Con “L’eclisse” (che nel film non si vede) Michelangelo Antonioni consolida e sviluppa il nuovo linguaggio cinematografico introdotto con “L’avventura”. In alcune sequenze, come quella finale, lo porta al suo picco. Le immagini nella loro cosalità, gridano. Scena formidabile e potente nella sua inanità. Girato in una Roma che non sembra neppure Roma. Ci vuole del tempo prima di intuire che siamo a Roma. Se non fosse per l’accento, sembrerebbe di stare a Milano. Le magnifiche scene della borsa, di un realismo e di una concitazione assai poco antononiana, sembrano quelle di Piazza Affari. Il regista ferrarese conosceva bene il mondo degli affari e la gente che li faceva. A Bologna si era laureato in economia e commercio e non gli erano dispiaciuti gli studi. C’è poi la Roma spettrale del quartiere dell’EUR appena costruito per le Olimpiadi del 1960. Immagini che rimangono impresse per giorni nella mente nel loro scarno minimalismo. Sulla lenta carrellata delle strade deserte dell’EUR, con ancora residui di cantiere, si staglia la parola “Fine”. È un film di destra scrive “Quaderni Piacentini”: non andate a vederlo. La stampa del PCI lo ignora e continuerà così. Per loro è un regista borghese, “Rinascita” si scomoda solo per farlo criticare su due pagine intere da un regista sovietico a cui Antonioni risponde con la sua solita concisione, educazione e intelligenza. Una cosa molto triste. Eppure “L’eclisse” fotografa un cambiamento sociale, fors’anche antropologico della società italiana, con uno sguardo intelligente e originale sulle cose e le persone. Se ne accorge Pasolini che, pur riconoscendo la sua estraneità a quei contenuti, avrà parole di apprezzamento per Antonioni e la sua poetica. Ma sappiamo, Pasolini era Pasolini.
Bravo ma non perfetto Alain Delon (eccessivamente fisico, atletico), un po’ sopra le righe la mobilità nervosa, che piaceva tanto ad Antonioni, della Vitti. La storia e i dialoghi sono
Giovanni Grazzini
L’eclisse di Michelangelo Antonioni conclude la trilogia critica aperta da L’avventura e proseguita con La notte. La compie e la riassume riducendo al minimo, a un fragile gioco del destino, il margine di speranza concesso agli uomini: sul finire, quando il tentativo di Vittoria di spezzare il proprio isolamento con un’estrema illusione di volontarismo fallisce e l’impassibile volto della città vuota risponde alla sua angoscia, qualche coppia, a braccetto, attraversa la scena nella penombra; perché loro sì e Vittoria no? E la loro felicità è una finzione dell’anima o è soltanto la sorte che li ha messi accanto, e sono stati toccati dalla grazia di continuare a capirsi, ad amarsi?
L’eclisse è’ ancora una volta un ritratto di donna, ma di una donna propria di Antonioni, ormai destinata a identificarsi, nella memoria degli spettatori, con la personalità mutevole e perplessa di Monica Vitti. Si chiama Vittoria, come nella Signora senza camelie si chiamava Clara, Anna nel L’avventura, Lidia nel La notte. Abbandonato un uomo che non ama più, si ritrova sola, stanca, avvilita, disgustata, sfasata: sono le sue parole. È giovane, è bella, ha quanto basta per vivere. Ma è un’intellettuale e una sentimentale: cerca negli altri un calore di vita, una facoltà di appassionarsi di cui essa stessa è ormai svuotata. Tenta di fingerseli, e si avventura in un flirt con un giovane agente di cambio, che le dà «la sensazione di essere all’estero», poco più di un ragazzo, tutto l’opposto di lei: cinico, sicuro di sé, donnaiolo, perfetto esemplare, diciamo di un giovane sano e normale (l’ottimo Alain Delon).
La madre (una Lilla Brignone ben calibrata) è insensibile agli appelli della figlia; anch’essa è inquieta e infelice, ma trova la sua valvola di sicurezza nel gioco in borsa. Il caso vuole che Vittoria si dia a Piero, l’agente di cambio, all’indomani di un crollo in borsa nel quale la madre ha perso una grossa somma della quale resta debitrice al giovanotto. Al di là delle intenzioni di Vittoria, il suo gesto sembra assumere agli occhi di Piero, e poi a quelli di lei stessa, il significato di un tentativo di tacitare il debito della madre. Anche questo è un amore che crolla, una strada che si chiude. Né Piero né Vittoria, irretiti dall’equivoco, andranno all’ultimo appuntamento.
Da quando Antonioni ha sconvolto le formule tradizionali dell’intreccio narrativo, affidando al film il compito di rappresentare un momento di crisi della coscienza più che di narrare una storia, e imparentando sempre più strettamente il cinema con la letteratura, le sue pellicole sono andate assumendo sempre più chiaramente il carattere di trattatelli psicologici. Ora ci sembra che con L’eclisseAntonioni abbia dato fondo alla sua teorizzazione dell’amarezza della vita contemporanea propria delle anime troppo sensibili. Un altro passo, e cadrebbe nel paranoico.
Questa Vittoria ancora si salva: è una ragazza che fa una gran fatica a vivere, è una solitaria che cerca nei grandi spazi e nella natura quella pace e quella libertà da se stessa, di cui è priva, si appoggia alle amiche per convincersi che ognuno ha le proprie ansie, ha dissociato l’amarsi dal comprendersi («Non bisogna conoscersi per volersi bene»), non sa dare risposta a nessuno dei propri interrogativi: insomma è una creatura viva e vera, vittima anche della cultura moderna. Ce ne sono, e il film di
Antonioni a noi è piaciuto per la tensione con cui l’ha individuata, per il paesaggio deserto con cui essa coincide, una calda estate romana, per quei trapassi di umore che danno al volto di Monica Vitti la varietà di un cielo nuvoloso. Ma è significativo che Antonioni sia ricorso all’ambiente della borsa, il più forsennato e spietato, peraltro descritto con la cura che il regista mette sempre nelle sue critiche di costume, per contrapporvi il carattere di Vittoria. Il chiaro-scuro è troppo accentuato per non fare sospettare che Antonioni cada ormai nel programmatico.
Se davvero i suoi prossimi film saranno di un genere comico-brillante, come si è detto, vuol dire che Antonioni se ne è accorto, e considera chiusa con la sconfitta della felicità la sua opera di introspezione della coscienza contemporanea. È vero però che l’ha condotta su soggetti-limite che si riscattano dalla rassegnazione dibattendosi prima di autodistruggersi ma hanno nel sangue la condanna al tedio del vivere: un’eclissi dell’equilibrio prima che dei sentimenti.
Da Corriere della Sera, 13 aprile 1962
Gian Luigi Rondi
Nel mondo d’oggi, così esteriore e brutale, così edonistico e opaco, gli uomini non sanno più comunicare fra loro, non hanno più tempo di conoscersi, hanno perso ogni possibilità di capirsi: e perciò non amano più. Fra tutte le crisi del nostro tempo, così, quella dell’amore-sentimento è forse la più grave perché ha distrutto l’unico ponte che fosse riuscito finora a unire le creature più disparate e ha ridotto gli uomini a cose e i loro rapporti sociali a un desolato incontro di mura senza finestre.
A questa constatazione, con gli accenti del poeta dolente, Michelangelo Antonioni era già arrivato altre due volte, ne L’avventura e ne La notte, ma non aveva mai dato prova di un’ispirazione così profonda e di un linguaggio così nobile e alto come nel film di oggi che rimarrà di certo fra le opere più intelligenti e decisive del cinema italiano del dopoguerra.
Ancora la crisi dell’amore, dunque, conseguenza della più generale crisi che mina gli uomini del nostro tempo, e specchio lucidissimo dei mali che li distruggono. Lei non riesce più ad amare un uomo cui è stata legata per anni e lo lascia avendo capito che lui non arriverà mai a comprendere quello che lei chiede all’amore e avendo anche capito che lei stessa non saprebbe mai farglielo intendere. Pochi giorni dopo incontra un giovane che è il contrario di lui (e anche di lei): concreto, deciso, dinamico, assetato di vita, fa l’agente in borsa e il denaro è il suo solo idolo; si accorge di piacergli, come una donna giovane e bella piace a un uomo giovane e vivo, e pur sentendolo così diverso si affida, sia pur con riluttanza, alla speranza di un tentativo nuovo, alla possibilità di un incontro in cui riuscire a spiegarsi, a spiegare, a chiedere, ad avere.
Ma è troppo murata viva per riuscire a parlare e lui è troppo figlio del suo tempo per intuire quello che lei non riesce a scoprire in se stessa, nel suo animo soffocato dai troppi «non so», «non capisco», «non vedo» e poiché per lui l’amore è solo sesso suona con lei unicamente quella nota. È una nota, però, che a lei non basta e che lui, distratto dal turbine della sua vita troppo attiva, deve sottoporre a continue variazioni, a perpetui, veloci mutamenti: così dopo un pomeriggio di passione, si danno un appuntamento cui nessuno dei due pensa di andare perché sanno entrambi che è inutile.
La coscienza di questa inutilità è la chiave poetica del film, come lo è la sensazione dolorosa di questa trasformazione degli uomini in cose, di questo soggiacere dell’individuo alla prepotente materia che dovunque lo circonda, impedendogli ogni gesto, soffocandogli ogni voce, oscurandogli la vista: Antonioni ha descritto questa trasformazione — nel vivo di tre personaggi perfetti — con uno stile che lucidamente è riuscito ad adeguarsi al significato del dramma, uno stile che ha isolato i personaggi in mezzo alle cose per mostrarci meglio il peso che via via le cose esercitavano su di loro e che, sia quando ha scritto le splendide pagine della Borsa (radiografia allucinata del mito dell’oro), sia quando ha rievocato attorno alla vicenda la modernissima cornice romana dell’EUR (anticipazione architettonica di un ancora incompiuto domani) ha sempre fatto in modo di puntualizzare liricamente ad ogni passo gli stati d’animo dei protagonisti, la loro paura del vuoto, la loro ricerca e soprattutto la vanità terribile di quella ricerca.
