Zabriskie Point è la migliore testimonianza dello spirito, delle idee, della temperie culturale e dei giovani della controcultura. È stupefacente come l’occhio di Antonioni abbia colto l’anima di questo fenomeno di portata enorme. Dalla controcultura è nata la rivoluzione del computer, il movimento me-too e tantissimi altri tratti della modernità. Perfino la corporate America, che fa da sfondo al film e al paesaggio urbano di Antonioni, si è appropriata della mistica della controcultura. La stessa storia personale dei due attori scelti da Antonioni per interpretare il film è la storia di due figli dei fiori che sono rimasti tali. Nel film tutto è perfetto. È totalmente visionario. Pensate alla raffigurazione della polizia, qualcosa che andò indigesto alla stampa e al pubblico americano. Non hanno i poliziotti che uccidono Mark gli stessi volti freddi e insensibili, la stessa “androidità” di quegli agenti che hanno privato della vita George Floyd? E la polverizzazione finale degli oggetti di consumo di massa fabbricati dall’industria a ritmo continuo non è forse il prodotto della stessa detonazione provocata dal coronavirus sui nostri stili di vita? Come scrisse il critico Filippo Sacchi, non sempre tenero con Antonioni, Zabriskie Point è nella classe del cinema assoluto.»
Michelangelo Antonioni su Zabriskie Point
È un film difficile anche perché l’America è un paese difficile e sta attraversando uno dei periodi più complessi della sua storia. Cos’è l’America? A San Francisco ti sembra di capirne una, a Los Angeles un’altra, nel Texas un’altra che ha tutta l’aria di un continente diverso addirittura. A New York ne incontri altre dieci. Forse la sola distinzione chiara che si può fare è questa: l’America dei vecchi e quella dei giovani. A me interessa quest’ultima. I protagonisti principali del film sono infatti due giovani.
Vado in America ora per scegliere anche gli attori. Quando partii per il primo dei due viaggi che feci l’altr’anno in America pensavo che avrei potuto utilizzare Monica Vitti anche per questo film. Purtroppo ho capito che non mi era passibile. L’Inghilterra di Blow-Up era un background, l’America, per Zabrieski Point, è la sostanza stessa del film. I protagonisti sono quasi dei simboli di quel paese e devono quindi essere americani. Anche perché in America non si doppia e Monica parla un buonissimo inglese ma con accento ovviamente straniero >.
In Italia si possono usare attori stranieri. L’ho fatto anche io per il passato, ma erano film italiani. Il film che sto per fare è invece americano. Sono stato quindi costretto a rinunciare a lei e mi dispiace molto. Ci si capisce a volo, ormai, e ha una tale mobilità che le basta un movimento impercettibile del viso per esprimere i sentimenti che le chiedo di esprimere. Per dei personaggi come quelli dei miei film, alla cui espressione, più che alla parola, è affidato il manifestarsi degli stati d’animo, un’attrice come Monica è l’ideale. Ecco perché mi addolora fare ancora un film senza di lei. Ma non farò sempre film all’estero e in Italia sarà naturale tornare a lavorare insieme.
Da l’Unità, 9 aprile 1968
Ancora Antonioni su Zabriskie Point
Parliamo pure di Zabriskie Point, se volete. Parliamone oggi, tempo prima che queste righe vengano stampate. C’è una marcia su Washington, le università americane sono in rivolta, quattro ragazzi sono stati uccisi a fucilate in un campus dell’Ohio. È difficile respingere la tentazione di sentirsi, purtroppo, profeti. Preferisco invece riflettere su alcuni particolari psicologici della violenza. Sono convinto che i poliziotti non pensano alla morte, quando entrano in una università o quando affrontano una moltitudine. Hanno troppe cose da fare, troppe istruzioni da seguire. I poliziotti non immaginano la morte, come un cacciatore non immagina la morte di un uccello. Allo stesso modo, l’astronauta non ha paura non perché non sappia del pericolo, ma perché non ha tempo. Se i poliziotti pensassero alla morte probabilmente non sparerebbero.
Girare un film in America comporta un rischio solo: quello di diventare l’oggetto di un discorso talmente ampio da far dimenticare la qualità del film. Per il resto, è un’esperienza ricchissima. Sono andato in America perché è uno dei paesi, se non forse il paese più interessante del mondo in questo momento. È un luogo dove si possono isolare allo stato puro alcune verità essenziali sui temi e le contraddizioni del nostro tempo. Avevo nella mente molte immagini dell’America. Ma volevo vedere con i miei occhi, e cioè neppure da viaggiatore, ma da autore.
Il mio film non pretende certo di esaurire quello che può essere detto sull’America. È una storia semplice anche se il suo contenuto è complesso. Ed è semplice perché è al clima della favola che il film si atteggia. Ora, anche se i critici si oppongono, io credo una cosa: le fiabe sono vere. Anche quando con una spada fatata l’eroe sconfigge un esercito di draghi.
Se avessi voluto fare un film politico, sulla contestazione giovanile, avrei continuato per la strada imboccata all’inizio con la sequenza del meeting studentesco. Molto probabilmente, semmai un giorno i giovani radicali americani riusciranno ad attuare le loro speranze di cambiare la struttura della società, usciranno di là, avranno quei volti. Ma io li ho invece abbandonati per seguire il mio personaggio in un itinerario completamente diverso. Ed è un itinerario che percorre sì un lembo dell’America, ma quasi senza toccarla, e non solo perché la sorvola, ma perché dal momento in cui ruba l’aereo, per Mark l’America coincide con “la terra”, dalla quale appunto be needed to get off, aveva bisogno di staccarsi. Ecco perché non si può dire nemmeno che Zabriskie Point sia un film rivoluzionario. Sebbene al tempo stesso sia, nell’ambito di una dialettica spirituale.
Che cos’è insomma questa coercizione che mi si vuole infliggere di limitare il discorso a “quello che so”, che dovrebbe poi corrispondere, come sosteneva Aristotele, a quello che il pubblico crede di sapere, cioè al verosimile, tenuto conto delle opinioni correnti, della maggioranza, della tradizione, ecc.?
Certo, visto da questa vecchia angolatura critica il film, specie nel finale, può anche sembrare delirante. Ebbene, come autore io reclamo il diritto di delirare, se non altro perché i deliri di oggi potrebbero anche essere le verità di domani.
lo non sono americano e non pretendo di aver fatto un film americano, non mi stancherò mai di ripeterlo. Ma non credete che anche uno sguardo straniero, distaccato, abbia la sua legittimità? Un filosofo francese famoso per i suoi studi di estetica diceva: «Se guardo un’arancia illuminata da una parte, invece di vederla come appare, con tutte le sfumature di luce colorata e di ombra colorata, la vedo come so che è, di colore uniforme. Non è per me una sfera a tonalità degradanti, ma un’arancia».
Ecco, io ho guardato l’America come mi è apparsa, senza sapere cos’è. Mettiamo il discorso in questi termini, se volete. Che poi a furia di guardarla quest’arancia mi sia venuta voglia di mangiarla, questo è un fatto che riguarda i miei rapporti personali con l’arancia. Il problema cioè consiste in questo: se sono riuscito a esprimere le mie sensazioni, impressioni, intuizioni o no, e non se esse corrispondono a quelle degli americani.
Che un autore interiorizzi le proprie scelte politiche e sociali per poi manifestarle in un’opera — nel mio caso in un film — che attraverso immagini legate alla realtà da un filo fantastico rimandi a quelle determinazioni, non basta per far giudicare il film soltanto sulla base di esse. È il percorso della fantasia che entra in causa, e semmai questa parola: “poesia’, riacquista un senso oggi (il mondo salvato dai poeti?), se l’attributo di poetico sia da assegnare a Zabriskie Point (non sta a me giudicare), è in questa chiave che il film secondo me va guardato.
Da Giorgio Tinazzi, Michelangelo Antonioni. Fare un film è per me vivere, Venezia, Marsilio, 1994, pp. 91-94
Gian Luigi Rondi
Una storia d’amore a Zabriskie Point, il punto più basso e desolato dell’Arizona, un deserto bianco, calcinato e gessoso come il Mar Morto. Protagonisti, due giovani americani vittime delle insoddisfazioni, dei disagi, delle angosce di tanti giovani di oggi vittime, nello stesso tempo, quasi per fatalità, dell’incomprensione degli altri. Lui lavora e studia; è insofferente, ribelle, ma non è contestatario; le diatribe dei contestatari lo annoiano, anche se ha amici in mezzo a loro e, perciò, li frequenta.
Frequentandoli, si trova un giorno coinvolto in una sommossa studentesca; è armato, un poliziotto muore di fronte a lui, non è stato lui ad ucciderlo, ma è sospettato, indiziato, così pensa di fuggire rubando un aereo da turismo. Lei è segretaria, e forse amica, di un industriale che deve raggiungere a Phoenix dove c’è un importante riunione di lavoro. Va via da sola, in auto, perché vuol far tappa in mezzo al deserto, a meditare; (è un po’ hippy, indulge ai miti orientali).
Nel deserto, invece, a Zabriskie Point, incontra lui, che ha dovuto atterrare perché non ha più benzina. Sono diversi eppure si somigliano, così si guardano, si soppesano, e alla fine si amano, d’impeto, d’istinto, fra le pietre grigie e porose di quella regione quasi lunare (e la droga, cui lei ricorre, dà al “rito” dimensioni da love-in).
Poi lui, trovata la benzina, torna alla base, con l’intenzione di restituire l’aereo (mentre lei riprende la sua strada alla volta di Phoenix), ma all’aeroporto, dove lo hanno scambiato per un “pirata dell’aria”, parte un colpo che lo uccide. A lei, appresa la notizia per radio, non resterà che immaginare e sognare la distruzione di quel mondo che è stato loro nemico.
Destini avversi, fatalità sinistre, uomini nemici tra loro anche senza volerlo, anche senza colpa: questa la nuova cifra che ci propone Michelangelo Antonioni, dopo la trilogia dell’incomunicabilità (L’avventura, La notte, L’eclisse) e dopo l’inquieta ma positiva accettazione della vita affermata in Blow-Up.
Il ritorno al pessimismo appare motivato da un modo più sconfortato di guardare alle cose di oggi: ai tempi dell’incomunicabilità, erano uomini e donne che non riuscivano a capirsi, ad amarsi; Blow-up indicava l’epoca in cui i giovani (studiati in Inghilterra perché fossero i campioni più tipici della gioventù di quegli anni) accettavano la realtà anche sotto certe sue dimensioni segrete; il film di oggi, invece, tende a fare il punto sul momento in cui la realtà del mondo “reale” non accetta più i giovani ed anzi li respinge.
Antonioni, però, non ha svolto questo nuovo tema con l’intento di studiare un fenomeno sociale. Ha proposto dei personaggi, ancora una volta tipici, a suo avviso, di una tappa particolare del nostro tempo, e li ha fatti agire nel loro contesto umano e psicologico, spiegandoci di loro solo quel tanto che serviva a qualificarli e, appunto, a tipizzarli: l’ambiente studentesco da cui previene lui, i sottofondi hippies che, in parte, determinano lei. Per il resto, per tutto il resto, ha lasciato che agissero in modo diretto, incontrandosi, amandosi, perdendosi, in un clima che non vuol mai essere del tutto realistico e che, anzi, attraverso gli schemi di un apologo, tende a raggiungere i confini di una favola: la favola di un amore facilissimo in un mondo difficile.
Affidando questi personaggi, con stile grezzo e immediato, a una narrazione semplice e scarna che, dopo aver accettato, per la presentazione dei loro ambienti, le improvvisazioni e i ritmi cronistici del cinema verità, si distende poi in un lento fluire di immagini in cui cose e persone si vestono di note quasi identiche, fondendosi in eguali timbri visivi che trasformano la realtà in simbolo, chiarendo via via gli impliciti significati di quel desolato deserto, di quelle solitudini, di quell’amore che prima esalta e poi si dissolve nel nulla.
Certo quanti hanno ammirato le compatte qualità di Blow-up, la sua solida costruzione psicologica, i suoi splendori stilistici, guarderanno qui con aperta perplessità agli schemi intenzionalmente gracili della vicenda, all’assenza voluta di un impianto narrativo tradizionale, con nessi logici precisi e salde strutture; e anche quelli che accoglieranno le tesi dell’autore sui giovani di oggi e su quanti fanno loro la guerra, stenteranno a vederle davvero dimostrate da personaggi che, nonostante i chiari riferimenti, sono tipici solo fino ad un certo punto della società americana da cui si vorrebbero espressi.
Il pubblico, però, se in questo sarà deluso, si farà convincere in più punti dai pregi figurativi del film: quelle immagini a colori, ad esempio, che quando sostano a tracciarci di sfuggita certe tranches de vie quasi da Far West sembrano vecchi nostalgici acquarelli e che, invece, quando sintetizzano, con manifesti e cartelloni pubblicitari, i vari aspetti delle città moderne, si ispirano direttamente alla popart (i cui segni vistosi tornano poi nel finale, quando la ragazza immagina di far saltare in aria i simboli del mondo che li ha avversati).
