Verso Hollywood?
Recentemente la Apple ha annunciato di aver messo nelle mani dei consumatori il miliardesimo iPhone. Se consideriamo anche gli iPad e i Mac la nazione della mela morsicata inizia ad insidiare il primato demografico dell’India e della Cina. Fuorché per telefonare, l’iPhone è uno strumento superbo per pompare tutte le forme di contenuto conosciute verso i consumatori, che adorano questo strumento. Per di più l’ecosistema della Apple è concepito in modo tale che si autoalimenta senza disperdere energia come la batteria di un’auto.
Adesso succede che le vendite degli iPhone hanno qualche problema in più a crescere ai ritmi a cui siamo stati abituati. Per di più, con nessun prodotto jobsiano nella pipeline di Apple, almeno per quanto è dato a vedere, si sentono degli strani discorsi sui possibili sviluppi della società più capitalizzata del mondo. Gli uomini della Apple parlano sempre più di contenuti, di servizi e di media e sempre meno di hardware. Recentemente Tim Cook prima e poi Luca Maestri, il CFO italiano ascoltatissimo a Wall Street, hanno dichiarato che Apple si avvia a diventare una società media. Oh, che la Apple stia diventando come Google che ogni anno cambia la definizione del proprio business? Certamente no, ma siamo di fronte a una dichiarazione sbalorditiva che, inizialmente, ha lasciato stupefatti gli osservatori che vi hanno intravisto un modo per portare il discorso lontano dai problemi dell’iPhone, che peraltro non sembra proprio avere al di fuori della Cina.
Eppure, nel presentare i risultati record del quarto trimestre 2016, la Apple ha mostrato che la società media non è un progetto aleatorio, ma qualcosa che è già in avanzata costruzione. Nei conti della Apple, i contenuti e i servizi hanno emesso un ruggito che si è sentito forte e chiaro e che ha spazzato via molti risolini di scherno. A inizio 2017 Buffett, che si tiene lontano dalla tecnologia, ha raddoppiato le azioni della Berkshire Hathaway nella mela. In effetti servizi e contenuti sono cresciuti del 24% sul 2016 e adesso rappresentano il 15% di tutti i ricavi della Apple. Dopo l’iPhone sono il comparto che contribuisce di più al suo fatturato oltre quello a crescere ai ritmi che erano propri dell’iPhone.
Viene però da chiedersi se la Apple sia veramente preparata, come management, predisposizione mentale e cultura a questo balzo dalla Silicon Valley verso Hollywood e New York?
A guardare da quello che hanno fatto con gli ebook, la risposta è no, non sono pronti. Quella degli ebook è la storia di un fallimento clamoroso. Con la musica e le applicazioni sono stati molto più bravi, ma si tratta di servizi che vengono da lontano sui quali la Apple era già leader di mercato avendoli praticamente inventati. Ma dove ci sono dei competitor validi e ben strutturati, la Apple è in grado di rimpiazzarli o, più semplicemente, gareggiare alla pari? Questo è il quesito e per ora resta senza risposta.
L’operazione ebook nasce con troppe criticità
goWare, la startup di nuova editoria che tiene questo blog, ha un certo punto ha deciso di dirottare il proprio business dalle applicazioni agli ebook. Lo ha fatto quando Steve Jobs ha presentato l’iPad il 27 gennaio 2010 al San Francisco Museum of Modern Art nella zona di Yerba Buena. In quell’occasione Jobs, da par suo e comodamente seduto su un divanetto nero, mostrò le grandi potenzialità del nuovo negozio gemello dell’AppStore, l’iBookstore, parlando anche degli accordi stretti con gli editori di libri e in particolare con quattro delle big five. Sull’iBookstore si potevano infatti distribuire e far acquistare libri in formato digitale che gli acquirenti potevano leggere sull’iPad …ma non sull’iPhone. E questa era la prima anomalia che invitava già a riflettere.