Dando vita ad un’azione che, pur nell’austerità di modi e ditemi a lui sempre così congeniale, sa perfettamente adeguarsi alle esigenze più intelligenti del racconto cinematografico (sia pure volutamente inteso, quanto a sviluppi psicologici e a puntualizzazioni di stati d’animo, come un testo letterario). Tra i momenti in cui più felice è l’incontro tra il senso del cinema e questa nuova dimensione letteraria, la sequenza iniziale — il muto, inaridito distacco all’alba dei due amanti — e quella finale che, annullati i personaggi nelle cose, chiede solo alle cose di “raccontare” il dramma delle crisi di oggi. Un dramma, però, che non diventerà tragedia se, come Antonioni avverte nel titolo, oscurerà solo temporaneamente gli animi degli uomini moderni: come l’eclisse, appunto. E il ritmo?
La storia si snoda con un respiro dapprima trattenuto e raccolto, a indicare il silenzio che scende a invischiare i rapporti tra i personaggi, poi concitato, teso, affannoso, quando analizza, con l’impetuosa descrizione della Borsa, una delle ragioni più evidenti di questo silenzio, quindi trepido ed esitante quando segue il nuovo tentativo amoroso della protagonista, e finalmente solenne, sorretto da cadenze quasi fatali, quando le cose si sostituiscono agli uomini e le immagini, che sembrano da documentario, riecheggiano invece un’umanità gridata e straziata, dolorosa e ferita.
Difetti? Qualche esitazione in taluni risvolti psicologici, qualche dettaglio narrativo che non si giustifica del tutto (il viaggio aereo a Verona, forse anche il ballo di lei mascherata da negra), ma sono ombre che nulla tolgono all’importanza di un’opera resa anche più salda e compiuta da una fotografia di intensa vivezza e da una musica colma di tutti gli echi dei turbamenti di oggi.
Gli interpreti sono Monica Vitti, una protagonista di severa sensibilità e di squisita sapienza, un viso doloroso percorso da ombre profonde, da luci misteriose, da contraddittori richiami; Alain Delon, nel deciso carattere del giovane tutto esteriori energie, Francisco Rabal, maschera grigia di intellettuale in sfacelo, e Lilla Brignone nelle vesti della madre della protagonista, un personaggio, anche questo, che troppo preso dai suoi interessi, dalle sue ansie, dai suoi terrestri egoismi, non vede, non sente, non sa più neanche ascoltare.
Da Il Tempo, 22 aprile 1962
Filippo Sacchi
Antonioni è indubbiamente il più colto, raffinato, sensibile, letterariamente educato ingegno del nostro cinema. È naturale che questo lo porti ad essere anche il più inquieto e più problematico. Un bel saggio di problematismo è anche il suo nuovo film, L’eclisse. Problematismo non vuol dire problema. Il problematico, come emozione artistica, precede il problema. Quando il problema è, non dico risolto, ma già solamente annunciato, non è più problematico, perché la semplice enunciazione, suggerendo un’ipotesi, è già una forma di soluzione. I personaggi di Antonioni, qui ancor più che nei film precedenti (o almeno i due precedenti, L’avventura e La notte, dai quali è partito per la nuova ricerca), sono costituzionalmente senza soluzione.
Perciò essi, per definizione, “non sanno”. «Non lo so, non lo so», continua a ripetere indolentemente Vittoria a Riccardo, l’amante che sta per lasciare, e che implora invano una spiegazione, un perché. «Non lo so, Piero», risponde al nuovo amante quando questi le dice: «Credo che andremo d’accordo». Dice ancora: «Non so perché si facciano tante domande… Non bisogna conoscersi per volersi bene…». Esistono naturalmente, accanto a questi, anche altri personaggi non problematici, i personaggi che credono di sapere o che vogliono sapere, come la patetica e sfasata mamma di Vittoria (felicemente caratterizzata da Lilla Brignone), la quale sa che il ribasso in borsa è tutta opera dei socialisti, o quel cliente di Piero, giovane aiutante di un agente di cambio, che vorrebbe sapere in tasca di chi andranno precisamente a finire i milioni che lui sborserà per i riporti: ma costoro appartengono a una categoria di semplici, poco interessanti, con la quale gli altri, i detentori del problematico, convivono senza partecipare.
Problematiche per eccellenza, in Antonioni, sono le donne. Ricordatevi le donne del L’avventura, le donne de La notte. Sono donne assolutamente disancorate, oppresse da una nostalgia folle, ma indistinta, di qualcosa di concreto e di vero, e insieme da un’organica insofferenza e incapacità di cercarlo. Tipico della tattica narrativa di Antonioni è di introdurre questi esseri senza tempo nel tempo, ossia di farli passare attraverso casi e avvenimenti esteriori in modo che la loro esistenza è registrata soltanto attraverso la effimera traccia lasciata su di essi dal loro passaggio: un po’, se così è lecito dire, come l’esistenza degli elettroni è rivelata soltanto dalla scia condensata che essi producono attraversando le molecole gassose della camera di Wilson.
È facoltà peculiare dello stile di Antonioni quella di legare degli stati d’animo senza dimensioni alle dimensioni reali, facoltà che mi pare arrivi qui, ne L’eclisse, alla sua compiutezza espressiva. Ho trovato magistrale, da questo punto di vista, il grandioso e, nella sua epilettica e grottesca drammaticità, potente episodio della burrasca collettiva in Borsa, e il modo come vi isola la figura di Vittoria, la sua impossibilità di capirla e di parteciparvi, con quella deliziosa, sardonica boutade finale: il disegnino idilliaco del giocatore sfortunato e picchiatello. Così, il terzetto notturno delle tre amiche coinquiline che si riuniscono per passare il tempo, e il piccolo estroso intermezzo esotico, e la corsa fuori nei viali deserti a cercare i cani, e all’ultimo, il silenzio rotto da quella musicale, arcana vibrazione delle aste metalliche nel vento. Io non amo completamente il film: mi pare che caschi un po’ nell’incontro amoroso.
Però straordinario è per me il modo con cui Antonioni è riuscito a dare corpo e presenza a un personaggio completamente assente come quello di Vittoria, mantenendogli al tempo stesso tutta la sua irrealtà e la sua indeterminatezza. A un certo punto, addirittura lo cancella. Gli ultimi centocinquanta metri del film sono completamente a scena vuota. Sfumati i personaggi, l’obbiettivo torna sui luoghi: il crocicchio del primo bacio, la casa in costruzione, il bidone dell’acqua, il passaggio zebrato. Prima e dopo sono diventati la stessa cosa.
Monica Vitti ha retto la difficilissima prova di portare il personaggio di Vittoria. Difficilissimo perché si trattava di restare ininterrottamente, si può dire da principio alla fine, sotto l’occhio dell’obbiettivo, rifiutandosi ostinatamente al suo interrogativo, e al tempo stesso concedendosi, esprimendo senza esprimere, deludendo senza deludere, in una dosatura di apparente insensibilità e di inconscia disperazione. Difficilissimo perché bisognava reggere alla prova di quelle interminabili deambulazioni a cui Antonioni (è una mania) sottopone i suoi personaggi: qualche volta senza senso del ridicolo, come quando, dopo che abbiamo visto Vittoria e Piero percorrere mezza Roma, proprio nel momento in cui finalmente decidono di andare a casa, fa dire alla ragazza: «Camminiamo un po’», Ebbene, Monica Vitti ha portato il suo personaggio benissimo. Ha vinto.
29 aprile 1962
Guido Aristarco
«Le stesse cose ritornano», annuncia Musil nella seconda parte de L’uomo senza qualità; e più oltre anche quel titolo ritorna, con l’interrogativo «ovvero perché non si inventa la storia?». Succedono cose dello stesso genere: banalissime, ma spesso molto importanti. Così possiamo dire de L’eclisse. In esso, nel flusso delle coscienze più che degli eventi, accadono fenomeni analoghi a quelli de L’avventura e La notte. Anzitutto i tre film — che sono i “tempi”, i momenti solo apparentemente staccati, di un’unica opera — iniziano con tre addii o fratture ognuna delle quali avviene all’alba. Un addio è quello di Anna, che saluta per l’ultima volta il padre, l’anziano e conformista diplomatico a riposo; quello del romanziere Tommaso a Lidia e Giovanni nella lussuosa e fredda clinica milanese; quello, qui, di Vittoria che abbandona per sempre Riccardo, un intellettuale di “sinistra”. Poco o nulla, secondo lo stile descrittivo di Antonioni, da letteratura d’avanguardia, sappiamo del passato di questi “personaggi”, e degli altri.
È possibile tuttavia rintracciare una continuità ideale in questi “personaggi” non più intesi nel senso della tradizione. Possiamo cioè dire che all’inizio de L’eclisse ritroviamo i coniugi Pontano, qualche anno dopo che li avevamo lasciati nell’ultima inquadratura de La notte. Lidia che tenta di richiamare alla realtà Giovanni, e questi che cerca di evaderne ancora una volta ricorrendo all’amplesso fisico, là, sullo spiazzo arenoso del parco nella villa in Brianza, ormai deserto alle prime luci dell’alba. Parimenti possiamo dire, in questa ricerca ideale del passato, che i coniugi Pontano non erano che Claudia e Sandro sposati, dopo che la prima aveva compreso, nella chiusa de L’avventura, il dramma del secondo: l’impossibilità di vivere lontano da ogni contatto vitale con la realtà, nella “noia”, senza soffrirne (nei pochi momenti di lucidità, di presa di coscienza).
Succedono cose dello stesso genere. L’eclisse è davvero il terzo e ultimo stadio, episodio dell’avventura”. Continua la cronaca della crisi dei sentimenti, della “dismisura umana”. I temi sono i medesimi: incomunicabilità, noia, solitudine e disperazione. Riccardo (cioè il Giovanni de La notte) non comprende l’abbandono, ora definitivo di Vittoria (cioè di Lidia): crede che lei se ne vada per andare con un altro, ed è incapace di offrire un gesto che possa ridare alla donna un senso agli anni passati insieme a lui. Dopo una notte d’incubo e di inutili discussioni («Tutto il tempo a discutere, che cosa poi?»), Vittoria esce dalla casa di Riccardo stanca, avvilita, disgustata, sfasata: “internamente” dimagrita. «Ci sono giorni — dice ad Anita, che non comprende — in cui avere in mano una stoffa, un ago, un libro, un uomo, è la stessa cosa». Tutto è vuoto intorno a lei, pietrificato, come il piccolo fossile che appende alla parete della sua camera. Si sente ed è sola. Più e più volte cerca di comunicare con la madre, ma la barriera è invalicabile.