Anche il sonoro va considerato con attenzione, per la sapiente contrapposizione di ritmi modernissimi a suoni reali e, soprattutto, ad improvvisi, abbacinati silenzi. E non si tratta di valori solo formali: sono connaturati spesso ai personaggi, ai sentimenti che debbono illustrare, alle azioni che sottolineano o determinano.
Da Il Tempo, 29 marzo 1970
Giovanni Grazzini
Per una quindicina d’anni Antonioni è stato col cinema il più sottile, seppure il più disameno, osservatore della crisi in cui si dibatte la borghesia, stretta alla gola dall’angoscia che le procurano l’urto con la Macchina e la impossibilità di controllare un processo socioeconomico trasferito dalla storia nelle mani della Massa. Allargando a poco a poco l’analisi dall’Italia al mondo, da una classe all’intera condizione esistenziale, Antonioni raggiunse il fondo del pessimismo con Blow-Up, in cui l’uomo contemporaneo, per salvarsi, fu invitato ad accettare il gioco della vita come una finzione: la civiltà della immagine, suprema solitudine, lasciava appena lo spazio all’autocommiserazione. Ebbene, con Zabriskie Point oggi Antonioni apre un altro capitolo, che rinnova il suo linguaggio, rinfresca la sua ispirazione e lo riaccende di entusiasmo.
Spinto dalla passione e dalla serietà di sempre, Antonioni si solleva dall’amara contemplazione d’un paesaggio sentimentale grigio e tedioso, alza gli occhi, si guarda d’intorno e scopre come il lamento universale non sia più motivato: la terra gira storta, ma ha ormai trovato nella polveriera dei giovani un conforto alla desolazione di esistere, una virtù dinamica in cui si esprime, col continuo mutarsi delle prospettive morali, il perenne reinventarsi della vita. Per convincersene Antonioni va negli Stati Uniti, prende dalla strada due giovani inquieti, Mark e Daria, li colloca sullo sfondo d’un’America contraddittoria, che ospita insieme la follia consumistica e i deliri della anarchia, e nel loro breve incontro vede riassunto il drammatico ma fervido destino che aspetta il mondo di domani.
Ambedue i giovani sono in rotta col sistema: lei, stanca dell’ambiente in cui vive come segretaria d’un affarista di Los Angeles, è partita in automobile in cerca di solitudine; lui, studente alla deriva, accusato dai compagni rivoluzionari d’individualismo borghese, dopo la morte d’un poliziotto in uno scontro all’Università di Berkeley ha rubato un aereo da turismo e si è diretto verso il deserto. Dopo un pazzo e poetico flirt tra cielo e terra, si prendono per mano e raggiungono Zabriskie Point, la terrazza panoramica affacciata sulla Valle della Morte che si stende fra il Nevada e la California, e qui trovano subito nel gioco e nell’amore il profumo di libertà che andavano cercando.
Ma nel rapporto che per brevi ore li lega ci sono accenti nuovi rispetto alla tradizione romantica. Quel loro festoso scherzare e abbracciarsi è un modo di sognare, d’inventare il futuro insieme a tutti coloro che la vecchia società respinge, siano negri siano hippies. È soprattutto la ricerca d’una vittoria sulla nevrosi dell’incomunicabilità, ottenuta sostituendo al mito del dollaro e del benessere privato la gioia del sentirsi, allacciati gli uni agli altri, in armonia con la natura, un deserto ripopolato di frutti e fiori di carne, nati dalla terra e dalla terra consumati.
Bruciato dal sole, il loro idillio è finito: spinto dall’amore del rischio, Mark, braccato dai custodi del Potere, si stacca da Daria e torna in volo a Los Angeles. L’aereo, dipinto di fiori, fa appena in tempo a posarsi che subito scatta la morsa del ferro e del cemento: un poliziotto spara, Mark muore sul colpo. Daria, appresa la notizia dalla radio, raggiunge la villa lussuosa in cui i suoi uomini d’affari discutono nuovi piani di speculazione, ma subito se n’allontana. Soltanto immaginarne l’esplosione, in un rogo che trascina in una fantastica danza cosmica tutti gli oggetti prodotti dalla civiltà industriale, la libera dall’incubo. Ecco un’eroina di Antonioni che finalmente sorride.
Benché forse dica poco o punto di nuovo, Zabriskie Point è un bellissimo film, che trova nell’antica tematica di Antonioni sulla difficoltà del vivere contemporaneo le sue radici polemiche nei confronti d’una società per tanti versi assurda e repressiva (qui il maggior bersaglio è lo spreco e la meccanizzazione), ma le prosciuga e scattiva per collocare la storia di Mark e Daria in uno spazio lirico in cui il senso misterioso della storia prevale sul giudizio sociale e politico, l’ansia di rinascere purgati dall’innocenza, alberi e acqua, sulla cupa violenza della morte.
Chi non ha mai risparmiato riserve sul cinema di Antonioni può dire senza sospetto che i critici americani, in questo caso, hanno preso, per miopia contenutistica, un abbaglio solenne. Guidato da un’invenzione visiva che ha del portentoso nel depurare la realtà d’ogni scoria psicologica per restituirla ai suoi valori primitivi, costruito con una sapienza narrativa che, alternando i toni secchi e nervosi a larghe pause meditative, conduce armoniosamente il racconto dai crudi modi documentaristici dell’inizio alla trovata memorabile della chiusa, il film è quasi tutto persuasivo (unico neo, qualche tempo morto e qualche cedimento nel dialogo), ma addirittura affascinante in quello che è il suo nucleo poetico: le scene d’amore vissute e immaginate nella Valle della Morte, viste col silenzioso stupore di chi assiste al miracolo della nascita delle forme dalla polvere. È qui, nel mutuo trapasso dalla realtà al sogno, più che nel simpatizzare con i gruppi radicali della nuova sinistra, che Zabriskie Point esprime la propria vera natura di favola rabbiosa e mesta, e Antonioni rivela, allargando il respiro e sposando la morbidezza alla crudeltà, la piena fioritura d’un ingegno che l’America dei giovani e degli immensi spazi ha aiutato a liberarsi dell’angoscia padana, trasfigurando in malinconia l’irraggiungibile speranza d’un’intesa fra ragione e natura. Se non ci sbagliamo, soltanto oggi, dopo essere stato fra gli autori più significativi del cinema intellettuale, Antonioni acquista piena statura di artista, comunica col grande pubblico.
Lo si legga come un ritratto delle minacciose cose d’America, talvolta appena corretto dall’ironia, o come una trepida carezza sul volto di adolescenti disperati, come la denuncia della spirale della violenza o il singhiozzo dell’Europa sui propri musei, Zabriskie Point è un film che colpisce con le armi autentiche della poesia. Anche se soltanto gli specialisti sapranno riconoscere nel montaggio il suo segreto, nessuno potrà sottrarsi all’incanto che desta la levità di questo realismo magico, l’alleanza fra la semplicità del simbolo e l’anosità del segno, il rapporto emotivo fra ambiente e personaggi in un panorama che, anche grazie alla fotografia a colori di Alfio Contini, raggiunge nelle scene del deserto la sua massima vetta espressiva su toni grigi, rosa e celeste, la recitazione spontanea dei due sconosciuti esordienti Mark Frechette (un exfalegname) e Daria Halprin, interpreti di se stessi, l’intelligente commento musicale di Pink Floyd.
Zabriskie Point è uno dei film più importanti dell’anno. L’unico, insieme al Satyricon di Fellini e a pochi altri, che non lasci alcun dubbio sulla vitalità degli autori italiani, e sul fatto che non c’è crisi per il cinema finché le sue immagini, baciate dalla grazia, ci aiutano non a sfuggire ma a comprendere il mondo in cui viviamo, sia pure a soffrirne i suoi indecifrabili rebus.
Da Corriere della Sera, 20 marzo 1970
Mino Argentieri
In Zabriskie point Antonioni coglie alcune verità sulla società americana ma si lascia sfuggire il filo del futuro sul metro di una visione più poetica e figurativa che critica. I forti limiti della sceneggiatura
Che ve ne sembra dell’America? Anche Antonioni ha risposto al quesito d’obbligo per chiunque, estraneo a quel paese, voglia conoscerlo da vicino e giudicarlo. La risposta ha indispettito la critica americana, a nostro avviso, per due ragioni: perché borghesi e benpensanti (tali sono i recensori che si guadagnano il pane e il companatico, lavorando per conto dei grossi giornali degli USA) non ammettono che un europeo ponga in dubbio la floridezza e la superiorità del modo di vita capitalisticoamericano; e perché sono stati scandalizzati da un film che trapianta una tematica cara all’underground nel cinema hollywoodiano, il più dispendioso e prestigioso.
Franchezza per franchezza, quest’ultimo Antonioni non ci entusiasma e lo scriviamo a chiare note. Ma i motivi sono diversi da quelli dei critici americani. La loro accusa di superficialità è solo un ipocrito rimprovero con il quale si punisce Antonioni per avere detto cose sgradevoli e sgradite sull’America. Da lui si pretendeva l’obbedienza a una artificiosa dialettica di luci e ombre, che sarebbe valsa a ribadire, conformemente a una norma inviolabile nel cinema americano mercificate, le capacità di recupero del sistema sociale e politico sulle sue contraddizioni insanabili.
Antonioni, invece, ha deluso le aspettative dei commentatori di oltre Oceano e composto un poemetto sulla irreparabile decadenza del paese di Dio, e il seme della speranza è andato a pescarlo tra le giovani generazioni e in mezzo a quanti reagiscono al non senso di una civiltà disumanizzata e si dibattono in una insoddisfazione lacerante.
Ora, a nostro giudizio, egli ha scelto male i portatori di speranza, giostrando stereotipi abusati e dimostrando, in ultima analisi, che le vie della rivoluzione americana (cioè del futuro dell’America) sono più evanescenti di quanto non lo siano in una realtà che è in movimento.
Mark e Daria sono dei rivoltosi potenziali. Mark, studente, partecipa alle lotte dei suoi compagni universitari, anche se ci si raccapezza confusamente e se lo si accusa di individualismo piccoloborghese. Non a torto, giacché Mark si annoia nelle discussioni, preferirebbe menar le mani (ma non muove un dito) e non gli dispiacciono il rischio e l’emozione. Per essere un candidato rivoluzionario, è un sensitivoumorale di specie letteraria, tenero come un fringuello. Criticabile da cima a fondo, un esemplare di impotenza rivoluzionaria e di velleità; ma Antonioni è indulgente verso di lui e lo trasfigura.
Lei, segretaria di un uomo d’affari è tentata di piantare baracca e burattini, consigli di amministrazione, uffici appollaiati su un grattacielo, un lavoro inutile, noioso e spersonalizzato. Mark, dopo aver assistito a uno scontro con la polizia durante il quale un negro è ucciso e un poliziotto ci rimette la pelle, s’impadronisce di un aereo e prende il volo, per «sollevarsi da terra». Daria, a bordo di una auto, cerca una specie di santone e passeggia nella Valle della Morte. I due destini, che si sono sgomitolati parallelamente, s’incrociano nel deserto e sboccia l’amore, l’elemento vitale indomabile e astorico.
Mark e Daria si separano. Il perché non è chiaro, visto che i due si piacciono c si amano. Ma il perché c’è. Senza separazione, come può Antonioni alzare il volume dell’intramontato motivo di amore e morte, che pervade Zabriskie point a ridosso di una cornice fitta di appunti vergati nel solco della più aggiornata, schematizzata e volgarizzata riflessione sociologica sul neocapitalismo?
Intanto, la logica va a ramengo. Per essere un ribelle. Mark è un tipo strano e si incaponisce a riportare il velivolo all’aeroporto da cui lo ha sottratto. Senso della proprietà altrui? Nemmeno per sogno: spasimi per il gusto dell’avventura, e poi vi sono esigenze di copione che vanno rispettate. La morte non deve essere solo metaforica — altrimenti chi ci piange su? — ma materializzarsi in un avvenimento traumatizzante e commovente. Il filo dell’amore deve infrangersi, per pizzicare le viscere, e perciò Mark si getta insensatamente in bocca al leone ed è fulminato dai poliziotti mentre sta atterrando. Daria apprende la notizia dalla radio, si reca nei pressi di Phoenix, nella villa ove l’attende il suo datore di lavoro, e immagina di far saltare in aria ii confortevole edificio, simbolo di una società sbagliata e iniqua.
Zabriskie point (il titolo si riferisce alla località ove Mark e Daria si conoscono) è il film più semplice e lineare che Antonioni abbia realizzato: il che depone a favore del successo che riscuote e forse sarà superiore ai precedenti. Stilista affascinante, Antonioni vi tesse un apologo elegiaco, che annovera gli squarci migliori nella proiezione di uno scenario di morte. In Zabriskie point si respira un’aria gelida, da favola di fantascienza che si svolge sull’orlo di un mondo immerso nella catastrofe, atrofizzato e giunto a una svolta decisiva: la fine è cominciata e lambisce il principio di una nuova epoca, di cui si intravvedono gli embrioni.