Insieme all’iBookstore Jobs presentò anche una nuova applicazione di Apple, iBooks, per poterli scaricare dallo store (accessibile solo dall’app, ahi!), memorizzare, leggere e annotare. Si trattava di un’applicazione straordinaria perché permetteva di trasformare la lettura in un’esperienza interattiva molto simile a quella delle applicazioni presenti sull’AppStore. E sull’AppStore la categoria “books”, per numero di download, era seconda solo ai videogiochi. Segno evidente che la legge leggeva sullo schermo e pagava per farlo. Ma ecco spuntare la seconda anomalia. iBooks non era pre-installata sull’iPad come le altre app della Apple, ma si doveva scaricare dall’AppStore di propria iniziativa. Che scelta mai era questa? Anche qui c’era un indizio che un buon analista avrebbe dovuto cogliere come una seria criticità.
Terza criticità: a differenza dell’AppStore, dove tutti gli sviluppatori maggiorenni (costo 80 dollari l’anno) potevano sottoporre un’applicazione e partecipare alla frenetica competizione che lì aveva luogo, portare e vendere un ebook sulla libreria della Apple era un gran mal di testa per chiunque non fosse un editore con un fatturato a molti zero. Alla medio-grande, media e piccola editoria, come pure per agli scrittori indipendenti, era richiesto di transitare attraverso un intermediario, un cosiddetto aggregatore registrato (ce ne erano appena quattro al momento del lancio di iBookstore). Quest’ultimo mandava l’ebook alla Apple, che lo sottoponeva a una revisione non solo tecnica, e infine, se finiva sullo store, era l’aggregatore a raccogliere i dati di vendita e i ricavi del prodotto che arrivavano, entrambi, in differita all’editore. Quest’ultimo si trovava nella spiacevole situazione di verificare una sfasatura tra le reazioni del mercato e le azioni di marketing necessarie. Inoltre al costo del servizio della Apple si doveva aggiungersi quello dell’intermediazione. Un meccanismo bizantino, irritante e inutilmente complicato, quando Amazon prendeva tutti senza distinzioni, bastava spendere cinque minuti a compilare online un modulo di adesione al suo programma dal poco ispirante nome di KDP che si poteva confondere con KGB. L’iBookstore somigliava a un club per soli ricchi e famosi. E allora?
Pazienza! La Apple ci aveva abituato a scelte eccentriche e a fidarsi di quello che faceva che in genere aveva un senso anche se lì per lì non si intuiva quale. Per cui in nessuno fece caso a queste criticità.
iBookstore, un club anti-Amazon
La sensazione generale, come quella del team di goWare (la start-up di nuova editoria che tiene questo blog), fu, invece, che c’erano tutte le premesse perché la nuova creatura di Apple diventasse un successo istantaneo tale da sconvolgere gli equilibri del mercato. Errore! L’operazione iBooks era difensiva, perché era nata per mantenere gli equilibri del mercato e non per sconvolgerli visto che questo compito se lo era assunto senza troppi complimenti Amazon. Proprio per questo la società di Jeff Bezos era divenuta, nel frattempo, il nemico pubblico numero 1 delle grandi casi editrici e dei grandi autori. E la loro impressione era che nessuno, eccetto Apple, poteva contrastare Amazon in modo efficace. Infatti Amazon stava facendo qualcosa di inimmaginabile e di demolente: per promuovere l’ecosistema Kindle, scontava selvaggiamente gli ebook – fino al punto di perdere dei soldi – in modo tale che i lettori li preferissero ai libri. E stava succedendo proprio questo. Il prezzo degli ebook era il veicolo attraverso il quale stava realizzando la disruption del mercato. Una prospettiva che iniziava a togliere il sonno agli incumbent , cioè i grandi conglomerati media che avevano nei libri un business serenamente stabilizzante.
Steve Jobs, che diceva più volte “no” che “sì” e pensava che questa fosse il segreto della leadership, non voleva saperne di mettere i libri nel carnet Apple, non erano una priorità. Non c’era verso di convincerlo. Considerava più importante fare altre cose nel campo della cultura, per esempio fare dell’iPad uno strumento didattico attraverso il quale veicolare contenuti di nuovo tipo e a basso costo verso il sistema della formazione. Ma di fronte alle insistenze degli editori e dello stesso Rupert Murdoch – proprietario di una delle big five –, con il quale Jobs si sentiva spesso anche per altre cose, il capo di Apple incaricò Eddy Cue, uno dei manager senior, di approfondire la faccenda con il preciso mandato di portare a bordo tutte e cinque le big five; altrimenti non se ne sarebbe fatto di nulla. Poche settimane prima del lancio dell’iPad, Cue portò a Jobs l’adesione di quattro delle cinque big five, con la promessa della quinta di aggiungersi al più presto. Fu allora che fu deciso di lanciare l’iBookstore. Decisioni in extremis a riprova che non c’era quel commitment paranoico che Jobs metteva nelle iniziative che sceglieva. E questo stato di cose sotterraneo si manifestava pienamente nelle tre criticità di cui si è parlato sopra.