Anche le amiche di Vittoria sono sole, straniere, in esilio: non sono trasparenti a se stesse e agli altri. Vittoria si sente chiusa come in una trappola. È possibile un’evasione? In casa di Marta il suo sguardo si posa su una fotografia che ritrae un’immensa distesa di erba, un cielo cosparso di nuvole maestose; e accarezza quell’erba, quel cielo provando un senso di grandezza, di libertà, di nobiltà.
Vittoria crede che nel Kenia si pensi meno alla felicità e che quindi si sia felici. Il viaggio in aereo sembra donarle un po’ di pace. Il paesaggio, come nella fotografia, è bellissimo: fiumi, villaggi, campi, nuvole, montagne che si avvicinano. Vittoria si sente priva di affanni, in balia di sensazioni nuove; appoggia la testa, e rimane quasi smemorata; anche quel po’ di paura (il vento che scuote l’apparecchio), quel disagio è scomparso.
C’è molto Rousseau nell’idea con cui Vittoria caratterizza la libertà dell’uomo selvaggio, tutto istinto, nel mettere in dubbio che l’uomo sia diventato granché migliore o più felice incivilendosi. C’è in lei qualcosa di intellettualistico in senso negativo, il mito arcaico di un tempo felice e perso per sempre, del buon selvaggio. Ma anche quel mito, quel simbolo, appare dissolto, contaminato da riproduzioni discografiche di canti e musiche edulcorate, dallo stesso ballo negro che Vittoria improvvisa in casa di Marta, dove il folklore, inteso come cosa curiosa e bizzarra, sfocia in qualcosa di equivoco, in un lesbismo che trapela in connessione con istinti troppo a lungo repressi (in Marta, ad esempio). Unità irreperibile del tempo perduto, di una intatta, selvaggia natura. In realtà, come vedremo, per Antonioni il passato e il presente ormai coincidono, così come coincidono con il futuro. Abbiamo detto che questa Vittoria è una Lidia che vorrebbe “ricominciare”; anche se stanca, dimagrita interiormente, è ancora disponibile, si sforza di inserire le sue personali preoccupazioni nel mondo così chiuso della madre, delle amiche, degli altri, dello stesso Riccardo.
È, nei riguardi di quest’ultimo, né fedele né infedele: le cose sono cambiate, ecco tutto, non lo ama più. E tenta di amare Piero. Ma anche Piero è un uomo senza qualità, fatto di qualità senza l’uomo. Come l’architetto Sandro, lo scrittore Giovanni, e forse lo stesso Riccardo (è facile individuare in questo intellettuale di “sinistra” una crisi non soltanto sentimentale), ha perso contatto con la realtà viva, si è prostituito, arreso alle strutture neocapitalistiche. Giovane, dai modi sbrigativi, faccia maliziosa e sveglia, è di un cinismo sconcertante nel lavoro e nella vita privata.
Dopo l’amplesso, in casa di Piero, Vittoria ha la sensazione che l’uomo, anche quest’uomo sia per lei uno straniero. Il loro amore, se amore c’è stato (cioè possesso pieno, effettivo), è già nato morto, non ha possibilità concrete in un mondo che Antonioni sintetizza nelle sequenze della Borsa. È evidente che queste vogliono essere, nel contesto del film, nodali, decisive, il punto cruciale cui rimandano e si ricollegano, direttamente o indirettamente, tutte le altre parti.
Il quadro assume una grande forza naturalistica, e per certi aspetti anche realistica. Frastuoni di voci e richiami, contrattazioni che procedono con un ritmo incalzante, procuratori, agenti, remissori, clienti che urlano e sbraitano. Più che le parole, urlate e spezzate, si distinguono i gesti, mani alzate, che si protendono, visi alterati. Cifre e poi cifre. Compra e vendita di titoli. In tale spettacolo agghiacciante, in tale baraonda, un minuto di silenzio in memoria di un agente di cambio morto di infarto, è osservato quasi con fastidio, come perdita di tempo; e di colpo, consumato quel minuto, con smaniosa impazienza, i rumori riprendono, e le urla, i richiami del pubblico. Il parossismo giunge al culmine nel momento in cui i titoli crollano.
Antonioni sottolinea con efficacia l’azione antiumana del denaro, tale da alterare e deformare l’essenza stessa dell’uomo: già quella voce che parla di morte mentre i telefoni continuano a trillare, è un “dettaglio” che sgomenta. Aottolineava Marx sulla scorta di Shakespeare e Goethe:
«L’inversione e lo scambio di tutte le qualità umane e naturali, l’affratellamento degli inconciliabili (il potere divino del denaro) provengono dalla sua essenza di essere generico all’uomo estraniato e indotto ad appropriarsi e ad alienarsi in esso. Il denaro è potere alienato dell’umanità. Ciò che io non posso fare in quanto uomo, ciò che non possono dunque compiere le mie forze essenziali individuali, questo io lo posso mediante il denaro. Il denaro trasforma dunque ognuna di queste forze essenziali in qualcosa che essa non e, cioè nel suo contrario».
La solitudine, l’incomunicabilità, diventa sempre più — nell’itinerario di questa “avventura”, di questa ricerca di un’altra condizione — la “noia” nell’accezione riproposta di recente da Moravia, e strettamente connessa con una prostituzione dinanzi alla “divinità visibile”, il denaro, a tale potente e affascinante “mezzano”.
Le stesse cose ritornano. Ma succedono davvero cose dello stesso genere? Queste cose vanno realmente ne L’eclisse come ne L’avventura e La notte, e soltanto così? La storia può essere inventata, tanto essa si ripete uguale nei singoli avvenimenti del tempo? Diceva Marx:
«Ognuno dei tuoi rapporti con l’uomo e la natura deve essere una precisa espressione della tua vita reale e individuale che corrisponda all’oggetto della tua volontà. Se tu ami senza far nascere amore, cioè se il tuo amore in quanto tale non produce amore, se per mezzo di una espressione di vita tu, persona amante non fai di te stessa una persona amata, allora il tuo amore è impotente, è una disgrazia».
Questa la drammatica, tremenda e definitiva constatazione di Vittoria. Quale la differenza che esiste tra lei e Claudia, Valentina, la stessa Lidia?
Vittoria si rende ormai conto che la sua possibilità — di amare e di produrre amore nella persona amata — è definitivamente non reale, astratta. Impossibile colmare quel gran buco ormai vuoto che si chiama anima: le vie dello spirito partono da essa, ma nessuna vi può tornare; non esistendo più il senso della realtà, non esiste neppure il senso della possibilità.
E Antonioni giustamente sottolinea che L’eclisse non è una storia di personaggi; è la storia di un sentimento, o di un “non sentimento”. Le “qualità” di Vittoria, così diverse da quelle di Piero, della madre, degli altri, appaiono adesso alla stessa Vittoria indifferenti, e come l’Ulrico di Musil, di fronte a questa infinita indeterminatezza del mondo dell’anima, a queste “impossibilità” impossibili, finisce per dissolvere ogni decisione e sentimento in una lucida ironia. L’ironia che — già presente nel nome della protagonista — è alla base del secondo amplesso di Vittoria e Piero, non più nell’appartamento patrizio di quest’ultimo, ma negli uffici di Ercoli.
«Ci vediamo domani?» domanda Piero. Vittoria fa cenno di si. «Ci vediamo domani e dopodomani», aggiunge Piero. E Vittoria: «…e il giorno dopo e quell’altro ancora… e stasera». Ma al pari del suo tentativo, anche la sua promessa è senza convinzione, senza speranza. Anche Piero, ora, appare pensieroso, sgomento, mentre con gesto meccanico riattacca i telefoni, che ricominciano a trillare.
Vittoria si sofferma davanti all’ascensore in riparazione, scende lentamente le scale, esce, cammina in una via che sembra aprirsi sul vuoto; gli alberi, contro il cielo e con i rami contorti e intrecciati, assumono la forma di un’inferriata. Non rivedremo più Vittoria: entra, per dissolversi, in una folla anonima, di sonnambuli, che richiamano i “mostri”, gli “ossessi” nelle sequenze della Borsa.
Ed ecco che qui, in questo momento, ancora qualcosa di diverso accade rispetto a L’avventura e La notte, non nel senso che postulavamo, di qualche avanzamento dialettico da parte di Antonioni. I due precedenti film, nel presentare la liquidazione di un presente, oltre il quale nulla si voleva offrire, contraddicevano le intime convinzioni dell’autore: descrivevano non il mondo ma un mondo, non tutti gli uomini ma un particolare gruppo di uomini, di individui, in un preciso e particolare ambiente, contrassegnato davvero dalla negazione di ogni sviluppo, storia, prospettiva.
Non così possiamo dire de L’eclisse. Qui Antonioni appalesa, sulla scia di personalità quali Wolfe, la sua salda persuasione che la solitudine — e quindi l’incomunicabilità, l’angoscia, ecc. — non è per nulla qualcosa di raro o singolare, qualcosa di peculiare solo a pochi individui, a una classe, ma il fatto ineluttabile, centrale di tutta l’esistenza umana.
La sequenza finale, stilisticamente perfetta nella sua aderenza al contenuto, ne è la riprova più probante. Essa costituisce per Antonioni un momento, un capitolo altrettanto cruciale rispetto a quello della Borsa, col quale è in stretta connessione; anzi addirittura un manifesto artistico, l’estrinsecazione in termini rigorosamente cinematografici della sua visione del mondo. Mai sino ad oggi egli aveva saputo esprimere con tale potenza di immagini il proprio pensiero, posto la sua opera in equilibrio, come qui, tra il saggio e il film, l’anti-film.
L’onestà di Antonioni è fuori discussione, e così pure la sua volontà di moralizzatore, o meglio di moralista. È il suo anti-neocapitalismo “romantico”, e proprio in quanto tale, che lo porta qui, in connessione con il livellamento dei contenuti e rifiuto di ogni prospettiva, a un’incapacità di ricavare qualcosa di veramente vivo dalla realtà, a rendere L’eclisse così “rigida”, “definitiva” e totale, sconfortante.