Una foresta di strumenti elettronici annuncia la pietrificazione delle coscienze; asettiche architetture sono avvolte in un silenzio cimiteriale; i tutori dell’ordine assomigliano, bardati da caschi con visiera protettiva, a novelle reincarnazioni dei cavalieri teutonici del Nevskij, la loro violenza è fredda, implacabile, automatizzata, robottizata. E la Valle della morte emblematizza la terra di nessuno, ove finisce la preistoria dell’umanità, ma non sorgono le fondamenta della storia, cioè del domani. La natura è tornata all’anno zero post diluviale e soltanto l’amore vi trasfonde un alito di vita,
Antonioni non si smentisce né nella sincerità del suo umanesimo offeso e risentito, né nell’estetismo cui allunga la corda. Nel suo film la morte è una bella morte, la rovina una stregante rovina, la tragedia una incantevole e rudiadosa tragedia. Contemplazione e struggimento hanno la preminenza e tendono a sdrammatizzare e a seminare gavitelli sospesi nel vuoto; la storia e la concretezza dei conflitti sociali subiscono un processo di rarefazione e offuscamento; il mito dell’innocenza stroncata e violentata e dell’istinto vitale risorge contrapposto ai vecchi e nuovi monumenti della morte e agli sfuggenti confini della rivoluzione.
Il tarlo del decadentismo non è inattivo e illumina le cause di un dissenso nei confronti dell’America neo capitalistica, invischiato in riserve che discendono dalla matrice del passato remoto e sfiorano appena un progetto avvenire misurato con il metro della diagnosi scientifica. Si può guardare all’America con l’aristocratico distacco e con la presunzione di una superiorità europea, propria del Cecchi di America amara e di Praz; si può guardare ad essa abbagliati dal mito cui prestarono fede e passione Pavese e Vittorini; ma anche per svincolarsi dal mito, senza riuscire a padroneggiare e razionalizzare la materia dell’osservazione. È ciò che succede ad Antonioni quando si serve della storia e della sociologia, ma le lascia sullo sfondo del paesaggio per far sopravanzare sentimenti invecchiati e convinzioni precostituite e coagulatesi attorno a una letteratura umanistica datata.
Dell’analista Antonioni non sempre ha la vocazione: se non la smarrisce, ci dà radiografie come L’avventura, se la perde, s’insacca nel vicolo cieco di Zabriskie point. Piuttosto egli è poeta e, sotto questo profilo, abbiamo apprezzato e ammirato Blow up a dispetto delle sue compromissioni con la metafisica. Anche in Zabriskie point la chiave di lettura è poetica; ma è sulla qualità di questa poesia che non siamo d’accordo con gli elogi tributati ad Antonioni. C’è troppo «poveticume» frammischiato a scorci di lirismo autentico (un esempio di lirismo autentico è il brano della moltiplicazione, generalizzante e fantastica, dei felici accoppiamenti).
Si pensi alla banalità dell’episodio della maglia rossa che Mark lancia a Daria dall’aereo e alla trovata delle schermaglie fra i due mezzi di trasporto. Se questa non è gastronomia cinematografica e ingegneria da romanzo per signorine, poco ci manca. Come spiegarsi simili sdrucciolamenti e la facilità delle annotazioni sulla solitudine dei vecchi, sui cartelloni pubblicitari (propinatici finanche dai documentari sexy — esplorativi), sull’ex campione scovato nel posto più impensato d’America, sull’egoismo e sull’avarizia dei bottegai, sulla mostruosità dei bambini che assediano Daria e la palpeggiano?
Come spiegarsi la convenzionalità della sequenza iniziale, che pare asportata da un film di Samperi sulla contestazione giovanile? A prima vista, ce la spieghiamo rinvenendo anche in Zabriskie point il punto dolens di molti film di Antonioni: una sceneggiatura al di sotto del contesto visuale dell’opera. La contraddizione rimonta ad altri incidenti, ad altre sfasature, ad altri stridori. Antonioni concepisce per immagini e commette l’errore di trascurare la componente drammaturgica e concettuale dei suoi film. Il vizio costituzionale, in Zabriskie point, è però aggravato da una marcata reviviscenza romantica, che fa di questo un film arretrato rispetto alle situazioni che evoca e chiuso in una visione che oscilla compiaciutamente fra eros, morte e rivoluzione, scorgendo di questa i segni più dubbiosi e fumosi, come si conviene al romanticismo.
Checché ritengano i nostri amici e colleghi, al cui entusiasmo non ci associamo, Zabriskie point è una rimasticatura culturale ad uso e consumo delle branchie più avvertite dell’industria del consumo cinematografico: pilucca nei repertori e nei languori della letteratura «hippy» e non si accorge che anche su quei versanti si manifestano sintomi di una partecipazione alla responsabilità e al mutamento sociale; si balocca con fughe e tempi sospesi di meditazione, che la storia supera ed emargina ogni giorno; si attarda su una poetica del disagio e la smalta al livello della middle culture. laddove l’underground americano l’ha espressa con dirompente incisività e delirante fantasia; rimesta nel bagagliaio dell’amore quale fonte di libertà e di gioia e non si avvede di ripetere idilliache ipotesi, libertarie e ludiche, che sono meno giovani di quanto non appaiono e volgono in utopia semplicistica lo scioglimento di nodi sociali intricatissimi; si abbandona a un simbolico finale esplosivo popinformale, figurativamente suggestivo. ma che ha il calco di uno sfogo compensatorio e anarcoide e di una soluzione appiccicaticcia ed emotiva.
Naturalmente, Antonioni è sempre Antonioni, così come Fellini è sempre Fellini e Visconti è sempre Visconti. Lo stile li salva sul ciglio del burrone. La morte di Mark, in Zabriskie point, è una pagina di vera poesia cinematografia; le scene delle agitazioni studentesche, girate sul vivo, sono agghiaccianti ed altrettanto lo sono le sequenze in cui si esemplifica lo strapotere della polizia e l’avvento di un regime repressivo e di costrizione. La tela ammalia ed è logico che accada, dal momento che Antonioni è un egregio pittore del cinema.
Nondimeno il dispendio del talento pittorico e descrittivo non libera dalla sensazione che, alla pari di Fellini e Visconti, anche Antonioni sia in preda a una crisi che il soggiorno americano non ha contribuito a risolvere. I tre grandi del cinema italiano sono in crisi: di questo siamo certi e la loro non è crisi di stanchezza o di senilità artistica ma di un’angolazione critica che risente del ritardo con cui rispettabili creatori tengono il passo con modificazioni, nella vita sociale e culturale.
Da Rinascita, 3 aprile 1970
Filippo Sacchi
Ogni giorno di più si constata che non siamo mai stati male informati al mondo come in quest’era in cui, non bastando più i mezzi di comunicazione che offre la terra, si adoperano anche quelli del cielo. Cosa avevate capito voi dai primi resoconti delle reazioni del pubblico americano su Zabriskie Point? Che aveva irritato e scandalizzato il modo con cui Antonioni aveva diffamato la gioventù americana, rappresentandola come una generazione perduta di oziosi e drogati, ribelli alla società, e la società stessa come un mostruoso Moloch che strangola e stritola tutto, idee e scatolame, uomini e dollari.
Ora, certo, anche alla base di quest’opera di Antonioni c’è la foresta sociale, come d’altronde in tutti i tempi, in una forma o nell’altra, esplicita o latente, fu sempre alla base di ogni opera di creazione e di pensiero. Egli non pretende affatto di dare un’immagine panoramica e collettiva della gioventù americana. Si assiste solo, al principio, a una riunione contestataria di giovani di varie tendenze, concordi solo nel cercare una tattica eversiva di lotta sociale, però discordi nei mezzi e nei fini. Nessuna traccia di droga, ma se mai di intelligenza. D’altronde in una scena brevissima, di pochi minuti e, per combinazione, chi emerge, chi si staccherà e si imporrà alla nostra attenzione, quello che noi seguiremo sino alla fine, è un isolato, uno che più tardi, al momento di sparare contro un poliziotto, esiterà, per cui sarà preceduto da un altro, e poi si allontanerà da solo, per una evasione dalla quale tornerà per morire.
Mark (l’attore Mark Frechette) va in un campo di parcheggio per aerei privati, ne piglia uno e volta verso il deserto. Siamo infatti a Los Angeles, e il deserto è vicino. La sua rotta segue la grande strada che una ragazza, Daria (l’attrice Daria Halprin) sta percorrendo in quel momento in macchina, per recarsi a un appuntamento in un albergo di lusso, costruito per offrire ai fortunati delle vacanze corroboranti nel deserto (deserto con piscina, golf, cucina scelta, bar, ecc.), non lontano dal famoso Zabriskie Point. Nel deserto, una donna che scende da una macchina si vede subito.
Mark la vede e quando Daria risale in macchina incomincia a giocare a rincorrerla. Le passa rasente sul tetto, risale, volteggia, ritorna, la supera di fianco: tante ne fa che, incuriosita, la ragazza si ferma. Atterraggio, due passi. Perché non andrebbero sino al Zabriskie Point che è, se così si può dire, il belvedere sulla famosa valle della Morte? Ci vanno. Si stende, sotto, la valle che si dice sarebbe un fondo marino emerso millenni prima, e rimasto intatto. Scendono la china. Ridono, si rincorrono, cascano l’uno sull’altra. Si abbracciano.
Qui direte: “Ho capito, ci siamo”. E invece, insensibilmente, tutto si sposta su un piano magico e allucinato. Perché davvero si abbracciano, si avvinghiano, si baciano, si mordono, scivolano sulle sassaie, si rannicchiano contro i massi, tornano a rotolare all’infinito. E stranamente un po’ sono nudi, un po’ sono vestiti. Sinché a un certo punto, come per gioco ottico, si sdoppiano in due coppie, e poi tornano a essere una coppia sola, e poi di nuovo due, e intanto è come se a poco a poco noi ci sollevassimo in aria e il paesaggio a mano a mano sempre più si scoprisse in tutto il suo spettrale biancore di morte, e allora vi accorgerete che su tutti gli altri declivi della valle altre coppie, dieci, venti, trenta coppie, tutte simili alla prima, si avvoltolano abbracciate. Ed ecco che, di colpo, ci troviamo fuori del tempo, mille anni indietro o mille anni avanti, quando sul pianeta, fulminato dagli uomini, umane generazioni spunteranno nude per moltiplicarsi in altri millenni, sino a una nuova distruzione.
Questo vi dà l’idea del piano di distacco e di angoscia storica, così lontano dal pettegolezzo polemico, su cui Antonioni imposta la sua protesta. E quando, con un’arte quasi magica di trapasso, egli ci riconduce alla realtà, e Mark e Daria si separano, e Mark, atterrando a Los Angeles, troverà due palle di poliziotti che lo inchioderanno nella carlinga, soltanto perché sospetto di un delitto che egli non ha commesso, e Daria apprendendolo avrà un impeto d’odio e di ribellione contro la società che condanna e manda a morte perché la sua legge esige che si condanni e si mandi a morte qualcuno: ecco che, ancora una volta, con una potenza magica, quasi ariostesca, di trapasso dal reale all’assurdo, il film si trasforma di nuovo, istantaneamente, in allegoria. Davanti alla rabbia allucinata di Daria saltano tutti i sacri simboli della società affluente: salta l’albergo di lusso, saltano i pupazzi pubblicitari, i cartelloni, i frigoriferi, le radio, le supersport, i giocattoli dei bebè. È l’apocalisse di un mondo tradotta in spettacolo pirotecnico, di un virtuosismo coloristico vertiginoso: abbagliante girandola finale di una civiltà.
Spero di essere riuscito a chiarire al lettore che qui siamo già nella classe del cinema assoluto.
Da Il Corriere della Sera, 5 aprile 1970
Alberto Moravia
In Zabriskie Point di Michelangelo Antonioni molti hanno creduto di notare una certa quale sproporzione tra l’esile storia d’amore e l’apocalisse finale. Effettivamente se si legge il film come una storia d’amore, la sproporzione è innegabile. Due ragazzi si incontrano per caso, si amano e dopo essere stati insieme un paio d’ore (il tempo strettamente necessario per fare l’amore in maniera non del tutto brutale) si separano. Lei continua il viaggio in automobile verso la villa dell’uomo d’affari di cui è la segretaria. Lui torna all’aeroporto da cui ha spiccato il volo, per restituire l’aeroplano che vi ha rubato. Sfortuna vuole che al momento dell’atterraggio, la polizia spari e l’uccida. La ragazza apprende la morte del suo compagno dalla radio dell’automobile. E allora, nel suo indignato dolore, immagina che la villa dell’uomo d’affari venga ridotta in cenere da una deflagrazione termonucleare.
