgiche dismesse. I numeri da gestire (costi della bonifica e lavoratori da ricollocare) erano certamente importanti ma nulla in confronto a quelli che dovremmo gestire ove mai la Magistratura riuscisse davvero a fare chiudere l’area a caldo di Taranto(in questo caso ci vorrebbero più di 3 miliardi di Euro e gli esuberi da ricollocare sarebbero 5/7000)
L’Iri, tramite Ilva in liquidazione, predispose un piano organico di bonifica e di riqualificazione dell’area. Un piano che prevedeva un uso plurimo dell’area per servizi, attività commerciali, industria leggera, cultura, verde e , ovviamente, edilizia abitativa. Prevedeva ,inoltre , il recupero dell’arenile per un suo utilizzo turistico e balneare. Non era un libro dei sogni, anche se si rifaceva ad un progetto precedente di delocalizzazione dello stabilimento denominato ”Utopia”. Era un progetto del tutto fattibile ,cosi come fattibile si è rivelato quello proposto ,più o meno nello stesso periodo, dalla W.D.A (welsh development agency) per Cardiff dove, sia detto fra parentesi , sono riusciti persino a trasformare la loro orrida baia in un resort.
La riuscita del piano dipendeva però da due precise condizioni :la prima ,era che a gestire l’intera operazione fosse un “ soggetto unico “, responsabile del progetto dal momento della sua definizione sino a quello della bonifica e della cessione delle aree ai privati e, la seconda ,era che la bonifica fosse coerente con la nuova destinazione d’uso delle aree e che i suoi costi ,al netto dei contributi pubblici, fossero coperti dai proventi rinvenienti dalla cessione delle aree ai privati. Entrambe queste condizioni – catena unica di comando e pareggio di bilancio- sono state rispettate nei casi di maggior successo cui si è fatto riferimento prima mentre a Bagnoli questo non è avvenuto . Perché ? Spiace dirlo, ma la responsabilità maggiore è del Comune di Napoli il quale, pur non avendone la necessità, ritenne egualmente essenziale acquisire la proprietà delle aree per esercitare appieno il potere di indirizzo e di controllo sull’ intera operazione. Un potere che avrebbe in realtà potuto esercitare senza doversi per questo indebitare . Era sufficiente , se proprio ci teneva, che acquisisse dall’Iri una quota simbolica della Società di scopo ( che era già pubblica ) e ne assumesse, casomai, la Presidenza.
In ogni modo, la conseguenza più negativa di quella scelta è stata la rottura della Catena di comando e il venir meno del nesso fra bonifica e valorizzazione delle aree . Chi doveva realizzare la bonifica non rispondeva più della valorizzazione delle aree e viceversa. Il Progetto Bagnoli era nato ,però , come un Progetto Unitario e poteva funzionare soltanto se fosse stato gestito come tale. Il venir meno di questo presupposto ha grandemente contribuito a far si che la bonifica divenisse una sorte di variabile indipendente e che i suoi costi lievitassero sino a divenire , alla fine, proibitivi. A complicare ulteriormente le cose ha poi provveduto il Ministero dell’Ambiente il quale, sbagliando, ha ritenuto di dover estendere retroattivamente anche a Bagnoli i parametri di bonifica previsti dal decreto 471 per aree come quelle di Marghera, quasi che non vi fosse differenza fra una area chimica ed una siderurgica e fra una zona lagunare ed una che lagunare non è. Tutto ciò, unitamente all’assenza di un piano di sviluppo realistico, dettagliato ed economicamente sostenibile, ha reso difficile, se non impossibile, attrarre investimenti nazionali o esteri nell’area. Bagnoli si è cosi degradata sino a diventare area di stoccaggio per i rifiuti urbani . Una mortificazione per tutti e non soltanto per Napoli.
E’ possibile rovesciare questa tendenza? Si, se si rimedia agli errori fatti a suo tempo. A Milano, per fare un esempio italiano, in questi ultimi anni, sono state recuperate e trasformate vaste aree industriali dismesse: da quelle della vecchia Fiera Campionaria, a quelle dell’Alfa Romeo al Portello, alle aree ex Falk di Sesto san Giovanni sino alle ex Varesine. In queste aree sono sorti nuovi ,straordinari edifici, centri universitari e di ricerca, attività commerciali e di servizio, insediamenti produttivi e aree museali . Si sono creati migliaia di nuovi posti di lavoro. Ciascuna di queste operazioni è stata gestita da grandi promoter pubblici e privati, capaci di progettare e gestire operazioni di questa complessità e ampiezza. Il Comune ( e anche la Magistratura ) ha vigilato su ciascuna di queste operazioni, ne ha valutato l’impatto e ne ha determinato l’indirizzo utilizzando gli strumenti che la legge mette a sua disposizione senza dovere comprare le aree od inventarsi società di scopo. Alla fine di questo percorso la città di Milano risulterà profondamente trasformata e sarà certamente migliore di quanto non fosse prima, e ciò nonostante la crisi.
La riqualificazione delle aree industriali dismesse ha confermato ,insomma, di essere una leva decisiva, per lo sviluppo. Questo è vero per Milano, per Berlino e Londra ma è vero anche per Napoli. Il Comune di Napoli non è riuscito a sviluppare Bagnoli per il semplice fatto ché non era e non è suo compito farlo. Al Comune spetta un compito di indirizzo e di controllo ma lo sviluppo dell’area (bonifica, progettazione, ricerca degli investitori) spetta a soggetti, privati o pubblici, che siano vocati a farlo e che abbiano la struttura , la dimensione e la professionalità necessaria per farlo. Nel caso specifico di Bagnoli questo soggetto oggi non può che essere pubblico e fra i soggetti pubblici che potrebbero assumersi questo impegno Fintecna (o una sua controllata) sarebbe certamente il più adatto. Se a questa soluzione si dovesse arrivare Il Comune, la Regione e il governo dovrebbero, ciascuno per la propria parte , sostenerne l’azione sia con gli strumenti che la legge mette loro a disposizione (gli accordi di programma) e sia impegnando altre strutture quali, per citarne soltanto alcune, Invitalia, l’Ice e, se necessario, la Cassa Depositi e Prestiti.