Ciò è a sua volta connesso, naturalmente, con il suo metodo artistico. Si farebbe torto ad Antonioni — come si disse a esempio per certi scrittori d’avanguardia –, alle sue intenzioni artistiche e ai risultati raggiunti nel suo ultimo film, se si interpretasse il suo restare a questa fuga di pensieri e sentimenti, a questo misero approdo dei suoi personaggi e del mondo che ci descrive, come un fallimento, un mancato raggiungimento di ciò che egli voleva e del come lo voleva ottenere. Egli ha mirato al suo film e lo ha realizzato aderendo a una precisa tendenza culturale, alle strutture ideologiche dell’antiromanzo, dell’avanguardia (la più avanzata, la più “riflessiva”, anche se in lui rimane ed è presente il fascino di un Robbe-Grillet, cui concede, per più versi non poca importanza).
Non a caso la staticità e il livellamento de L’eclisse si esprime, come si è visto, in immagini allegorico-simmetriche, in allegorie e allegorizzazioni al limite del simbolo. Lukacs ha riconosciuto molto chiaramente che proprio l’allegoria in senso moderno (avanguardia):
«È quella categoria estetica (per quanto in sé estremamente problematica), in cui possono affermarsi artisticamente concezioni del mondo che costituiscono una scissione in esso, in seguito alla trascendenza della sua essenza e fondamento ultimo, in seguito all’abisso tra l’uomo e la realtà.»
La particolarità astratta di ogni oggetto rappresentato — uomo, cosa, fatto — conseguenza estetica dell’allegoria, raggiunge il culmine nel finale de L’eclisse, raffrontato all’opera precedente del regista. Tutti questi rimandi letterari non debbono comunque condurre a equivoci. Mai ad esempio come qui Antonioni distrugge nella parola — nel dialogo — quanto essa può conservare (e in lui conserva fino a Il grido compreso) di suggestione letteraria, per “conficcarla”, come osserva Tonino Guerra, nel suo valore di suggestione cinematografica. Artista ormai maturo dell’immagine, Antonioni realizza la sua filosofia dell’assoluta inadeguatezza della realtà attraverso una personale concezione del linguaggio e una particolare tecnica linguistica: pur riallacciandosi a un gusto neo-sperimentale, alla moderna letteratura d’avanguardia, egli crea forme organiche — semantiche e sonore — del tutto nuove, e comunque filmiche.
Come ad esempio un Broch nell’antiromanzo, così Antonioni nel cinema, e con i mezzi specifici ad esso, sembra quasi che abbia voluto sperimentare non tanto la realtà da rappresentare, quanto le possibilità insite nell’anti-film di far coincidere la struttura della sua ultima opera con la struttura dell’anima nel suo reificarsi, quale egli la intende, la osserva e la descrive. L’illimitata possibilità delle sue immagini, in tal senso, dei monologhi interiori, assorbe spesso la realtà dei singoli temi, e in lui la tecnica del libero gioco, decorso delle associazioni, non è una semplice tecnica dello “scrivere” cinematografico, ma la forma interna della rappresentazione e quindi — come principio costitutivo de L’eclisse — qualcosa di artisticamente ultimo.
Che quello de L’eclisse sia dunque un realismo critico, come molti vorrebbero, non diremmo, anche se nel contesto particolari realistici non mancano; né tanto meno diremmo con Lane che Antonioni sia un regista marxista. Artisticamente “interessante”, anzi stilisticamente la più matura del regista, questa opera è decadente e quindi irrazionalistica, di un irrazionalismo squisitamente laico: per i decadenti tutto è come qui abisso, tutto pervaso dall’insicurezza, da un’angoscia spettrale e mortale, sia pure ormai rarefatta. Esiste pertanto una contraddizione lacerante: Antonioni è sì un moralista che lotta contro la morale corrente, convenzionale, i pregiudizi borghesi, ma in nome di una libertà cui egli stesso, in L’eclisse, non crede forse più. Come Ibsen, è un “rivoluzionario” senza ideali sociali; e il riformatore rischia di trasformarsi, anzi si è già trasformato, in uno sconsolato fatalista.
Da Cinema Nuovo, n. 157, maggio-giugno 1962, pp. 190–198
Pietro Bianchi
Nel film L’eclisse, Vittoria, una ragazza indipendente, che vive in un quartierino elegante facendo la traduttrice, abbandona senza ragioni plausibili l’amante Riccardo, dopo una lunga relazione: è un giornalista politico, un giornalista «engagé». Il giovanotto non riesce a capire l’atteggiamento di Vittoria, e cerca invano di vincerne la ritrosia, di riconquistarne l’animo. Vittoria nel frattempo va in cerca della madre, una donnetta che appartiene a quel ceto sociale della piccola borghesia sempre spaventato dal futuro, sempre in attesa di un mutamento favorevole della vita.
Essa con quei pochi soldi che ha a disposizione gioca in borsa, e la cogliamo proprio in un momento di crisi, quando la borsa ha avuto una caduta e la povera donna vede inghiottiti tutti i suoi risparmi. Essa non ascolta la figlia, che l’invita a tornare a casa; Vittoria ha così l’occasione di conoscere un commissionario di borsa, Piero, un giovanotto di simpatico aspetto, attivo, pieno di fiducia in se stesso, forse non cattivo, ma che la vita ha costretto a compromessi con la propria coscienza.
Egli non può aver pietà della povera gente che, in cerca di guadagni favolosi, rischia i suoi denari in operazioni troppo spregiudicate, troppo risicate; anzi ha una battuta molto cinica quando avendogli un ubriaco rubato la Giulietta, con essa è finito in fondo a un lago artificiale. La Giulietta viene ripescata, l’uomo è morto. Egli non pensa al morto, ma rivolgendosi a Vittoria le dice:
«Con poche migliaia di lire rimetto a posto la carrozzeria.» Un limite di disumanità e Vittoria ne rimane colpita: che sia Piero l’uomo forte, colui che essa attende nel suo animo disorientato e smarrito? Vittoria tenta l’amore con Piero. A un certo punto la loro storia sentimentale sembra perfetta. Uno chiede all’altro: «Ci vedremo domani?» — «No, questa sera alle Otto.» La sera, al luogo del loro appuntamento, non si vede nessuno. Vi sono le cose, palazzi, cortine di bambù percorse da un fremito lieve, perché c’è un vento che dal principio alla fine sembra indicare l’inquietudine dei protagonisti.
Una carrozzella di bambino, un autobus che agli angoli delle strade cigola per i freni; ma i due amanti non compaiono: per loro l’avventura è finita. Eppure in quell’attesa delle cose sembra di scorgere una partecipazione delle cose, appunto, alberi, case, vento, alla malinconia degli uomini, quasi che il mondo fisico avesse acquistato un’anima vicina a quella degli umani.
Si può parlare di una sorta di buddismo, della speranza di una vita diversa. Antonioni invita spesso a queste formulazioni. È un regista problematico, un regista che cerca cose nuove; è un regista, se volete, letterario. Però il suo film prende con una sorta di partecipazione dolorosa. Non ha più certi difetti di equilibrio e di non precisa osservazione sociologica che ci disturbavano ne L’avventura e anche ne La notte.
Questa volta Antonioni ha come rappreso la sua materia in uno stile unitario senza scompensi. Con grande intelligenza spettacolare egli ha saputo contrapporre alla solitudine delle anime, alla malinconia di Vittoria, il mondo frenetico, agitato, nevrotico della borsa, dove un minuto di silenzio appare più definitivo della scritta mortuaria su una tomba. Sembrano uomini completamente alienati dalla sete del denaro. E nel cinematografo, questa pagina perfetta di Antonioni è ancora più forte della letteratura.
Le immagini rendono con un’alacrità unica, con una forza rappresentativa straordinaria, la febbre, l’agitazione, il senso di frustrazione generale che dà il lavoro delle borse. Pochi anni fa, visitando una mostra molto importante dell’Unesco a Roma, nella quale erano rappresentati dal punto di vista figurativo dei grandi artisti dell’epoca della grande crisi europea, in parole povere il ’600, restammo ammirati dalla bellezza di un Caravaggio, che è a Malta e che è stato restaurato a Roma, e di un Vermeer, il pittore che piaceva a Proust. Incontrammo poco dopo un famoso critico d’arte, nostro amico, che cercammo di far partecipare al nostro entusiasmo.
Il critico d’arte sorrise e ci disse: «Ma tu, che t’interessi tanto della storia della cultura, del corso delle idee, non hai visto quel quadro piccolo dove appare la luna?» Lo avevamo visto ma non gli avevamo dato troppa importanza. E il critico riprese: «È la prima volta che si vede in un quadro una luna realistica, osservata dal vero, non una luna decorativa, una luna mitologica.» Era il Seicento ansioso di nuove cose, il Seicento scientifico, il Seicento che apriva l’età moderna. Un secolo drammatico, un secolo tra i più problematici, un secolo che sembra cupo eppure è come una fiamma di fucina nell’antro tenebroso di un vecchio fabbro. Con Bruno e con Campanella si intravede il pensiero di domani; con gli scienziati ci si libera dei ceppi del passato e con la musica si cerca di esprimere quelle idee che la Controriforma detestava.
Ebbene, anche adesso, come nel Seicento, si assiste, secondo noi, a un fenomeno di rivoluzione spirituale. Non si sa che cosa ci attende ma si sa che c’è. Facendo un paragone terra terra, un paragone di esperienze individuali, è come quando, in certi giorni di primavera, si è inquieti, amorosamente inquieti, e poi appare una donna che per poco o per molto accontenta i nostri desideri e i nostri sogni. Ma senza quell’attesa, non l’avremmo riconosciuta per via.
Ora l’umanità attende, attende qualcosa, ed è giusto che siano l’arte e il cinema artistico a precedere con l’analogia, con l’intuizione, una verità che forse non è ancora molto lontana dalla sua piena apparizione. Ne L’eclisse questo mondo curioso, questo mondo di attesa, c’è. L’incomunicabilità protagonista è soltanto verso due uomini e una donna con i quali non riesce a organizzare una relazione sentimentale coerente e profonda; ma in compenso sembra essere d’accordo con le cose. I suoi momenti di pace sono nel prato in cui decollano e giungono gli aeroplani, oppure nella gente della periferia romana dove sono le case della gente agiata, dove passano carrozzelle con bimbi, dove c’è sempre gente in attesa, sconosciuti e pure uomini come noi.