Tanto più che la morte del ragazzo non sembra essere il risultato di una di quelle situazioni americane terrificanti di conformismo e di ipocrisia così spesso denunziate dal romanzo e dal cinema degli Stati Uniti. Mark, è vero, muore ucciso dalla polizia; ma la sua morte sembra e forse è quasi un errore, un caso, una fatalità.
Ma c’è un altro modo di leggere il film. In questa lettura, la storia d’amore non è che un aspetto tra i tanti di qualche cosa di molto vasto e importante; così come l’errore della polizia non è anch’esso che un particolare di un quadro assai più ampio e complesso.
In altri termini, la lettura non va fatta nel senso di una narrazione tradizionale, con un inizio, uno sviluppo e una conclusione; bensì come la rappresentazione del conflitto di due opposte visioni del mondo.
Letto in questo modo, Zabriskie Point appare allora come un film equilibrato al quale forse, nuoce soltanto di essere, sia pure solo apparentemente, “anche” una storia d’amore.
Qual è il contrasto di fondo che costituisce l’elemento propulsore e veramente interessante di questo film singolare?
Forse Antonioni non ne è stato del tutto consapevole. Forse, come avviene in generale agli artisti, egli è arrivato per conto suo, coi mezzi “inconsci” dell’intuizione artistica, alle stesse conclusioni a cui altri erano già pervenuti col pensiero critico.
Ma è fuori dubbio, ad ogni modo, che il film adombra il conflitto ben noto tra i freudiani istinto di vita e istinto di morte. Eros e Thanatos e (forse più esattamente) tra concezione ludica e concezione utilitaria della vita.
Guardata in questa prospettiva, la vicenda di Zabriskie Point si organizza e si articola in maniera coerente, senza più alcuna sproporzione ed esilità.
La vita, il gioco, il piacere sono attività fine a se stesse, non hanno altro scopo all’infuori, appunto, della vita, del gioco, del piacere.
Così si spiega perché Mark, il ragazzo contestatore, contesti anche la contestazione, la quale ha pur sempre uno scopo; e poi rubi l’aeroplano per il solo gusto di fare delle capriole in cielo; e quindi faccia la corte a Daria soltanto perché è divertente fare la corte con l’aeroplano ad una donna che corre in automobile; e infine faccia l’amore con la ragazza perché è bello giocare con il proprio corpo e con il corpo altrui.
La ragazza, dal canto suo, agisce nello stessissimo modo: per gioco, per piacere, senza, è proprio il caso di dirlo, secondi fini.
Questo incontro dei due giochi, dei due Eros, culmina nel lovein immaginario, tra le sabbie della Valle della morte. Che vuol dire quella scena? Vuol dire che si dovrebbe sempre fare così; che gioco e Eros fanno comunicare ed amare; che insomma la vita non dovrebbe avere altro scopo che la vita.
Ma il vallone in cui avviene il lovein è un luogo di assetata aridità, di completa mancanza di vita. Non per nulla si chiama Valle della morte.
E qui appare l’istinto di morte al quale si contrappone l’istinto di vita, Eros, il gioco fine a se stesso.
Quest’istinto è esemplificato in diversi modi, per tutto il film. È la polizia che dà l’assalto all’università; è l’aeroporto in cui sono custoditi gli aeroplani, strumenti di libertà e di gioco; è il boss di Daria coi suoi affari di speculazione edilizia; è il villaggio in cui non vivono che vecchi decrepiti e ragazzi minorati; è la grottesca famiglia borghese che, fermandosi in margine alla Valle della morte, si augura che vi sorga al più presto un “drivein”; sono gli affaristi che nella villa del boss di Daria discutono sul modo migliore di sfruttare in senso turistico le bellezze del deserto; sono infine, i poliziotti, in tutto simili a robot o a marziani, che, come Mark atterra, lo ammazzano senza motivo.
Così il conflitto si chiuderebbe, come tanti film americani antichi e recenti, come Easy Rider, come Bonnie e Clyde, con la vittoria di Thanatos su Eros, dell’utilità sul gioco, della morte sulla vita.
A questo punto però scatta, fuori d’ogni logica narrativa tradizionale (però già anticipato e preparato dal visionario lovein collettivo della Valle della morte) il furore profetico di Antonioni.
Daria immagina che un’esplosione termonucleare distrugga la villa.
La ripetizione dell’esplosione, così compiaciuta e così spietata, fa intendere che per Daria la villa è il simbolo dell’intera civiltà consumistica e conferma, se ce n’era bisogno, che il film non è soltanto una storia d’amore ma anche e soprattutto, l’espressione di un sentimento di aspro e polemico rifiuto, secondo la tradizione europea del rispetto della persona umana, il quale, però, sembra portare alle stesse conclusioni delle diagnosi freudianemarxiste formulate dalla contestazione.
Così la concezione dialettica e psicanalitica del male come repressione si ricongiunge curiosamente alla concezione moralistica del male come empietà.
Si scopre che la Bibbia e il Vangelo avevano detto le stesse cose di Freud e Marx. Il nesso tra queste due concezioni convergenti verso la stessa condanna, va ricercato, in Zabriskie Point, nella conclusione apocalittica.
Certo, l’apocalisse è una punizione antica e inverosimile. Ma la catastrofe termonucleare, resa forse fatale dalla stessa logica interna della civiltà, le ha restituito da ultimo un’attualità e una verosimiglianza minacciose.
Tutta l’originalità di Zabriskie Point sta in questo finale, in questa profezia del disastro atomico che “punirà” la civiltà consumistica per aver permesso che Thanatos prevalesse su Eros.
Chiaramente, l’America è apparsa ad Antonioni come il luogo dove il fine, cioè l’uomo, diventa il mezzo e il mezzo, cioè il profitto, diventa il fine. Dove le cose valgono più delle persone benché siano prodotte per le persone. Dove, infine, questo capovolgimento funesto dei valori è avvenuto per così dire “in buonafede”, per le vie misteriose di un bene (la civiltà industriale) che alla fine si è rivelato un male.
Insomma l’America è un luogo arido come il deserto di Zabriskie Point, in cui è impossibile amare ed essere amati. Ma cos’è l’amore se non la vita stessa nella sua forma originaria? Dunque l’America, così com’è oggi, è ostile alla vita.
Si viene qui alla vera sostanza della controversia tra Antonioni e la critica americana.
Ciò che la critica ha rimproverato ad Antonioni non è tanto di aver condannato l’America quanto di non aver motivato in maniera “razionale” la condanna.
Prendiamo Greed, il memorabile film di Stroheim, anch’esso ambientato in parte nella stessa simbolica Valle della morte. L’avarizia che, secondo il regista, minerebbe la civiltà degli Stati Uniti, è pur sempre un motivo serio e plausibile.
E in un film come Bonnie e Clyde i due protagonisti almeno sono due autentici gangster, la cui rivolta, forse giustificata, non poteva però non finire in una catastrofe.
Invece Mark e Daria non sono che due amanti. Antonioni ha pesato un’intera civiltà di contro all’amore e l’ha trovata mancante.
Secondo la critica americana questa operazione è illegittima; un esile idillio non può servire da detonatore alla fine del mondo.
Ma abbiamo già dimostrato che questo modo di lettura di Zabriskie Point, favorito, bisogna riconoscerlo, dal regista stesso con la sua tecnica metaforica, non è giusto né proficuo.
Ad ogni modo, anche a voler accettare la tesi superficiale e disattenta del flirt che scatena l’apocalisse, secondo noi bisogna considerare questa sproporzione tra causa ed effetto non tanto come un difetto quanto come il carattere distintivo che conferisce originalità e novità al film di Antonioni.
Infatti. Film critici nei confronti dell’America ne sono stati fatti in tutti i tempi e bisogna riconoscere che i primi a mettere in luce e a condannare gli aspetti negativi dell’”american way of life” sono stati proprio i registi americani.
Basterà ricordare per esempio il già citato Easy Rider, nel quale l’intolleranza razzista e conformista americana è denunciata con una violenza di cui non c’è traccia in Zabriskie Point.
Eppure la critica americana non ha affatto attaccato Easy Rider, al contrario. Perché questo? Perché né in Easy Rider, né in alcun altro film americano o europeo sugli Stati Uniti era mai stata prospettata l’ipotesi nuova e sconvolgente che un fuoco “moralistico” possa un giorno distruggere la superba Babilonia moderna, cioè gli Stati Uniti.
Insomma, consapevolmente o no, Zabriskie Point è una profezia di tipo biblico in forma del film. Nei tempi in cui la religione contava ancora, questo genere di profezie erano la normalità. Quattro secoli orsono, un quadro come quello in cui Durer ha rappresentato Lot, sua moglie e le figlie che camminano tranquillamente per un sentiero rupestre mentre, all’orizzonte, torrenti di fumo e di fiamme salgono al cielo dall’incendio di Sodoma e Gomorra, descriveva qualche cosa che per lungo tempo si era ritenuto che potesse avvenire realmente.
Antonioni probabilmente non è un grande lettore della Bibbia, benché, ovviamente, in lui hanno agito inconsci, remoti archetipi culturali. Ma gli americani la leggono o almeno l’hanno letta fino a ieri. Proprio la sproporzione tra l’idillio detonatore e la conflagrazione finale li ha messi in sospetto. Hanno sentito che non si trattava di uno dei soliti polemici giudizi sociologici ma di una “profezia”. Di qui la loro reazione.
Il cinema è di solito narrativo, ossia racconta eventi che si verificano nel tempo.
L’originalità strutturale di Zabriskie Point sta proprio nella maledizione finale che proietta il film fuori della durata narrativa per mezzo di un potente scatto morale.
L’apparente mancanza di rapporto tra il giocondo e ignaro banchetto del biblico re di Caldea, Baldassarre, e la mano misteriosa che scrive sul muro le tre parole profetiche “Manes, Thecel, Phares” (Re di Babilonia, devi morire). Nessuna inchiesta sociologica ha avvertito Baldassarre che al colmo della prosperità e della potenza, il suo regno sarebbe stato invaso dai Medi, e Dario l’avrebbe ucciso e avrebbe preso il suo posto sul trono di Babilonia.
Come in Zabriskie Point anche nel racconto biblico la causa della catastrofe non è esplicitamente indicata; ma si può supporre che Baldassarre avesse oltrepassato senza accorgersene, nello stesso modo che la civiltà puritana statunitense, i misteriosi e controversi confini che separano il bene dal male.
La prova che questo è il senso vero di Zabriskie Point sta, come al solito, nella sua riuscita estetica, verificabile in ogni sequenza.
Per esempio: le notazioni sulla vita urbana a Los Angeles, gli scorci descrittivi sul “big business” americano; l’amore tra l’aeroplano e l’automobile, nel deserto; gli amplessi nella Valle della morte; la morte di Mark al suo ritorno all’aeroporto, certamente la cosa più bella del film.
Ma il punto di forza è pur sempre la catastrofe finale immaginata da Daria nel momento in cui, come le donne di Lot, si volta indietro a riguardare la villa del suo boss e la vede esplodere, disintegrarsi.
Antonioni ha voluto rappresentare con le immagini del cinema la disintegrazione già avvenuta da tempo nella nostra cultura: e ci è riuscito con la memorabile sequenza finale della distruzione. Tutti quei prodotti della civiltà del consumi, dai libri alle macchine, dallo scatolame all’abbigliamento, dagli elettrodomestici ai mass media, che se ne vanno in briciole tra il fumo e le fiamme, dopo che la villa è esplosa, e, proiettati nel cielo, ricadono giù lentamente come le ceneri e i lapilli di un’eruzione; danno molto bene l’idea di un’apocalisse industriale e tecnologica provocata dalla definitiva vittoria della morte sulla vita nella nostra civiltà, appunto, industriale e tecnologica.
Ci sono nelle centurie astrologiche di Nostradamus due strofe che sembrano descrivere il finale termonucleare del film di Antonioni:
Il dito del destino scrive e passa, avendo scritto
E né la tua pietà, né la tua sapienza,
Possono fare che esso sgarri di una mezza linea
Né tutte le tue lagrime che esso cancelli una sola parola
La grande città sarà devastata,
Degli abitanti nessuno sopravivrà,
Muro, sesso, tempio e vergine violata,
Per ferro, fuoco, peste, cannone il popolo morirà.
Antonioni non “desidera” certo la fine del mondo; come del resto, con ogni probabilità, non la “desiderava” Nostradamus. Bisogna invece vedere in Zabriskie Point il recupero, a scopo di poesia, di un “genere” che si poteva supporre ormai estinto: quello della profezia, del vaticinio, della visione escatologica.
Questo ricupero è tanto più notevole in quanto effettuato da un artista che finora aveva mantenuto la propria visione del mondo nei limiti di una tematica individuale. In realtà, con l’esplosione finale di Zabriskie Point, abbastanza logicamente, è esplosa pure l’arte di Antonioni.