Operazione a perdere
Nonostante queste premesse, che si sono conosciute più tardi, l’iBookstore partì con il vento in poppa come prova anche l’esperienza di goWare. Il grafico delle vendite di ebook di goWare evidenzia che nel 2012 l’iBookstore totalizzava il 60% delle vendite contro il 40% di Amazon. Anche nel 2013 la libreria di Apple si confermava il maggior veicolo di vendite con una quota superiore al 40%. Dal 2014 si è verificata una discesa a dire poco vertiginosa e oggi l’IBookstore per goWare rappresenta un umiliante e imbarazzante 1%. L’85% delle vendite di goWare passa da Amazon. Che cosa è successo al negozio della Apple che ora appare al tappeto come un pugile suonato sul punto di lanciare la spugna, nel momento in cui un consumatore-lettore sta per aggiudicarsi il miliardesimo iPhone.
Tra parentesi, perché lo riprenderemo nella terza parte di questo post, non è affatto vero che la gente non legge libri sull’iPhone. La lettura è uno dei piatti forti della dieta mediatica di coloro che immergono per ore la loro testa nel piccolo device che tengono in mano.
È accaduto che il business degli ebook della Apple ha ricevuto tre montanti micidiali. Il primo lo ha sferrato il Dipartimento di Giustizia che l’ha condannata in due gradi di giudizio per violazione della normativa antitrsut in relazione al prezzo degli ebook e l’ha costretta a risarcire con 400 milioni di dollari i consumatori riunitisi in una class action. Il secondo montante, ancor più micidiale, è venuto dagli editori che l’avevano trascinata in questa operazione, i quali hanno deciso di sacrificare gli ebook per i libri senza tanti riguardi per quei soggetti che avevano cavalcato l’onda degli ebook. Il terzo montante è venuto proprio da Amazon che si è presa tutta la fetta residua degli ebook, quella degli autopubblicati e degli indipendenti, non raggiungibile dall’abbraccio dell’orso dell’editoria maggiore. Si tratta di una fetta bella grossa e pastosa visto che oggi rappresenta il 15% dell’intero mercato del libro tutto appannaggio di Amazon. L’IBookstore, il club dei ricchi e dei famosi, non ha saputo intercettare questo mercato ed è crollato come un castello di carta trascinato giù dal crollo del mercato degli ebook degli editori tradizionali (-25% nel 2016).
C’è poi da considerare anche altri fattori meno esogeni. Come: la pochezza del management dell’iBookstore, la marginalità, almeno finora, degli ebook nelle strategie media di Apple e infine l’organizzazione e la ratio stessa della libreria online che è un clone dell’AppStore, come se una libreria potesse essere costruita sul modello di una negozio di giocattoli che ha avuto successo. Che imparassero da Amazon! Ma forse agisce ancora il campo di distorsione della realtà di Jobs, che informato da Diego Piacentini della sua decisione di lasciare Apple per Amazon, non riusciva a capacitarsi del motivo per cui una persona del suo valore potesse preferire un lavoro in un supermercato a quello che aveva a Cupertino. Ma l’argomento che aveva convinto John Sculley a lasciare la Pepsi Cola per la Apple, cioè “Vuoi continuare a vendere gazzose o vuoi cambiare il mondo?» non aveva funzionato con Piacentini. E quest’ultimo aveva ragione, per certi versi la frugalità di Amazon e meglio della regalità di Apple.
Di questi temi e delle loro conseguenze micidiali sul business della Apple negli ebook e sul quello di coloro che vi avevano investito ci occuperemo nella seconda parte di questo post, la prossima settimana.