Espresso il nostro consenso a L’eclisse, resta un’osservazione d’ordine generale. Il cinema hollywoodiano s’è affermato negli anni trenta, vincendo la concorrenza europea, perché proponeva racconti rapidi, succosi, che non lasciavano il tempo di riflettere. Tutto era fulmineo, allusivo: si trattava insomma di un cinematografo d’azione. Ora la gente preferiva quel tipo di pellicola, con le eccezioni dei film di Carné e di Renoir, alle nostre lentezze, ai nostri compiacimenti estetici.
Lo stesso Rossellini, iniziando la polemica neorealistica con Roma città aperta e Paisà, mai si dimenticò di essere breve e conciso. Con Antonioni i tempi lunghi contrastano la rapidità delle opere hollywoodiane. Si va controcorrente, tanto è vero che una parte del pubblico non riesce più a orizzontarsi. È tipico in questo senso l’inizio, d’altronde assai bello, de L’eclisse. Vittoria non vuol più saperne di Riccardo. Ma prima di congedarsi perde una quantità di tempo: gira per la stanza, guarda fuori, ha alcuni gesti. Niente di più giusto, intendiamoci. Perché, tra l’altro, la gente perbene, quando lascia qualcuno, si comporta proprio così.
Il punto è altrove. Non in Antonioni che è un regista originale, con uno stile suo. Il punto è in coloro che dicono: questo è il cinema di domani, il cinema di papà, è morto.
Da Il Giorno, giugno 1962 (giorno non disponibile)
Tullio Kezich
Affrontando L’eclisse Antonioni non ha smarrito il nuovo senso del rapporto fra la natura e i personaggi stabilitosi nel finale di La notte. Nel personaggio di Monica Vitti si avverte una continua tendenza a cercare un rapporto con la realtà che la circonda, determinata magari dalla presenza occasionale di una finestra. L’ambiente stesso della storia, la città giardino dell’EUR, ci introduce alla sorpresa finale, quando i personaggi affondano addirittura nelle cose e spariscono.
Che cosa significa la sequenza finale di L’eclisse? La vicenda del film è semplice. Monica Vitti lascia Francisco Rabal, un intellettuale di sinistra, e si incapriccia di un giovane agente di borsa, Alain Delon i due giovani vivono un breve momento di felicità, ma a un certo appuntamento nessuno dei due si presenta e l’occhio del regista (che coincide probabilmente con quello della protagonista) si sforza di dare un scuso alle immagini del reale al di là di un sentimento forse incenerito, forse in via di maturazione e di trasformazione.
L’eclisse ha il merito di scavalcare la prospettiva di un rapporto sentimentale uomo-donna come unica raffigurazione dell’esistenza, di tentare un rapporto molteplice fra un personaggio e gli infiniti aspetti del reale. Non a caso, infatti, gli episodi della felicità amorosa, le lunghe e a volte discutibili schermaglie fra la Vitti e Delon, mantengono una nota troppo insistita, quasi sgradevole mentre la vera felicità, che è data dal sentirsi in perfetta sintonia con le cose e nella scena magica dell’aeroporto dove Monica si muove e sorride sul motivo di un blues, due negri stanno seduti al sole, un americano beve la sua birra, e ci godiamo un momento di quella “pace debole” cui allude al titolo di un giornale nell’ultima sequenza
L’itinerario di Antonioni, che nasce neorealista e diventa astratto, si ripete in ogni suo film L’idea di L’eclisse era legata a un fatto astronomico ma è significativo che il regista non abbia montato la sequenza girata con la Vitti durante l’eclisse totale di sole dell’anno scorso. Cammin facendo il dato realistico si è trasformato in un elemento simbolico polivalente. Si può dire con il film di Antonioni: tutto il mondo è continuamente alle soglie di un’eclisse, che si manifesta individualmente e psicologicamente ma potrebbe diventare un fenomeno coinvolgente l’umanità intera il rapporto fra l’individuo e il destino del mondo e infatti sempre presente nei film Antonioni, che vigila perché le sue vicende astratte si svolgano qui e oggi.
Perciò succede che a una narrazione di tipo psicologico, forse più vicina ormai all’obiettività della “école du regard” per quella dissociazione dell’uomo dalle cose di cui parla Moravia in La noia, si riallaccia senza sforzo una grande allegoria realistica come le sequenze della Borsa. In queste scene Antonioni ha raggiunto il massimo della sua forza espressiva, rispecchiando la realtà brutale dell’alienazione con mezzi pressoché documentaristici. Si tratta, ovviamente, di un documentario filtrato e ricostruito, ma l’attendibilità delle immagini è assoluta anche sul piano di una lettura in prima istanza.
E l’interno borghese della casa di Delon, con i suoi mobili vecchio stile e le cornici dei quadri, suggerisce a posteriori la crisi di una classe che matura i suoi delfini per la giungla degli affari. L’eroe di una moderna storia d’amore combatte, insomma, fra il “parco buoi” e la tabella delle quotazioni, sgolandosi, personificazione truffaldina e soddisfatta di un mondo che va progressivamente smarrendo il senso della realtà.
Da Tullio Kezich, Il cinema degli anni sessanta, 1962–1966, Edizioni Il Formichiere
Quaderni Piacentini
«L’ECLISSE» di Antonioni
E così abbiamo visto anche «L’eclisse», dopo «L’avventura» e «La notte», con interesse via via decrescente. Un altro film sulla «alienazione», sulla «incomunicabilità». E purtroppo tutta la cultura italiana, da destra a sinistra, a battergli la grancassa pubblicitaria.
Evidentemente i facili schemi sui quali la nostra critica ha vivacchiato per anni non servono più a nulla, neanche per venire a capo di un film come «L’eclisse». Perfino un critico preparato come Tommaso Chiaretti, per difendere Antonioni, deve ricorrere al confronto con «Divorzio all’italiana»! Taciamo di quelli che già avevano sparato a zero su «Marienbad» e ora osannano «L’eclisse»: Moravia decide che, mentre «Marienbad» era una «favola», nell’«Eclisse» si tratta di «realismo critico»! I critici di sinistra poi s’attaccano al pezzo sulla Borsa (e magari alla frase liberale della protagonista a proposito dei negri del Kenya) per concludere che si tratta di un film antiborghese! Come dire che «La notte» era un film intellettuale perché il protagonista era uno scrittore (e vi si facevano, goffamente, i nomi di Adorno e Musil)!
In realtà si tratta di un film gratuito, evasivo, di destra. Noioso, spesso penoso. Posto che i valori (in particolare, i sentimenti) siano morti, riteniamo preferibile, anziché continuare come Antonioni a celebrare loro dei funerali sempre più eleganti, saltare il fosso senz’altro e occuparsi del «vuoto», del «nulla», come fa (seppur con pessimi risultati) qualche regista della nouvelle vague. Meglio, alla fine, che Resnais abbia fatto il ruzzolone di «Marienbad» piuttosto che salvarsi con una comoda replica di «Hiroshima».
Anno I, numero 1–2, luglio 1962, p. 31
Adelio Ferrero
La lunga sequenza della separazione degli amanti all’alba, dopo una notte di tormentosi e vani interrogativi, con cui si apre L’eclisse, terzo e “definitivo” tempo della trilogia, viene un po’ a costituire l’anticipazione del tema del film, che è quello del disamore di Vittoria per gli uomini e le cose, e della sua trascrizione stilistica, caratterizzata da un descrittivismo fenomenologico rigoroso e coerente.
E infatti si tratta di una sequenza magistrale su quel piano descrittivo, e nei limiti ad esso inerenti, dove l’interruzione del rapporto sentimentale viene risolta nella misura di una oggettività che sottintende ormai la fine dei sentimenti.
Si veda come Antonioni risolve figurativamente il motivo della “contiguità” dei due amanti (il che fa pensare a certe inquadrature, ma ben diverse e ben diversamente “motivate” de Le amiche), come isola e rende il rilievo assurdo e i contorni raggelati degli oggetti, con i quali non esiste più rapporto alcuno. Tuttavia la severa coerenza emblematica della sequenza ha il suo limite in se stessa: Riccardo è una presenza, un’“ombra”, a cui certi supporti esterni (le “riviste della crisi” abbandonate sul tavolino) conferiscono un ambiguo risalto.
In Vittoria la consapevolezza della fine del rapporto sentimentale, e soprattutto la disperazione e l’impotenza del vedere oggettivamente, in una sequenza di immagini ormai ferme e distaccate da sé, l’inganno degli anni trascorsi con Riccardo e più viva e dolorosa che nell’uomo, in cui l’indifferenza equivale ad una sorta di difesa. Vittoria avverte dunque il progressivo venir meno della qualità nell’universo che la circonda (per rifarci ad una definizione di Aristarco), un universo che può essere ricondotto ad una dimensione “informale” in cui la presenza dell’uomo si è come appiattita ed adeguata al livello delle cose, inerti e mute. Vittoria diventa pertanto ne L’eclisse la protagonista inquieta e instabile di una ricerca vana e nostalgica di una condizione di vita autentica che sembra finita da molto tempo, anche se in essa già si avverte, e sia pure in diverso senso, il peso dell’aridità che soffoca in genere i personaggi maschili del regista.
Due sequenze del film, e la seconda non a caso tra le più belle, risultano particolarmente rivelatrici della disposizione sentimentale del personaggio. Vogliamo alludere all’incontro notturno nell’appartamento di Marta, il cui marito si trova nel Kenia tra «60.000 bianchi… e 6 milioni di negri che vogliono buttarli fuori», in cui Antonioni respinge, come al solito, la tentazione di un impossibile ritorno alla “natura”.
L’altra è la sequenza del volo in aeroplano, in cui Antonioni descrive con l’accorato riserbo che gli è consueto l’illusione di Vittoria di ritrovare il significato e il peso dei sentimenti — trepidazione, apprensione, paura, serenità — in una circostanza eccezionale. Lo sguardo curioso e ricettivo della donna si posa amorevolmente, al termine del volo, sullo spiazzo dell’aeroporto, su un ciuffo d’erba, sul volto di un uomo; il suo orecchio tende ad accogliere il suono di una canzone dal juke-box del bar. Il contatto con le cose sembra inaspettatamente ritrovato e ristabilito, e il regista segue con lucida consapevolezza, temperata da una sorta di pudica partecipazione, l’illusoria felicità del personaggio. Questa patetica presenza di Antonioni smentisce, tra l’altro, la ricorrente e diffusa leggenda della “freddezza” del regista.