L’avvenire ci dirà se il regista nei suoi film futuri terrà conto di questa esplosione oppure, come spesso avviene, riprenderà e svilupperà nuovi temi sia in opposizione a “Zabriskie”, sia invece in direzioni completamente inedite.
Da L’Europeo, 25 maggio 1970
Guido Aristarco
Blow-Up e Zabriskie Point, di là da ogni giudizio di valore e raffronto artistico, due film chiave nell’opera dell’autore. Guardando alla sua visione del mondo, il primo chiude un periodo, quello dell’“avventura dell’anima” al centro della precedente tetralogia; e il secondo — che conferma eccezionali qualità espressive, intuizioni profonde e bellissime — ne apre un altro. Già in Blow-Up si avvertivano notevoli cambiamenti. Nel mettere in crisi un certo modo di “fare cinema” e la fotografia elemento primario del cinema stesso, il regista dava all’uomo una natura e un peso avanti negati a favore della donna, in secondo piano dinanzi a Thomas, il personaggio principale così legato alla propria “macchinetta”, all’apparecchiò fotografico, da spingere «fino all’eroismo la passività di testimone».
Protagonista, non testimone, vuole essere appunto l’Antonioni di Zabriskie Point. «Il mio nuovo film rappresenterà per me un impegno morale e politico più scoperto», aveva promesso; «per noi registi si tratta di trovare un accordo nuovo tra realtà e immaginazione». In Zabriskie Point l’uomo continua ad essere, dopo Blow-Up, il personaggio principale, ma contrariamente a Thomas che crede di vedere e non vede, proprio perché porta fino all’eroismo la passività di testimone e diventa così metaforicamente cieco, Mark vuole vedere e vede, almeno entro certi limiti; e al tempo stesso il suo peso equilibra quello della donna.
Daria, con un rapporto dialettico “positivo”. Per la prima volta in Antonioni l’uomo è più riflessivo, più ricettivo della donna. Come l’architetto de L’avventura, il romanziere de La notte e l’ingegnere de Il deserto rosso, anche Mark è un intellettuale. Ma, contrariamente a loro, non è immerso nella “noia” e nella “disattenzione” intese quale distacco dalla realtà; non è degradato a oggetto e a sua volta non degrada a oggetto la donna. Anticonformista e contestatore, è disposto a dare la vita per contribuire a modificare il mondo, sente il bisogno di fare subito qualcosa: gli piace rischiare come quando, all’inizio, partecipa all’occupazione dell’università e, alla fine, riconsegna l’aereo che aveva “rubato” per «alzarsi da terra».
Analogamente a quelli del suo gruppo, dal quale pure dissente (appunto perché rifiuta i “tempi lunghi”, la “teoria”, l’attesa), è legato alla realtà, o almeno così vuole essere: respinge il sogno, l’“immaginazione” derivante dalla droga e rinuncia alla sigaretta con la marijuana che Daria gli offre.
Anche il librarsi in aria di Mark con l’aeroplano, come il viaggio di Daria con l’automobile presa da un amico, si rivela una illusione. Il deserto e la vallata, pur avendo le dimensioni dell’allegoria — elemento espressivo sempre presente in Antonioni — respingono il significato di contrasto che assumevano la “spiaggia rosa”, di corallo ne Il deserto rosso, e il volo in aereo di Vittoria ne L’eclisse. In quel luogo di morte, forse neppure l’amplesso tra i due avviene, non è reale, ma immaginato da Daria nel suo sogno di libertà sessuale.
L’aridità fisica e interiore, che circonda i due giovani, è già sottolineata dalla megalopoli in cui i cartelloni pubblicitari, numerosi e dalle dimensioni immense, sommergono uomini e case, e dal bar del deserto dove Daria si ferma per telefonare: il decrepito ex campione di boxe, l’anziano cliente che fuma e beve birra con gesti meccanici inchiodato alla sedia, sono dei fossili, materia inerte al pari dei manichini di donne bellissime e di bambini ben nutriti che dalla televisione invitano a lasciare «quel manicomio assolato della città».
È vero, anche Mark sarà sconfitto, e ne apprendiamo le cause: il suo isolarsi dal gruppo, dagli altri, pur avendo fatto la scelta di appartenere ad una parte invece che ad un’altra, cosciente che occorre individuare il nemico per combatterlo; il suo voler fare subito qualcosa, qualsiasi cosa. La ribellione è individuale, astratta, in un certo senso romantica.
La sconfitta porta tuttavia ad esiti positivi. Dall’incontro con Mark, Daria prende coscienza delle proprie irrequietezze nel vivere nell’ambiente in cui vive, e ad esso si oppone, volta le spalle, dopo averlo visto deflagrare nella fantasia, non più sotto l’influsso della marijuana. Durante le esplosioni che si succedono nell’immaginazione di Daria, prima lentamente e poi con frequenza accelerata e infine con movimenti, le immagini dalla sagoma del fungo atomico vengono ad assumere aspetti informali e pop; in uno spazio quasi cosmico, mass media (libri, giornali, tv) e beni di consumo e ogni altra cosa sono ridotti a frammenti e grovigli galleggianti senza peso. Anche qui l’allegoria ha un significato diverso dalla lampada accecante che occupava tutto lo schermo nel finale de L’eclisse.
Non siamo più dinanzi ai “colori dell’angoscia”, e dell’angoscia dei personaggi nella tetralogia di Antonioni, assunti a paradigmi universali.
È un mondo che questa volta deflagra, non il mondo. Più che una “profezia biblica” ci sembra la constatazione di un futuro già cominciato, l’inizio di un’epoca in cui molti di noi sono incapaci a valutare e dominare una «fenomenologia fondata su una quantità enorme di immagini». «I maggiori progressi della civiltà sono i processi che distruggono le società nelle quali si verificano», afferma il matematico e filosofo inglese Alfred North Whitehead.
Antonioni nel presentarci questa quantità enorme di immagini, questa fenomenologia che molti cominciano a non saper più valutare e dominare, il risultato cui “simbolo, comunicazione e consumo” vogliono condurci, non dice né ha la presunzione di dire cose nuove; ma e importane sul piano del giudizio culturale, e inconsueto a livello espressivo, il modo con il quale drammatizza la materia.
Facendoci balenare dinanzi agli occhi il magma in una dimensione positivamente provocatoria, legando l’ecologia alla manipolazione dell’autentico e a un processo di “alienazione”. «Dei fenomeni straordinariamente vitali si stanno manifestando un po’ da per tutto», afferma, «ed e possibile e auspicabile che il mondo nei prossimi anni sia diverso da quello di oggi».
Da Cinema Nuovo; XIX, n. 205, maggio-giugno 1970, pp. 205210
Tullio Kezich
Zabriskie Point segna il punto massimo di depressione geologica negli Stati Uniti. Scegliendo questo titolo per il suo film, Michelangelo Antonioni ha voluto dargli un significato simbolico: gli Stati Uniti stanno attraversando la crisi più profonda della loro storia. A 58 anni il regista italiano si scrolla di dosso il pessimismo esistenziale delle sue opere più famose e sposa senza riserve la causa dei giovani: la società dei consumi è condannata a esplodere, per cedere il posto a forme di vita nuova.
Come ai tempi delle traduzioni e dei saggi di Vittorini e di Pavese, l’America continua a essere «il gigantesco teatro dove con maggior franchezza che altrove viene rappresentato il dramma di tutti»: Antonioni si muove nella tradizione americanista della cultura italiana, anche lui assume gli USA come una metafora dilatata e appariscente della nostra realtà.
Non mancano in Zabriskie Point crude notazioni sulla seconda guerra civile americana, tuttora in corso fra polizia da una parte e studenti e negri dall’altra; né mancano pagine di raffinato lirismo figurativo. Ma ci sembra che la saldatura fra l’osservazione sociologica e la trasfigurazione fantastica non avviene: sicché il film si sviluppa su due piani, imbarazzanti l’uno per l’altro, e nella sovrapposizione di verità e poesia pecca giovanilmente di ingenuità.
Da Tullio Kezich, Il Mille film. Dieci anni al cinema 1967-1977, Edizioni Il Formichiere
Goffredo Fofi
A giudicare dalle riviste della nuova sinistra americana, non è che Easy Rider sia molto piaciuto, laggiù. Su Antonioni i pareri sono discordi: alcuni rari lo contrappongono aggressivamente a Hopper, dicendo a quest’ultimo di andare a scuola dal ferrarese per capire come van fatti i film sui giovani USA, i più li stroncano come fasulli entrambi. I borghesi e i giovani affollano le sale dove si dà Hopper, disertano Antonioni. Anche da noi Easy Rider ha molto più successo, ma Antonioni ha il vantaggio di una identificazione di sguardo con la borghesia avanzata nostra e si conquista questa fetta di riserva.
Nessuno dei due film ci convince troppo, ma mentre dal primo, assieme a tutti, siamo colpiti per la forza di una testimonianza che ci pare abbastanza genuina nonostante la sua non generalizzabilità, il secondo ci pare opera di un regista costantemente provinciale, nonostante lo sforzo di minor vacuità rispetto a Blow-Up. Moralisticamente, confessiamo una prevenzione contro Antonioni dovuta, nell’ordine: ai suoi atteggiamenti di gran sofferente; al costo del film (quattro miliardi e mezzo, con appannaggio personale di trecento e passa milioni, e due anni di lavorazione) specialmente se paragonato a quello del film di Hopper, nato in casa e in economia; al suo tender da sempre a massimi problemi che riesce assai male a controllare (come nove registi italiani su dieci, che partono sempre sparati mirando al sole, ad affrontare Dio Rivoluzione Vita Umanità Apocalisse, con l’immensa capacità di trasformarli in merda e di ritrovarsi alla fine col culo per terra) da quando ha abbandonato un autobiografismo che peraltro ha ben capito che sarebbe ormai insostenibile; infine al suo essere perennemente approssimativo (come dieci registi italiani su nove).
Antonioni in USA ha cercato di essenzializzare una materia enorme, di offrire il succo di una svolta storicosociale di immensa portata, della fine di un mito e della faticosa nascita del nuovo. Ha fatto ricorso al sogno, all’utopia, alla profezia, all’astrazione attraverso la fiaba. Ma pochi registi sono meno portati all’astrazione di lui, fondamentalmente sentimentale e incapace di cercare e scoprire il filo non tanto segreto ma certo dialettico di un’analisi determinata. Finora, fino ai simbolismi del film ravennate e del film londinese, si era giustamente limitato a narrazioni di comportamenti, a piccole storie ma con pretesa di” illuminarsi” di grande visione storicofilosoficasociologica.
Senza un metodo d’analisi (che non può che essere marxista, ma, concediamo, anche borghese d’influenza marxista, se intelligente) e giustamente insoddisfatto dei suoi vecchi mezzi, ha ondeggiato alla ricerca di un modo più denso di affrontare il magma impressionante e sconvolgente che gli stava di fronte, e ha cercato di ridurre il tutto a una fiaba che fosse estremamente significante, eppure immediata nella sua assoluta semplicità. Ma la semplicità non poteva essere in questo caso che dono degli dei della storia, e la fiaba, stemperandosi in moralità da favolello, si è tutta squagliata in banalità priva d’immediata pregnanza come di quell’ambiguità (produttiva) che permettesse livelli più ricchi di lettura.
Per trovare il giusto rapporto tra metafora e realismo, che è l’unico a dover oggi interessare nel cinema, Antonioni ha fatto ricorso essenzialmente alla sua vena, diciamo così, poetica, molto più che non all’analisi e alla sua concretizzazione essenziale e non riduttiva in soggetto, convinto come sempre di poter arrivare al fondo dei fondi dei problemi per istinto poetico. I luoghi comuni del cinema d’analisi americano, della letteratura marcusiana (è certo di Marcuse il libretto che Daria tira fuori dalla borsetta, secondo una convenzione tipicamente culturalisticoantonioniana), della contestazione giovanile, del teatro offBroadway e del cinema offHollywood, nonché i luoghi comuni della geografia cinematografica dei classici, ci sfilano davanti provocando una tremenda impressione di déjà vu, lu et connu, con la differenza che quest’operazione di sintesi, questa evasione nella totalità non mediata è estremamente più presuntuosa, più irritante di tutte le cose che ricorda o manipola. (E per bontà dimentichiamo i simboli e le valenze spuriodolciastre di cui il film è disseminato).
L’inutilità dell’operazione (e la sua enormità) dimostrano ancora una volta come scarsi e a buon mercato (ma ad alto compenso) siano il preteso rivoluzionamento e la pretesa sofferenza di certi registi. Legato ai disagi esistenziali borghesi di un’epoca ferma e coesistenziale neocapitalistica, apparentemente priva di futuro non “alienato”, Antonioni ha creduto come tanti altri “ poeti” prima e dopo di lui che il suo disagio potesse rappresentare perennemente quello del mondo e della storia e non fosse invece al massimo quello di una classe in un tempo preciso (secondo un verso spudorato di un narciso, che quasi tutti i poeti borghesi noncontrollati prima o poi riscrivono, “pianse e soffri per tutti era il suo motto”) e, stimolato da certi filosofi incoscienti, si è preso sempre più sul serio.
Quando ha visto che la storia non si fermava affatto, specialmente quella della rivoluzione, ha tentato disperatamente di mettersi al passo, ma senza riscoprire affatto i valori della modestia. Non gli bastava forse esser poeta per afferrare e poi rendere il tutto e la sua essenza? Sentirlo parlare oggi di profezia rivoluzionaria (imboccato da quell’altro banalone di Moravia) può solo far sorridere: irrimediabilmente out (a meno di un rivoluzionamento più serio di cui però, come undici registi italiani su dieci, ci pare costituzionalmente incapace) il nostro Isaia non può che rimescolare il noto, col tocco leccato di un fotografo di “Vogue”, la dottorale sbrigatività di un editorialista di “Life” e il cattivo metafisicismo di un film di Antonioni, e quando i suoi pensieri non fanno gridare tutti al capolavoro, richiudersi nelle sdegnose e inutili tristezze dell’artista incompreso. Affari suoi.
Da Quaderni piacentini, n. 41, 1970
Georges Sadoul
I protagonisti sono due giovani americani. Mark (Mark Flechette) è uno studente universitario stanco della contestazione, affascinato dall’idea di «alzarsi da terra»: per questo ruba un aereo da turismo e cerca di trovare la sua liberazione nel volo. Daria (Daria Halprin) è un’impiegata stanca della città che cerca una fuga per le strade deserte della provincia.
Ambedue evadono dalla realtà del loro abituale quotidiano verso nuove dimensioni. I loro destini s’incontrano. Dopo una giornata condotta alla luce della libertà e dell’amore nella Valle della Morte, Mark viene ucciso dai poliziotti. Daria si abbandona all’immaginazione di una contestazione globale del reale. Medita di far esplodere quello che rappresenta per lei il potere: dalla villa del suo datore di lavoro, agli scaffali di libri, ai ricchi guardaroba.
Antonioni, interpretando la condizione dei giovani americani, costruisce un apologo contro la società capitalista. Girato con abilità sfruttando al massimo i mezzi che la tecnica cinematografica americana offre, Zabriskie Point, avversato dalla critica americana, ma anche da quella europea, rappresenta invece ancora una tappa della poetica di Antonioni, continuamente sensibile nel ritrarre la carica esistenziale e la ricerca dell’essere dei suoi personaggi, sempre individui, ma mai estranei alla società che li circonda.
Da Dizionario dei film, Firenze, Sansoni, 1968
Nicola Ranieri
La quasi continua, dominante, mobilità della cinepresa caratterizza la costruzione delle sequenze di tutta questa prima parte del film. Alle panoramiche iniziali, in interni, lente o veloci, orizzontali o oblique, alternate dal succedersi per stacchi appena percettibili di inquadrature che, presentando la figura ora a destra ora a sinistra, danno l’impressione di movimenti di macchina, seguono quelle, in esterni, di giganteschi cartelloni pubblicitari, di colori e materiali eterogenei: il giro accelerato, e quindi velocissimo e deformante, della cinepresa imprime un moto circolare all’aggirarsi nei limiti spaziali urbani, un vorticoso ruotare.
Vi si aggiungono inquadrature che appiattiscono le immagini in senso sagittale e altre di superfici riflettenti appena concave (lo specchietto retrovisore) o convesse (il cofano anteriore), le quali, pur essendo “fisse”, captano la “mobilità” del reale, contraggono o dilatano lo spazio; sembrano assolvere alla stessa funzione (a esempio) dei monumenti con materiale inox di Attilio Pierelli, concettualmente legati alla teoria della relatività, alla “visualizzazione” delle geometrie non euclidee. In macchina, Allen e un altro manager come lui, mentre parlano di record di miliardari, sono appiattiti tra il riverbero di palazzi e insegne sulla vernice del cofano e quello del traffico sul vetro dello specchietto retrovisore.
Alla incessante mobilità sincopata — della cinepresa o del riflettersi di forme e colori — seguono le carrellate sul deserto: il distendersi di ciò che è contratto. Una diversa geometria descrive punti, linee, parabole, il loro intersecarsi in un mezzo differente, il “vuoto”. Il quale è, contemporaneamente, significante allegorico della indeterminazione nell’instaurarsi dei rapporti e spazio creato in via ipotetica per sperimentare caso e necessità, senza l’attrito frastornante di “rumore” e controforze dispersive; si oppone al mezzo “pieno”, in cui domina il vano aggirarsi, che apparentemente gli conferisce senso.
Due personaggi, accomunati dalla fuga per «pensare i pensieri» o per «alzarsi da terra», vengono “isolati” dal “nuovo” emergente, “astratti” e inseriti in un altro contesto, dove “casualmente” li si fa incontrare, per vedere quale forma di necessitazione nasca e quale consistenza, in termini di consapevolezza e lucidità, abbia il “nuovo” che anche attraverso di loro si esprime; anzi, ne sono le punte estreme. Di più, dopo la fase iniziale del loro interagire, nel deserto Mojave, l’ambiente ulteriormente muta con un maggior rarefarsi del “pieno”, la verifica si compie a Zabriskie Point, nel “nulla”.
Tre luoghi e spazi dunque.
Il metropolitano caoticostridente: Los Angeles, megalopoli per antonomasia, nata per “autogerminazione”, sregolata, rumorosa, violente, un magma di strutture metalliche, colori, detriti, tralicci; paesaggio industriale della pubblicità e degli affari, governato dalle armi poliziesche e private per la difesa della proprietà in nome dell’ordine.
Il desertico, periferia del primo che tendenzialmente se ne impossessa scaricandovi ogni sorta di materiali inservibili: vecchi ormai inutili, come l’ex campione di pugilato; bambini traumatizzati e violenti; carcasse di automobili e di strumenti musicali; vecchi sogni americani, sottolineati da Tennessee Waltz — il motivo cantato da Patti Page –; l’intera scena di Ballister ne è l’esemplificazione. Oppure, è “valorizzato”, sempre come un filone “aurifero”, a Phoenix (a esempio) dove la Sunnydunes di Los Angeles costruisce il «paradiso per le vacanze».
Infine, il deserto nel deserto, il suo “cuore” per così dire, Zabriskie Point, impraticabile, invivibile; “nulla”, assenza di vita, come dice il cartello. «Una zona di laghi antichissimi, prosciugati da cinque a dieci milioni di anni fa. I loro letti sono stati spinti verso l’alto dalle forze del sottosuolo e corrosi dal vento e dall’acqua. Contengono borato e gesso». Questa spazialità differenziata, a cui corrispondono diverse geometrie, non si estende per contiguità lineare, ma procede discontinua come per stratificazioni successive, circolari, inscritte e concentriche; a partire da quella superficiale, appariscente, frastornante, passa per la mediana — Ballister e Phoenix –, giunge a quella interna dove pensare è possibile.
«Fare di un pieno un vuoto» Questa sembra essere una delle regole fondamentali del cinema di Antonioni. È sottesa anche qui alla disposizione dei “luoghi”, i quali assumono valore temporale e divengono affini a “momenti”, livelli verso la profondità, conoscitivi. Il viaggio accomuna e differenzia i due personaggi. Entrambi hanno il desiderio di fuggire dal disagio che avvertono nel primo strato di realtà; cercano un altro sistema di riferimento per pensare o per vedere dall’alto, per relativizzare comunque un ambito che appare a prima vista assoluto. Si dirigono, l’una verso il “luogo” della meditazione; verso quello della solitudine, dove provare la propria consistenza, l’altro.
Quest’ultimo più per l’idea di spericolatezza, rischio, impazienza ribellistica, velleitarismo, tornerà a Los Angeles per farsi uccidere avendo sperimentato anche nel deserto l’impossibilità dell’azione e non prima di tramutarla in radicalismo provocatorio. La frustrazione dell’agire lo vota alla morte fin dall’inizio e rivela il permanere di una stessa identità: «pronto a morire, ma non di noia». Daria, invece, per evadere, abituata com’è al viaggio artificiale, alla droga, alla musica countryrock, sua continua compagnia: si rifiuta di ascoltare notizie, sintonizza la radio su situazioni che trasmettono sempre lo stesso genere musicale; vuol stare sola e lasciarsi per un po’ alle spalle la vita di tutti i giorni, vagabondare.
I percorsi di queste due anime dell’individualismo “casualmente” si intersecano. Ne nasce una determinazione: l’impossibilità, o incapacità, di agire di Mark si trasforma in autodistruzione; in Daria si innesca la ricerca, la progressiva lucidità. È lei il personaggio in cui il “nuovo” si sintetizza, per stadi diversi, evidenzia se stesso. Il rosso e il giallo divengono il suo interno conflitto con una dominanza, infine, del primo, ma entrambi sono contenuti nell’enigma della luce. Il “nuovo” e un magma che, in tappe successive, mostra le sue dominanti autocriticamente rovesciarsi; il risultato però non è una certezza, né un punto fisso, semmai un movimento verso la conoscibilità.
Il viaggio attraverso i “luoghi, affini a momenti”, si rivela in Zabriskie Point elemento strutturale connesso alla regola dello “svuotare un pieno”. Dell’allegoria, nel senso attribuito da Walter Benjamin a questa “figura”, ha le caratteristiche fondamentali: la “decisiva” categoria temporale di un movimento che sprofonda verso il paesaggio “primevo”, l’enigma e la mediazione ontologica; pur non essendo Antonioni legato alla teologia, alla quale invece Benjamin rimanda per distinguere l’allegorico dal simbolico, che ha origine profana. Entro la visione laica del regista, tale “figura” consente di costruire la spazialità lungo un asse temporale verso la profondità, come azzerando ciò che in prima istanza è vistoso. Ma la struttura semiotica di storia e discorso non orienta spazio e tempo verso il “primordiale” e, quindi, verso la “luce divina” preesistente; bensì nel senso di svuotamento; verso l’inesauribilità conoscitiva, l’enigma della luce.
L’attraversare momenti spazializzati equivale a un procedimento in cui lo strato successivo “illumina” quello precedente, senza che il desiderio dell’oltre si acquieti.
«Una città si vede dalla periferia». Questa riflessione di Benjamin sembra applicabile a Los Angeles. La magmaticità della megalopoli, che appare — nel “luogo” di superficie — interamente coesa, si svela, osservata dal secondo strato, dalla sua desertica periferia, come artificio (Phoenix), come relitti e reietti (Ballister). Ma non basta. Il rarefarsi del “pieno” e la disarticolazione dell’apparentemente coeso proseguono: le ulteriori verifiche avvengono in uno spazio sempre più coerentemente “continuo”. Zabriskie Point materializza il concetto di vuoto, è l’astratto in una situazione reale; il terzo strato verso la profondità, dove sono visibili le sostanze componenti — borato e gesso — i letti di «laghi prosciugati da cinque a dieci milioni di anni fa»: la radice stessa del deserto, «il paesaggio primevo» come azzeramento di quello urbano.
In questo diverso mezzo — secondo un’altra geometria — interagiscono i due personaggi, meglio, i concetti in cui si estremizzano. L’amore dell’una, l’azione a ogni costo dell’altro — entrambi rovesci speculari, diretti o indiretti, della violenza privata e poliziesca della “società opulenta” — disaggregati dal contesto originario, tolti dal “rumore”, sono reagenti “chimici” che reciprocamente si visualizzano come gioco d’amore o di morte.
Se il secondo strato svela — decontestualizzandoli dall’apparente organizzazione — l’artificialità e il consumismo del primo, il terzo verifica la consistenza dei modi di ribellarsi o di sognare un’idea alternativa, non prima di giungere, nel viaggio verso il “primevo”, alle sostanze componenti il deserto.
Uscendo da una grotta, Mark mostra a Daria quel che ha in mano. «Ehi! Guarda cos’ho trovato». «Borato?», chiede lei avvicinandosi e, mentre egli annuisce, lecca la pietra sottile e trasparente, guardandolo attraverso di essa, lo bacia; poi osserva la venatura bianca di una collina: «E quello cos’è gesso?». «Sale non è», risponde Mark.
Stacco. Stesi a terra con in faccia una valle arida e i corrugamenti che l’attorniano, «Vuoi venire con me?», «Dove!», esclama lei; «In qualsiasi posto vado», «Me lo chiedi sul serio?», «Mi rispondi sul serio?». Sull’ultimo interrogativo di Mark inizia in modo naturale la scena d’amore, che “si trova” al punto massimo della “profondità”; attinge alle fonti primeve della formazione del mondo, la radice dell’essere. E sembra trattarsi del morire e rigenerarsi del possibile: un movimento della cinepresa da un rivolo disseccato si ferma un attimo su due teste di amanti pietrificati, tutt’uno con il colore dei componenti del deserto. Stacco: Mark e Daria si amano.