Come è noto, qualcuno ha creduto di poter individuare nelle sequenze della Borsa il tema centrale e caratterizzante del film ed ha parlato per questo di realismo “critico”. È il caso di Alberto Moravia, il quale tornando una seconda volta, come già gli era avvenuto non a caso per La notte, sul film scrive tra l’altro ne “L’Espresso” del 13 maggio 1962:
«Quest’intellettuale non è marxista ma moralista, psicologo ed anche sociologo di specie umanistica. Quest’intellettuale non accetta affatto l’alienazione, anzi ne soffre, come di qualche cosa di profondamente anormale. Egli indica nella Borsa, cioè nel denaro, l’elemento alienante che indirettamente si insinua in tutti i rapporti, compreso quello sessuale».
Indubbiamente le due sequenze della Borsa sono rivelatrici del mondo in cui i personaggi di Antonioni vivono, da cui sono condizionati e alienati. E magistrale è l’invenzione, nella prima, del minuto di raccoglimento: l’intrusione improvvisa della morte in quell’assurda ed esasperata contraffazione della vita, la “dismisura”, per usare un termine caro ad Antonioni, degli uomini rispetto a questo fatto definitivo e irrevocabile.
E nella seconda l’assenza di sentimenti e di reazioni, anzi della capacità stessa di provarne, quando ormai l’animo dell’uomo è stato spremuto e stritolato dall’assurdo vortice del danaro, trova una bellissima raffigurazione nell’incisivo e geniale ritratto dell’uomo che ha perduto centinaia di milioni e che Vittoria segue, incredula e trepida, nelle strade adiacenti la Borsa. Ma anche questa volta non accadrà niente: sul tavolo del caffè a cui l’uomo si è seduto resteranno la cartina spiegazzata di un calmante e dei fiorellini disegnati su un foglio. Il meccanismo che determina le passioni degli uomini sembra essersi definitivamente spezzato.
Ma anche le sequenze della Borsa, malgrado le apparenze, rientrano perfettamente nella prospettiva irrazionalistica che il regista assume dinanzi ai fatti descritti. Esse non sono infatti il risultato di un atteggiamento e di un processo conoscitivo della realtà, scavato sino all’individuazione delle cause profonde di quanto avviene, articolato su diversi piani, realisticamente circoscritto, ma l’ipostatizzazione di un aspetto parziale del nostro tempo arbitrariamente universalizzato. Il denaro che Antonioni descrive non è mai denaro inteso come profitto, ma il denaro respinto come Moloch. Di qui anche l’astrattezza moralistica dell’atteggiamento del regista, il suo arrestarsi impotente alla rilevazione e al rifiuto del “fenomeno” descritto.
L’unilateralità di questa visione si riscontra anche nel disegno della figura di Piero, tutto risolto in un lavoro svilito ormai a pura abilità meccanica, priva di ulteriori determinazioni. Nei limiti del film, Piero viene pertanto ad essere una delle figure più compiute e persuasive del regista. Come ha osservato acutamente Italo Calvino su “Il giorno” del 29 aprile 1962:
«Uno che nel mondo frenetico… ci guizza come un pesce, uno che non si sogna nemmeno di esserne schiacciato, a cui solo l’amore per questa ragazza fa capire che c’è qualcosa che non va, ma non si lascia mettere in crisi».
La cinica “pedagogia” dell’agente di cambio da cui dipende («una bella setacciata ogni tanto fa bene. Restano soltanto i clienti buoni… quelli che se Dio vuole non hanno tanti patemi d’animo…») costituisce per Piero una lezione e uno stile di vita nei rapporti con gli altri. Si pensi a questo breve dialogo, tra i più significativi del film, di Piero e Vittoria:
Pero: A te non piace venire in Borsa, vero?
Vittoria: Non ho ancora capito se è un ufficio, un mercato o un ring.
Piero: Bisogna venirci spesso per capire. Se uno comincia, poi entra nel giro. Si appassiona.
Vittoria: Si appassiona a che cosa, Piero?
È questo un dialogo in cui si ritrovano indubbiamente tutte le implicazioni, e i limiti, della visione del regista: da un lato un rifiuto della società moderna vista come realtà disumanata e descritta in termini di irrazionalistica e livellatrice immobilità, staticità; dall’altro una sensibilità femminile avvertita e dolente, ma sostanzialmente inerte, incapace di reazioni e di scelte consapevoli.
È da questa incertezza e disamore di Vittoria per gli uomini e le cose che nasce il rapporto con Piero il cui esito è peraltro scontato in partenza, e la diffidenza iniziale della donna nei confronti di Piero nasce appunto dal lucido presentimento di una nuova sconfitta. Infatti il rapporto di Piero e Vittoria è come racchiuso in una misura erotica angusta e avvilente. L’ambiente in cui si svolge il loro primo convegno d’amore ne sottolinea la mancanza di calore e di appigli: si pensi all’assurda fissità di quei ritratti familiari, alla atmosfera ferma e stagnante della piazza, al greve fondale della chiesa barocca, alla solitudine del soldato nella strada che sembrano alludere ad un mondo in cui la vita è spenta, lasciando dietro di sé un panorama fossile.
Fra quelle mura e in quel silenzio i gesti e le parole degli uomini hanno qualcosa di arcaico e di assurdo, proprio di un mondo di sopravvissuti. Del resto questo motivo era già apparso evidente nelle scene che si svolgevano a casa della madre, una donna in cui l’ossessione del danaro ha dietro di sé una storia di errori e davanti a sé una prospettiva di illusioni: in essa infatti l’insicurezza piccolo-borghese e il vano tentativo di risolverla attraverso il gioco in Borsa appaiono regolati da un determinismo meschino e feroce.
Dinanzi alla madre, come del resto dinanzi alla sua antica camera di bambina, Vittoria non prova nessun sentimento, non riesce a riconoscersi e a ritrovarsi in un ambiente familiare inesistente; anche il passato appare privo di rispondenze e di possibili rivelazioni.
Ma in Piero, a cui ella dirà ad un certo punto della loro vicenda «Vorrei non amarti. O amarti molto meglio», Vittoria non potrà trovare naturalmente una possibilità e una misura autentiche di sentimenti. L’aridità di Piero, di cui il regista aveva mostrato tutta l’inconsapevole misura nella sequenza del recupero della macchina con il suo tragico carico oltre che nelle scene della Borsa, ha anzi l’effetto di inaridire i sentimenti della donna stessa. Nel loro ultimo amplesso, la coscienza della illusorietà di quel rapporto si ironizza nel giuoco amoroso e si rispecchia nella disperazione ormai rassegnata di Vittoria.
È il momento che precede immediatamente la sequenza finale che risulta di una suggestione metaforica, di un’evidenza astratta stupefacenti. Piero e Vittoria non sono venuti all’appuntamento: l’occhio si posa su una sorta di paesaggio astratto e pietrificato, in cui anche gli uomini sono ormai soltanto dettagli di uomini, pura oggettività. Tutto ciò che si vede — tubi innocenti e muri di case in costruzione, rivoli d’acqua che scorre e formiche che si agitano sulla corteccia di un albero, titoli di giornale minacciosi e pure come lontanissimi, irreali balconi con figure di ex-uomini come sospesi nel vuoto — tutto è l’immagine di un’assenza.
Da Sandro a Giovanni a Piero, lungo una linea sempre più netta di aridità e di cinismo! da Anna a Claudia a Lidia a Valentina a Vittoria, attraverso una sempre più consapevole inutilità dei tentativi di reagire “al mare dell’oggettività”, il discorso di Antonioni si svolge e si chiude con una esemplare coerenza. La rinuncia ad ogni forma di “ottimismo della volontà” ha il suo presupposto nel progressivo abbandono del “pessimismo della ragione”, che pure fu una delle componenti più stimolanti del moralismo laico e intransigente del regista.
Con L’eclisse il suo contributo al cinema diventa infatti uno dei capitoli più interessanti e suggestivi di una rinnovata “distruzione della ragione”. Né si vede in qual modo egli possa trasformare una radicale ripulsa della odierna organizzazione della vita in una diversa proposta di esistenza e di rapporti. A non consentire la trasformazione è proprio l’assenza di quello che Moravia chiama, molto generosamente, il “realismo critico” di Antonioni: cioè una conoscenza razionale della realtà in vista di una sua storica liberazione.
Da Cinestudio. Quaderni del Circolo Monzese del Cinema, n. 5, novembre 1962, pp. 9–13
Giuseppe Marotta
Dio m’è testimone che non mi va di infierire su Michelangelo Antonioni; accingendomi a vedere L’eclissi dicevo mentalmente: «Signore, fa’ che ogni pagina, ogni riga di questo libro cinematografico sia per me un Sesamo apriti decisivo, ineluttabile; spalancami, Signore, lascialo andare e venire nella mia sensibilità come la brezza nel grano». Mi esaudì, l’Onnipotente? Cerco qui, mansuetissimo, di chiarirlo tanto a voi che a me… non illudetevi che sia facile, o m’impicco. Al fatto (che è poi, nelle sequenze di Antonioni, il dissolversi in fumo, in arcani vapori, di ogni fatto).
Si principia con taluni oggetti ingranditi: giornali e periodici sinistroidi su un tavolino (o avete qui, come una folgore sulla nuca, l’intuizione che siamo nell’appartamento di un Piovene in sessantaquattresimo, o, pazienza, non l’avrete più); due lampade; un ventilatore (è dunque, icasticamente, luglio se non agosto); un portacenere zeppo di cicche; una poltrona in cui siede rigido, come per un “terzo grado” in Questura, il giovane Riccardo.
Poi l’obiettivo inquadra lentamente la giovane, graziosa, enigmatica Vittoria. Consideriamola. È in piedi, svaria qua e là, muta e un po’ torva come se il “terzo grado” lo avesse, lei, già subìto. Per lunghi minuti c’è silenzio; né parole, né musica; tutto è demandato alle immagini e alle espressioni, limitatamente sintomatiche: un bel tacer non fu mai scritto, e nemmeno cinematografato se è per questo. Antonioni se ne avvede e abbozza uno stringatissimo dialogo. Lui: «Decidiamo». Lei: «È già deciso». Meglio che niente.