Il loro amore ha un “luogo”, il fondo della valle, dove sono arrivati scendendo da un corrugamento, ognuno con una gestualità sintetica del concetto di cui è portatore. Lui, precipitandosi, sfidando il rischio, rimane per qualche istante immobile, steso a braccia aperte, prefigura la morte. Lei, dopo aver preso la sigaretta da fumare, segue con calma un percorso meno impervio. Dal fondo risaliranno, andando contro il sole, piccoli, distanti, di nuovo sulla sommità del corrugamento; riemergeranno dove avevano lasciato la macchina, cammineranno (in un’inquadratura dalla prospettiva appiattita) “sopra” il colore rosso di una cabina.
Giunti, ognuno secondo la precedente identità, al “luogo” del “primevo”, dopo averne “toccato” le componenti, verificano la possibilità dei concetti di cui sono portatori. Il colore di Mark diviene dominante, ma egli resta identico a se stesso. Prende nuovamente di mira un poliziotto e constata l’incapacità di agire. Daria, invece, avverte una prima trasformazione. Il poliziotto chiede: «Dov’è la sua macchina?», risponde: «L’ho dimenticata laggiù insieme… alla patente, il libretto d’assegni, la carta di credito, la polizza d’assicurazione, certificato di nascita e… »: tutti i segni di appartenenza allo spazio urbano.
Il poliziotto compie un giro d’orizzonte con lo sguardo, non vede assolutamente nulla; il “laggiù” di Daria, per lui non esiste. La sua faccia stralunata, ebete, denota l’estraneità a ogni riflessione; il suo giro d’orizzonte e una panoramica ricognitiva per accertare l’ordine in un posto assolato e strano che lo induce a soprassedere. Un posto che invita il turista — perfettamente bardato come tale, “accessoriato”, e con lui la moglie e il figlio, secondo modelli pubblicitari che rimandano alle opere (ad esempio) di Duane Hanson — a esclamare: «Dovrebbero costruirci un drivein!».
Sono tutti elementi, insieme al rombo di un aereo, del riemergere verso il secondo strato, periferico di quello urbano, con un po’ più di consapevolezza nei due personaggi, saggiati nella consistenza. Mark constata l’impossibilità o l’incapacità di agire, sotterra proiettili e arma vicino al rosso della cabina; gli resteranno i capelli lunghi, il modo provocatorio di dipingere il velivolo rubato e il farsi ammazzare riportandolo; è coerente dall’inizio alla fine. Daria avverte una prima consapevolezza: “laggiù” non ha lasciato solo i segni di appartenenza allo spazio urbano — e lo constata riemergendovi –, ma anche un modo di sognare, prima ritenuto alternativo. Tutta la lunga soggettiva del gioco dimore di gruppo (accompagnata da motivo per chitarra di Jerry Garcia) voleva opporsi alla violenza poliziesca della “società opulenta’ e contemporaneamente, soprattutto, al gioco di morte di cui Mark è portatore.
Anche questa idea di vita, di libertà, rimane “laggiù”, dissolta perché finalmente conosciuta. Alla fine della soggettiva, dopo aver fatto “fiorire” con la forza dell’immaginazione e della droga giovani corpi che si amano sull’aridità del deserto, Daria, con la testa sul petto di Mark addormentato, pensa: vede perdersi tra la polvere, come “nebbia”, il sogno d’amore collettivo, hippie. Quel che sembrava alternativo a morte e violenza del sistema e dei suoni meccanici oppositori, un fantastico ideale di vita contro gli inguaribilmente “legati alla realtà”, si dissolve rivelandosi — nel “luogo” dove pensare è possibile — come speculare rovescio del sistema; da questo, entro certi limiti, tollerato.
Da Amor vacui. Il cinema di Michelangelo Antonioni, Chieti, Métis, 1990, pp. 64-71
Lino Miccichè
Sfortunati i popoli che hanno paura dei poeti. Rischiano di neppure riconoscerli. Alla maggior parte dei recensori statunitensi di Zabriskie Pointsembra essere, infatti, totalmente sfuggito che l’ultimo film di Michelangelo Antonioni non è un “pamphlet” contro l’America, ma un “poema” sull’America. Certo è un poema non giocoso e gioioso; è anzi lancinante e doloroso. Ma l’impietosa rappresentazione metaforica si basa su una partecipe commozione umana: è un atto di disperazione che è anche un atto d’amore. E come d’altronde potrebbe non essere disperato il volto dell’America che ha assassinato John e Robert, e Martin Luther e Malcom; l’America del massacro di Song My, dei ghetti negri e portoricani, delle segregazioni e del Ku Klux Klan; l’America che, alla convenzione di Chicago, manda in prigione o in ospedale i suoi studenti armati con «i fucili degli alberi?».
Indubbiamente c’è un’altra America. E infatti Mark e Daria “poeticamente” la rappresentano. Non solo nell’essere against l’uno e out l’altra, rispetto a quella ufficiale dei consigli di amministrazione, dei piani speculativi, delle roulottes turistiche. Ma anche nel comune ambire a un ritorno alla natura, anzi alla terra; nel loro caldo e giocoso rotolarsi sull’incontaminata polvere del deserto, nel lovein fatto dove una famiglia di passaggio vorrebbe costruire un drivein. Ma questa America è uccisa dalla prima. O fisicamente, come Mark, ammazzato per non aver capito che non si gioca con i giocattoli altrui. O esistenzialmente, come Daria, prigioniera dei propri sogni, che — simile a Bill “il bugiardo” e ai ragazzi di If — fa saltare in aria con la fantasia simboli e realtà del benessere oppressivo, per poi tornare a rinchiudersi nel proprio mondo interiore fatto di oblio e di fughe private.
Questa lettura si ferma tuttavia solo alla scorza di Zabriskie Point e rischia, se non di dare ragione ai recensori americani, di muoversi sulla loro stessa linea, sia pure rovesciandone il giudizio. La realtà profonda di Zabriskie Point è che, per quanto “poema” (non comunque “pamphlet” o trattato di sociologia) sull’America, il film è lungi dall’avere con la realtà ambientale in cui si svolge quel rapporto di intensa determinazione sociologica che avevano le isole, la costiera e il paesaggio del Sud ne L’avventura, Milano e la Brianza ne La notte, Roma e L’EUR ne L’eclissi , o gli impianti petroliferi Ravennati in Il deserto rosso.
Antonioni e sempre stato un radiologo dell’anima più che delle cose; ma in lui l’ambiente e il paesaggio hanno sempre sostituito il discorso sociologico vero e proprio, facendo da solido supporto a quel «neorealismo interiore» che si andò preannunciando fin dai suoi esordi: basti pensare alla insostituibile funzione dello sfondo milanese dell’opera prima, Cronaca di un amore , o a quella, non meno essenziale, della Bassa padana ne Il grido. Questa pregnanza ambientale ha sovente tratto in inganno la critica, che non di rado, interpretando tale mise en situation ambientale come una volontà sociologistica, ha rimproverato al regista insufficienze proprio in quella direzione sociologica che Antonioni non si proponeva che come accessoria ai personaggi.
Ma dopo Il deserto rosso — e il pur significativo exploit minore de Il provino, prefazione a I tre volti — un film come Blow-Up avrebbe dovuto dissipare ogni equivoco. Qui lo sguardo antonioniano sulla swinging London frequentata da Thomas è esentato anche solo dal sospetto di sociologismo, ed è anzi proprio questa caratteristica a fare individuare nel film i sintomi di una svolta notevole nella filmografia di Antonioni, il cui cinema, proprio con Blow-Up, sembra cessare quasi del tutto di implicazioni sociologiche e significati metonimici per collocarsi in un ambito nettamente metaforico. In questo senso, anzi, potremmo dire che l’ambientazione londinese di Blow-Up serve ad Antonioni a depurare il proprio stesso sguardo da ogni immediatezza sociologistica e a comunicare questo sguardo, carico di stupefatto mistero e di innocente costernazione, allo spettatore.
Orbene in gran parte analogo è il senso che ha in Zabriskie Point l’ambientazione americana: come nel film londinese la swinging London serve a meglio connotare il mistero di Thomas, così nel film americano la “rivolta studentesca’ serve a meglio connotare l’avventura di Mark e Daria. Lì come qui l’ambientazione è semplicemente funzionale a un’altra radiografia del destino umano. E nell’uno come nell’altro caso ricorrono — ma con un’evidenza maggiore che altrove — gli elementi del caso, dell’incontro, dell’amore e della morte che, appunto, rispetto all’Antonioni degli anni ’50 e della tetralogia, appaiono quasi del tutto rarefatti di concretezza sociologica, segno ormai evidente di un passaggio da un cinema che — ancora fortemente influenzato dal neorealismo — oscillava tra metonimie e metafore, a un cinema che ha decisamente imboccato la strada delle grandi metafore.
Il limite, e la fonte dell’equivoco, in Zabriskie Point nasce semmai dalla incompletezza di questa scelta; ovvero dalla mancata valutazione da parte di Antonioni della pregnanza oggettivamente sociologica che taluni dati “americani” (la contestazione nel campus, lo scontro generazionale, la rivolta dei dropout, la repressione) hanno, in USA e in tutto l’occidente, sì da non permettere una loro rappresentazione puramente fenomenologica, senza sovraccaricarla di “sociologia” e di “politica”. Tanto che i momenti più alti, e più convincenti, di Zabriskie Point sono proprio quelli meno inquinati da questa emergenza oggettiva del sociologico sul fenomenologico: la danza amorosa dell’aereo sull’automobile, il lovein collettivo, il sogno distruttivo di Daria; vale a dire ogni qual volta il film e orientato in senso anti psicologistico e anti sociologistico, affermandosi invece come “sogno”, anzi come utopia sognante di un’innocenza oppressa che la realtà distrugge o rende irrealizzabile. Dietro l’apparenza di un “discorso” lineare e compatto, “realistico” fino al didascalismo, Zabriskie Point è, appunto, il poema dolce, accorato e dolorosamente attonito di quella innocenza e di quella oppressione.
Da Cinema italiano degli anni 70, Venezia, Marsilio, 1989, pp. 65-68
Zabriskie Point, Antonioni e i Pink Floyd
Il progetto Zabriskie Point piombò sui programmi dei Pink Floyd totalmente inaspettato. Nell’autunno del 1969 la band stava attraversando un periodo complesso, frutto della ricerca di un affrancamento musicale e d’identità che non fosse il riflesso di Syd Barrett. Ummagumma era stato appena pubblicato nel Regno Unito e i ragazzi già stavano pensando a un nuovo progetto, qualcosa di grande e impegnativo, un lavoro che comprendesse l’impiego di un’orchestra. Steve O’Rourke ricevette una telefonata dagli uffici della Metro Goldwyn Mayer. Oggetto: un’offerta di collaborazione per il nuovo film di Michelangelo Antonioni.
Il manager avanzò una richiesta talmente alta che all’inizio fu respinta ma che venne poi accettata per la determinazione del regista ad avere i Floyd per la sua opera. Il progetto Zabriskie Point sconvolse i piani in agenda, scosse gli animi e suscitò entusiasmo. Poteva essere l’occasione del grande salto in fatto di notorietà; la precedente produzione di Antonioni, Blow-Up, aveva sbancato i botteghini e la caratura del regista avrebbe conferito al nuovo lavoro la giusta dose di richiamo a livello internazionale.
I reciproci percorsi artistici si incontrarono dopo essersi sfiorati più volte. Già nel 1966 Antonioni ebbe modo di vedere i Floyd dal vivo mentre vagava insieme a Monica Vitti in una pazza notte londinese alla Roundhouse, per il concerto organizzato per il lancio di IT. Nell’estate del 1968, mentre la troupe si trovava in California per iniziare le riprese di Zabriskie Point, la band era in tour negli States per promuovere l’uscita di A Saucerful Of Secrets. I Floyd erano considerati hip, specialmente in California, e Antonioni fiutò nell’aria l’occasione inserendo un primo piano del retro di Saucerful nelle prime riprese del film girate quell’estate.
Nonostante Michelangelo Antonioni avesse l’età di un anziano padre o di un giovane nonno per i ragazzi dell’epoca, era persona attentissima ai cambiamenti, costantemente alla ricerca del nuovo sforzandosi di capirne i meccanismi. Per girare Blow-up, e ancor più per questa nuova produzione in California, si circondò di giovani, consultandoli, osservandoli ed elaborandone le idee, formando il gruppo di lavoro più giovane mai esistito prima nella storia di Hollywood. Il che preoccupò non poco le alte sfere della MGM.
Nell’estate del 1969, archiviata la lunga parentesi romana dedicata al montaggio di Zabriskie Point, Antonioni era tornato negli States con una serie di impegni in agenda. Fra questi, il più impellente era la lavorazione di un’adeguata colonna sonora che fosse all’altezza del girato. Il destino si stava compiendo. Durante una delle sue errabonde nottate californiane, il regista si presentò alla KPPC FM Radio Station di Pasadena, la radio libera più ascoltata della zona, all’epoca situata nei sotterranei della chiesa presbiteriana di Colorado Boulevard: voleva conoscere Don Hall, il più famoso Dj di quella radio, che conduceva il suo programma musicale dalle 20 a mezzanotte. Il grande regista trovò in quel vulcanico americano una persona di indubbio interesse e lo invitò ad andare già il giorno dopo agli studi della Metro Goldwyn Mayer di Culver City per visionare il film. Dopo pochi giorni Don incontrò di nuovo il regista al Beverly Hills Hotel e gli consegnò una lista di canzoni di vari artisti che trasmetteva spesso nel suo programma radiofonico. Dopo quasi un mese di silenzio, improvvisamente Don ricevette, pressoché contemporaneamente, una lettera da Roma in cui Antonioni gli confermava quasi tutti i pezzi del suo elenco e una chiamata dalla MGM che lo assumeva per il ruolo di consulente musicale del film, invitandolo a raggiungere subito Antonioni a Roma.
Grazie ai pezzi selezionati da Don Hall, Zabriskie Point aveva già la base musicale per tutte le scene minori nel deserto. Ora Antonioni desiderava che le scene più importanti del film fossero descritte da musiche originali, scritte appositamente per la pellicola. Vennero contattati The Band e i Rolling Stones, ma non se ne fece nulla. Il manager di Robertson & Co rifiutò. Antonioni chiese senza molta convinzione tre o quattro pezzi agli Stones. Keith Richards e Mick Jagger giudicarono oneroso l’impegno e per cambiare i loro programmi chiesero una grossa cifra e manifestarono l’intenzione di scrivere l’intera colonna sonora. Si raggiunse l’accordo solo per l’eventuale inserimento nel film (ma non nel disco ufficiale) di YouGot the Silver, uno dei pezzi segnalati al regista da Don Hall.
Ottobre era ormai agli sgoccioli e la MGM, che aveva già speso una fortuna per Zabriskie Point, aumentò la pressione su Antonioni mirando all’obiettivo di fare uscire il film per Natale. È in questo frangente che il regista ebbe la folgorazione per i Pink Floyd. Complice fu la compagna dello stesso Antonioni, l’inglese Clare Peploe, anche cosceneggiatrice del film, che era tornata da un viaggio in Inghilterra con molti dischi nuovi, fra i quali Ummagumma. L’album fu ascoltato su un piccolo stereo a casa del regista, alla presenza della compagna e di Don Hall. Antonioni ascoltò e riascoltò con interesse l’opera. Rimase particolarmente impressionato da Careful with That Axe, Eugene e confidò al Dj americano che una versione speciale del pezzo avrebbe potuto essere una soluzione ottimale per la scena finale del film. In breve decisero di provare a ingaggiare i Pink Floyd.
Dopo gli accordi presi con la MGM, agli inizi di novembre 1969 Steve O’Rourke volò a Roma, da solo, per organizzare i dettagli della trasferta. Un primo ostacolo fu l’indisponibilità diurna degli Studi International Recording di via Urbana, prenotati per mesi. Considerati i tempi ristretti e le pressioni della MGM, la band fu inserita in fascia notturna. L’hotel designato fu il Massimo D’Azeglio, a poco più di trecento metri dagli studi, lo stesso in cui alloggiò anche Don Hall e lo stesso in cui i ragazzi soggiorneranno in occasione del concerto al Palasport del giugno 1971. Anche le altre formalità organizzative furono messe a punto in pochi giorni, così come furono cancellati alcuni impegni in calendario per permettere la piena disponibilità al progetto di Antonioni.
Il 16 novembre i Floyd giunsero a Roma accompagnati dai fidati Alan Styles e Peter Watts, da poco gratificati dalla presenza sul retrocopertina di Ummagumma. La sera stessa si ritrovarono tutti nello Studio 1, il più grande degli International Recording: c’erano i Pink Floyd, Alan e Peter, Don Hall, Michelangelo Antonioni e il tecnico messo a disposizione dallo studio, Maurizio D’Achille.
Si cominciò da una prima proiezione del film. Furono mostrate le scene già coperte dalla musica suggerita da Don Hall e quelle per le quali i Pink Floyd erano stati ingaggiati. Furono prese opportune precauzioni, come ci ha raccontato il tecnico italiano: Antonioni infatti aveva voluto oscurare le finestre dello studio per evitare che occhi indiscreti potessero godersi qualche anteprima della pellicola. Il regista chiese in particolare di comporre musica originale di forte carica emozionale ma non troppo invadente per non offuscare l’impatto delle immagini. In ordine: la scena iniziale, gli incidenti al campus, il decollo e il volo su Los Angeles, la lunga scena d’amore e la spettacolare scena finale.
A questo punto accadde qualcosa di importante. Steve O’Rourke e Roger Waters si appartarono e parlarono per un po’. Quindi Steve chiese ad Antonioni se i Pink Floyd avrebbero “potuto provare” a musicare l’intera colonna sonora del film. Il regista, che riteneva Ummagumma un capolavoro, acconsentì. Don Hall, a questo punto, spiegò ai ragazzi che tipo di brani avrebbero dovuto comporre per le scene in cui la musica proveniva sempre da radio o jukebox: le stesse scene coperte dalla lista di canzoni che tempo prima aveva girato ad Antonioni. Le musiche non dovevano avere nulla di impegnativo, ma “profumare d’America”. Darne l’idea.
È importante sottolineare come questa sia stata la prima e unica volta in cui Antonioni pensò veramente di affidare tutta la colonna sonora a un solo gruppo o a un solo artista.
L’idillio, peraltro, durò poco. I primi sintomi di insofferenza giunsero appena i Pink Floyd si misero comodi sul palco alla destra del grande schermo e cominciarono i loro rituali di approccio con il nuovo studio, tirandola un po’ per le lunghe fra accordi e piccoli frammenti strumentali. Il regista probabilmente si aspettava che i ragazzi attaccassero il jack e cominciassero a produrre musica di botto, magari con idee già elaborate. Ma la band non aveva portato niente di preparato, e tutto quello che produsse in quei giorni lo tirò fuori dal nulla, come ben sapeva fare. Questo però aveva i suoi tempi, tempi che non erano certo quelli di Antonioni. Don Hall ebbe il suo bel da fare, quella prima notte di lavoro, per spiegare al Maestro che quelli che ascoltava erano solo accordi di una progressive band e non la musica che avrebbero realmente proposto. La prima notte bianca si concluse, quindi, con un principio di annuvolamento che cominciò a offuscare la visione estremamente positiva che Antonioni aveva dei Pink Floyd. Il regista disse a Don Hall che forse i ragazzi erano troppo inglesi per quella colonna sonora.
Le sedute entrarono nel vivo durante le notti successive. I titoli provvisori furono scelti dai Pink Floyd e in gran parte basati sulle scene da musicare. Inizialmente la band produsse una mole di musica inaspettatamente copiosa rispetto alla norma. Fu notato che il gruppo di gentilissimi inglesi era solito raccogliere pedantemente anche il più piccolo pezzo di nastro da portare nel vicino hotel alla fine di ogni seduta. Antonioni, fedele alle sue abitudini, gestiva le sedute con l’intenzione di mantenere un controllo pressoché totale sulla produzione musicale: i musicisti dovevano essere come strumenti che dovevano suonare come voleva lui. I Floyd trovarono qui un ambiente totalmente diverso dalle loro esperienze a proposito di colonne sonore.
In questo caso lavoravano per la MGM — una grande major –, per un grande regista che avrebbe avuto da ridire anche con gruppi come Beatles o Rolling Stones, supportato da un musical advisor come Hall, che in parte li seguì persino a Londra. Antonioni era attento a ogni minimo dettaglio e presenziò a quasi tutte le sedute di registrazione romane. Stando ai racconti del tecnico dello studio, il regista aveva addirittura preparato un lettino a fianco del gabbiotto di regia per riposarsi durante le rifiniture tecniche dei brani.
Piena soddisfazione ci fu subito per l’esecuzione di Explosions, titolo provvisorio della versione rivisitata di Careful with That Axe, Eugene. Problemi veri, invece, si manifestarono durante i tentativi di musicare la scena d’amore. “Sì, bello. Mi piace”. Ma inesorabilmente, poco dopo, il regista confidava a Don Hall che l’abbinamento tra le immagini e la musica proposta era inaccettabile. Per ovvie ragioni, Don cercò sempre di evitare di riferire certe esternazioni in modo troppo diretto. Per la scena d’amore furono fatti molteplici tentativi, fra cui un blues di quasi otto minuti, un pezzo di solo vibrafono e una melodia struggente di piano solista. Alla fine prevalse Love Scene, il brano psichedelico e onirico, quello che i Floyd presentarono per primo e di cui esistono più versioni.
Antonioni continuava a chiedere aggiustamenti, correzioni o nuove versioni. Tre tentativi furono effettuati per il decollo e il volo sopra Los Angeles. Curiosamente, il titolo provvisorio della scena del decollo, Take Off, fu utilizzato nell’edizione francese del disco al posto del titolo definitivo Dark Star dei Grateful Dead, presente nel resto del mondo. Per le scene del deserto, quelle che i Pink Floyd avrebbero provato a musicare col permesso del regista (scene al di fuori di quelle espressamente richieste dall’ingaggio), si scelse di seguire un classico metodo a tema: composti un paio di brani, il tema sarebbe stato di volta in volta riarrangiato per le varie scene. Quasi subito Antonioni decise di lasciare la scena degli incidenti al campus senza commento musicale. Richard Wright aveva composto The Violent Sequence, un tappeto di pianoforte struggente e melodico che faceva da contraltare ai pestaggi sanguinari della polizia. Bocciato dal regista, il brano rimase nel cassetto per qualche anno, per poi riaffiorare come base melodica in uno dei pezzi più noti della discografia floydiana: Us and Them.
Alla fine delle operazioni, il completo gradimento del regista rimase solo per Careful with That Axe, Eugene, rifatta per la scena finale. Il tutto nonostante la grande mole di musica prodotta e il protrarsi delle sedute ben al di là dei programmi previsti.
I Pink Floyd ritornarono a Londra all’inizio di dicembre, portando in valigia un gran numero di nastri a otto tracce da cui ricavare le versioni finali per l’eventuale inserimento nell’album ufficiale della colonna sonora. Lavorarono ad Abbey Road sui pezzi selezionati da Antonioni, convinti che sarebbero stati usati. I due pezzi country furono completamente reincisi, mentre gli altri furono arricchiti di sovraincisioni e mixati stereo. Alla fine i pezzi preparati erano otto, sei dei quali furono spediti con i titoli finali a Don Hall in California a fine gennaio 1970.
Quello che i ragazzi non sapevano era che nel frattempo Antonioni continuava a cercare qualcosa di meglio. Durante il mese di dicembre il regista aveva chiesto brani originali a Musica Elettronica Viva, ai Kaleidoscope e a John Fahey, puntando ad avere qualcos’altro, in particolare per la scena d’amore. In definitiva, i pezzi dei Pink Floyd pubblicati sulla colonna sonora ufficiale furono solo tre. Gli otto pezzi originali sono quelli che tra i fan dei Pink Floyd sono noti come The Zabriskie Point Lost Album: l’album perduto di Zabriskie Point.
La totalità dei pezzi conosciuti delle sedute per Zabriskie Point ha tre diverse sorgenti. La prima è naturalmente la colonna sonora ufficiale con tre brani pubblicata nell’aprile 1970. La seconda è il bootleg Omayyad pubblicato nel 1972, che rese noti al mondo altri tre pezzi. Le origini di questo bootleg sono quanto mai curiose: tra il febbraio e il marzo 1970 Don Hall trasmise dalla radio KPP-CFM di Pasadena quei tre pezzi più la versione integrale di Crumbling Land, che erano stati scartati all’ultimo momento.
Qualcuno registrò la trasmissione dalla radio. Il nastro arrivò successivamente alla Trade Mark of Quality, la prima etichetta discografica pirata, che ne fece Omayyad, disco non ufficiale di inediti. La terza e più cospicua sorgente è costituita dai lavori compiuti dalla Rhino Records per mettere insieme la versione estesa della colonna sonora nel 1997. Quattro pezzi furono pubblicati nella collezione come outtakes, altri tredici fuoriuscirono in qualche modo e li ritroveremo due anni più tardi in un CD bootleg intitolato A Journey Through Time and Space, sezione Outer Zabriskie. Il tutto circola tra i fan nelle varie collezioni, delle quali la versione più completa e aggiornata è titolata A Total Zabriskie Point of View, che include anche The Christmas Song.
Da The Lunatics (Nino Gatti, Stefano Girolami, Danilo Steffanina, Stefano Tarquini e Riccardo Verani), Pink Floyd. Storia e segreti, Giunti Editore, Firenze, 2014