La ragazza, intanto, va alla finestra: appare il villaggio olimpico, se non erro; c’è una radura nella quale si erge, su una colonna, un serbatoio d’acqua, se tale è, stranamente fallico; ivi si radunano le tenui luci dell’alba. Riccardo, sul contrappunto, oso notare, di quella ambigua sagoma: «Volevo farti felice». Vittoria: «Quando ci siamo incontrati non avevo ancora vent’anni: ero felice». Nuovi silenzi; poi Riccardo va a sbarbarsi e Vittoria gli dice: «Ti avevo portato quella traduzione… ma non la continuerò; affidala a un’altra».
Questa è una seconda folgore sulla nuca: se non ci rendiamo conto adesso che Vittoria campa (lussuosamente) di versioni da o in lingue estere (che nella realtà, invece, fruttano manciate di fave) non ce ne renderemo conto più. Ma per Antonioni i personaggi non hanno, di proposito, anagrafe; a. lui non premono che le sembianze e le vicende interiori; gli sfugge una verità immensa, valutata anche da un trippaio: che senza l’animale, cioè, non si hanno visceri; e che spesso la determinante, nei drammi come nelle farse, è proprio la condizione, il posto dell’individuo nell’anonima folla. Questa negligenza specifica, questo rifuggire da ogni qualificazione dei protagonisti, obbligandoli a definirsi con mozze e rapide battute, è artisticamente un errore, secondo me.
L’uomo e i sentimenti, l’uomo e certe gioie, l’uomo e certi dolori sono, riflettete, la casa e gli inquilini: somiglianti e inscindibili. Non hanno carne addosso, i piaceri e le ambasce esposti da Antonioni, ecco il guaio: sono teoremi ed equazioni psicologici, allineati su una prestigiosa lavagna, magari esatti ma aridi; alta matematica, se volete, ma non poesia.
In Vittoria, l’Antonioni ha restaurato Anna (L’avventura) e Lidia (La notte). Donne in crisi; né amore né disamore; il vuoto, l’insoddisfazione, la malinconia, la sterilità. Femmine che a letto ci vanno anche troppo, ma che sono infeconde, un Sahara, misteriosamente affrancate dalla principale grandezza e schiavitù del proprio sesso: quella del concepimento. Badateci: nell’assenza, nell’alienazione, che distingue generalmente le protagoniste di Antonioni, è coinvolto perfino l’utero: guai se ad Anna o a Lidia o a Vittoria capitasse di ingravidare: un fatto così naturale distruggerebbe in loro ogni artificio, ogni sofisticazione, e addio.
Ma occupiamoci della sola Vittoria. Sazia, per oscuri motivi, di Riccardo, lo pianta. Eccola, divelta e annebbiata, a gingillarsi con le ore, con la stagione, con gli «interni» e con gli «esterni», in una sorta di pigra attesa: scenda ciò che vuole, dal sacco di befana del Caso, lei è qui, diligente alunna della «scuola dello sguardo», per vedere e (macchinalmente, sub-coscientemente) riferire ai propri sensi, ogni minuzia.
Va in Borsa, dove la madre, inguaribile giocatrice, nidifica; e la, mentre si imbeve di “atmosfera”, conosce Piero. Bel ragazzo, di modi spicci, attivissimo impiegato di un agente di cambio, Piero, nella furia delle “quotazioni”, ha lievi guizzi di ammirazione per lei. Con la madre, Vittoria è gelida, acre; vivono separate, d’altronde. Come possa una traduttrice, fors’anche adibita ai soli Nobel; avere un alloggio così elegante, non so.
Altrettanto eccezionali sono, fatalmente, le sue vicine. La prima, Anita, è la moglie di un aviatore; la seconda, Marta, viene dal Kenia dove il marito sta ancora, finché è in tempo, ammucchiando lire. Discorrono. È, o sarebbe, per Antonioni, il momento di illuminare le zone buie di Vittoria; ma dobbiamo accontentarci di un «sono avvilita e sfasata. Nei giorni come questi avere in mano un ago o una stoffa, un libro o un uomo, è la stessa cosa». Ah. Benché un uomo sia meno aguzzo e pungente di un ago, meno liscio di una stoffa, meno uggioso dell’ultimo Cassola, indoviniamo che le odierne inquietudini, ossia la incomunicabilità vigente, ha causato in Vittoria danni irreparabili.
Né le amiche le porgono lenitivi o bende. Marta, gonfia di un esotismo oleografico, alla Dekobra, ciancia di ippopotami e di baobab, mostra album di fotografie che raffigurano selvaggi, indica trofei di caccia alle pareti: sfoggia a tal punto, insomma, giungla e primitivismo, che Vittoria si tinge volto e braccia, si applica feroci gioielli agli orecchi e alla gola, e, al suono di un tam-tam fonografico, improvvisa una barbara danza. È un frammento che nei panni di Antonioni sopprimerei, goffo e di un lezio che allega i denti; se ne è accorto, pensate, finanche Pietro Bianchi: nel pessimo gusto del quale, come nell’impero di Carlo V, mai tramonta il sole.
Be’, mi tocca riassumere.
1) Riccardo insiste ma è definitivamente liquidato.
2) Vittoria fa un giretto su Roma in aeroplano, esclama: «Foriamo quella nube», sembra contenta, ma dura minga.
3) Di nuovo in Borsa, tra la fauna del quattrino; avvisaglie galanti con Piero; un crollo di titoli infligge una grossa perdita alla madre di Vittoria, che resta indebitata con l’agente di cambio.
4) Piero, di notte, vorrebbe salire da Vittoria; mentre, dalla via, la catechizza, un tale, ebbro da non reggersi, gli ruba l’automobile.
5) L’indomani, ladro e macchina vengono ripescati nel Tevere; a Piero non duole il morto, dolgono le ammaccature della “Giulietta” nuova; è un, cinismo che non può non turbare Vittoria.
6) Ciò non le vieta di scivolare nella casa di Piero; gli si dà o non gli si dà?; esita… comincia a svestirsi ma poi va alla finestra e guarda fuori, a lungo; ignora la saggezza dell’ogni cosa a suo tempo; ama come i gatti, perdendo e riacciuffando continuamente l’idea.
7) L’inevitabile accade, ma non leva è non mette; quando Piero le chiede: «Saremmo felici, sposandoci?», lei dice, assorta ma leale: «Non lo so».
8) L’avulsa, come quotidianamente prescrive la moda letteraria; o la impaccia il debito che la madre ha con l’ufficio del giovane?; o non le garbano il positivismo e l’egoismo di lui?
9) Fissano, comunque, un ulteriore convegno per la sera dopo; ma, all’imbrunire in questione, il caro luogo non vede comparire né Vittoria né Piero; solo, per così dire, e triste, l’obiettivo di Antonioni riprende, alla inconfondibile maniera di Resnais, laterizi, strisce pedonali, ombre sulla ghiaia, tronchi invasi dalle formiche, autobus in arrivo, passeggiatrici in agguato, grinze del terreno, lembi di cielo, rigagnoli, un titolo su un rotocalco (La pace è debole) e, tutt’a un tratto, la parola “Fine “.
E io? In che senso mi pronunzio? Con Michelangelo Antonioni mica si patteggia, qualunque compromesso è inattuabile, egli ha per motto “prendere o lasciare”. Io sono invece l’uomo del capello di neonato longitudinalmente spaccato in quattro. L’eclissi è per me un finissimo vagabondaggio narrativo, uno squisito nomadismo del racconto, pieno di eterogenee ma suggestive occasioni; per me L’eclissi è tutto, l’inferno e il paradiso, ma non un film.
Detesto, condanno quest’arte incapace di ogni semplicità o innocenza, e quindi viziosa, corrotta, maligna come i fiori di palude; tuttavia posso negare l’isolata e desolata bellezza di molti brani de L’eclissi? Diamine. Come non dire bravo ad Antonioni per il “minuto di silenzio” (e di immobilità) nel crepitio di gesti e di voci della Borsa? O per il fulmineo ritratto dell’omaccio che ha perduto cinquanta milioni? O per la sequenza della macchina estratta dal fiume con quel cadavere stretto come un doppio nodo? O per il ricorrere delle foglie ribollenti negli sfondi, un promemoria che dice: «Voi spingete, vivendo, le vostre affamate radici nella morte; il vento, al contrario, viaggia… porta agli oceani il vostro perenne cattivo odore…»
Basta. Vedete L’eclissi, godetelo e soffritelo, amatelo e odiatelo, ne vale indubbiamente la pena. Ottima la recitazione di Alain Delon (Piero) e di Lilla Brignone (la madre); opinabile quella di Monica Vitti che si dà arie di sfinge (ricordando spesso, è buffo, le arcaiche dive del muto); ha inoltre, sovente, una impercettibile smorfia (non lontana dal tic di Michelangelo… come sono mimetiche, le donne) che la sfemminilizza. E con ciò? Fra poco sarà maggio, con i suoi fluidi tetti di rondini.
Da Giuseppe Marotta, Di riffe o di raffe, Milano, Bompiani, 1965
Vittorio Spinazzola
Dopo La notte il pericolo diseroicizzazione dei personaggi di ambiente borghese si aggrava, col venir meno della lucidità intellettuale e il prevalere di una volontà di comprensione, che raccomanda i personaggi alla solidarietà commossa del pubblico. Ecco la coppia dei protagonisti dell’Eclisse, così teneramente giovani, così pateticamente soli e indifesi — non soltanto la ragazza ma anche lui, Piero, l’agente di borsa, la cui aridità è tanto palesemente imputabile all’ambiente, alla professione esercitata.
Ed ecco poi la Giuliana del Deserto rosso: una povera malata, che come tale reclama subito tutta la nostra pietà. Rispunta così proprio l’atteggiamento contro il quale Antonioni era insorto agli esordi della carriera: il sentimentalismo lagrimoso e sterile delle anime belle che effondono il loro turbamento davanti alla durezza della realtà. Le protagoniste non nutrono più alcun rapporto attivo con l’esistenza: nelle loro coscienze smarrite sopravvive soltanto la malinconica nostalgia per un mondo sognato e perduto, dove uomini e cose conservino una riconoscibile, consistente verità. Entrambe deluse d’amore, Vittoria e Giuliana rinnovano davanti ai nostri occhi l’attesa di una presenza virile attraverso cui partecipare alla vita, soddisfacendo la loro frustrata fame di eros, cioè di realtà.
La femminilità delle nuove eroine di Antonioni è di stampo alquanto tradizionalista. Corrispondentemente, ai modi obiettivi dell’indagine di comportamento subentrano le forme di una psicologizzazione lirica: i primi piani estatici delle figure umane schiacciate contro un fondo gelidamente immobile, cui si accompagna il ritorno alla tecnica del campo e controcampo. Siamo nell’ambito di un crepuscolarismo che può ancora accendersi di un palpito di verità nelle forme misuratamente bozzettistiche dell’Eclisse ma dà un suono falso, enfatico quando viene portato al livello del dramma, nel Deserto rosso.
Né d’altronde concederemo credito agli elementi di polemica sociale diretta, che già affiorano nella Notte e successivamente ispirano le sequenze della Borsa, nell’Eclisse, e i frequenti accenni all’inumanità della fabbrica, in quanto tale, nel Deserto rosso: anche per questo aspetto la posizione del regista appare sostanzialmente evasiva, derivando da un anticapitalismo di stampo romantico — per usare il linguaggio marxista.
Sbaglierebbe però chi, di fronte all’ultima parabola di Antonioni, badasse esclusivamente al fatto narrativo, senza notare che le figurazioni dall’intreccio perdono sempre più peso nell’economia dell’opera, avviata a svincolarsi definitivamente dal contatto con la realtà. Un dato significativo: il prologo del racconto, che dianzi rappresentava il momento della certezza, ora sfuma dell’indefinito; nell’Eclisse si riduce a una scena pressoché muta di commiato, nel Deserto rosso è addirittura escluso dal corpo della narrazione, della quale costituisce un antefatto necessario ma volutamente oscuro. Dominano la scena i valori di atmosfera: la presenza delle cose, riportate a un “grado di significazione zero”, sospese nell’attesa immobile che gli uomini tornino a prenderne possesso.
Proprio mentre si confonde nel ritrarre i personaggi, la mano del regista acquista nuova sicurezza nel dipingere gli sfondi, dai quali emergono le linee di un cinema non antropocentrico, vivo di una autentica modernità oggettuale. Per questa via l’opera riacquista una drammatica pregnanza visiva: pensiamo soprattutto all’epilogo astratto del penultimo film, e nell’ultimo alla trama di rapporti cromatici componenti l’immagine di una civiltà che non solo respinge l’uomo ma gli inibisce persino il rifugio nella natura, ormai corrotta e putrescente. Gli approcci all’informale filmico rappresentano il motivo di dibattito più interessante nella evoluzione contraddittoria di Antonioni.
Giorgio Spinazzola, Cinema e pubblico, goWare, 2018, pp. 300–301
Georges Sadoul
Una giovane donna (Monica Vitti) dopo la rottura con un amante Intellettuale (Francisco Rabal) si trova libera, a Roma in un torrido luglio. Diviene l’amica dell’attivo segretario d’un agente di cambio (Alain Delon), ma si tratterà di un breve incontro presto logorato che finirà in un appuntamento mancato da ambedue i protagonisti. È l’ultima parte della trilogia che comprende L’avventura e La notte. Accolto con poco entusiasmo, il film è, secondo alcuni, superiore ai precedenti. Sequenze notevoli: la scena della rottura tra i due amanti che “non hanno più nulla da dirsi”; la serata in casa d’una vicina appena tornata da un viaggio in colonia; una seduta di Borsa in cui si gioca al ribasso; la rapida crociera in aereo; un incontro amoroso; l’automobile ritrovata nel Tevere col cadavere di chi l’ha rubata e con il giovane unicamente preoccupato dello stato della carrozzeria; l’appuntamento mancato, in un quartiere in cui sopraggiunge la notte e oggetti, alberi, insetti hanno vita senza ché ci siano uomini. L’eclisse è — ovviamente — quella dei sentimenti. Dopo questo film, Antonioni dovrà affrontare nuovi personaggi e discorsi: il tema dell’incomunicabilità vi è spinto infatti al suo massimo limite.
Da Dizionario dei film, Firenze, Sansoni, 1968
Michelangelo Antonioni, intervista con Leonardo Autera
Autera: Tredici anni fa, L’eclisse apparve come il film che completava il discorso esistenziale iniziato con L’avventura e proseguito con La notte. Il tema comune era quello dell’alienazione e della crisi dei sentimenti in un contesto borghese. L’eclisse si concludeva addirittura con il totale silenzio della voce umana e l’uomo era ridotto a semplice oggetto. Ora, come rappresenterebbe lei il borghese di oggi? Come quello di allora o gli riserverebbe un destino diverso?
Antonioni: Direi che la borghesia di allora era un giglio rispetto a quella di oggi. Per quanto si può capire di quel che succede ogni tanto, soprattutto in Italia, mi pare infatti che la borghesia tiri un po’ le fila di tanti avvenimenti per la difesa di certi suoi privilegi e anche per una sua corruzione interna, che la porterà — credo — all’estinzione. La società sta procedendo verso determinati binari lungo i quali non si possono trovare vie di uscita. Non sono né un sociologo né un politico, ma mi pare che, non soltanto in Italia ma nel mondo, si stia andando verso un certo tipo di società. La borghesia sta mostrando i segni del suo deterioramento con la “rabbiosa” reazione a un certo livellamento che si sta attuando nella società. Quindi se dovessi farla oggi, L’eclisse, sarei ancora più duro, più violento.
Nel mio film di tredici anni fa ci sono i segni di una violenza legata al denaro. Oggi sarebbe legata al denaro ancora di più. Non sarebbe più legata alla Borsa forse, perché la Borsa — se ancora sussiste — mostra già i segni della sua inutilità. La società del domani probabilmente — non ne sono sicuro — non avrà più bisogno della Borsa.
I sobbalzi dell’oro, del dollaro, della lira, il “serpente valutario” e tutte queste cose difficili da seguire (ho studiato scienza delle finanze quando ero all’università ed era così astrusa che ho dovuto sudare sette camicie per superare gli esami) sono manifestazioni di meccanismi che si dimostrano sempre più “arrugginiti”. Può essere che io mi sbagli, intendiamoci. Ma al di fuori, a un non-esperto come sono io, mi sembra che le cose stiano cosi. Eppure la sopravvivenza della borghesia e legata a questi meccanismi. E non sto facendo un discorso di politica, non parlo come parlerebbe un economista di sinistra; parlo come regista, come uno che è abituato a guardare la realtà, a trarre determinate conclusioni dagli avvenimenti, dai fatti, dai sentimenti. Direi quindi che L’eclisse rimane un film attuale nella misura in cui i suoi protagonisti sono persone che non credono ai sentimenti, cioè si limitano a certi aspetti.
Autera: L’eclisse contiene alcune sequenze comunemente citate come “brani d’antologia”. Ce quel finale che è un vero e proprio saggio di cinema puro e quasi astratto; ma ce anche il brano della Borsa: sintesi allucinante della follia prodotta dalla cupidigia del denaro. Ricorda come nacque l’idea di questa sequenza?
Antonioni: Ero capitato in ambienti dove c’erano donne che giocavano in Borsa, come la madre della protagonista e mi sembravano personaggi così curiosi che ho sentito un certo interesse per loro. Ho cominciato quindi ad andare un po’ a fondo: ho chiesto un permesso per andare in Borsa e mi è stato concesso. Per quindici, venti giorni ho frequentato la Borsa (ho fatto anche qualche giochetto, ho comprato qualche cosa e l’ho rivenduta guadagnando miracolosamente un po’ di soldi: pochi per la verità) e ho capito che era un ambiente, anche dal punto di vista visivo, straordinario. Un po’ come i segni che si lanciano nelle corse dei cani gli uomini in guanti bianchi nell’episodio inglese de I vinti. In Borsa non so come fanno a capirsi, a fare delle operazioni con segni così rapidi, svelti. È proprio un linguaggio tutto particolare. Che si regge — questa è la cosa curiosa, che mi interessava — sull’onestà. Gli operatori di Borsa fra di loro devono essere onesti. «Io ho comperato con questo segno 3.000 Montedison e tu me le devi dare. A quella cifra». Non c’è niente da fare. Se uno imbroglia non opera più in Borsa.
Un po’ come l’onestà della mafia…
Sì. Ebbene, io ho cercato di ricostruire quell’ambiente impiegando tutte le persone che lavoravano in Borsa: operatori, agenti, procuratori di Borsa, oppure banchieri, quelli che vanno al Borsino ecc. Pochissime le comparse. Tutta gente che sapeva come muoversi. A Delon stesso ho dato un modello che, guarda caso, è stato quel Paolo Vassallo poi coinvolto in un sequestro. Lavorava in Borsa come aiuto di suo padre. Delon è stato in Borsa a studiarsi questo Paolo Vassallo: cosa faceva, come si muoveva.
Da Corriere della sera, 15 ottobre 1975
Nicola Ranieri
Già nella tetralogia, da L’avventura (1959) a Il deserto rosso (1964), la connessione tra storia e vedere è presente. Il nodo tematico, la “malattia dei sentimenti”, viene esaurito subito; poco dopo l’inizio di ogni film non c’è quasi più nulla che non si sappia. Sul nodo tematico domina la ricognizione, l’itinerario attraverso l’impossibilità, non per giungere a comporla, al suo superamento, per acquietare un ordine; tutt’altro. L’impossibilità aumenta, senza crescendo, si conferma per estensione dal sentimento all’azione.
Ma attraverso quale procedimento?
La notte (1961) e soprattutto L’eclisse (1962) quasi lo esemplificano. Quest’ultimo, per l’interno rigore, tra i quattro film è il maggiormente compatto, sistematico, costituisce una organicità esemplare a lungo, fin dall’inizio, ricercata; ma che nelle opere precedenti risentiva di qualche squilibrio, momenti di caduta, rapporti non del tutto risolti con i moduli narrativi, sia “tradizionali”, sia invalsi con l’”antiromanzo” e i suoi epigoni. Il titolo stesso racchiude la cifra strutturale del procedimento. Eclisse infatti è il tempo dell’oscurità, il venir meno, l’abbandono della luce. A esso corrisponde il mancare dell’azione, non in favore dell’inattività contemplativa, melanconica, mistica, della meditazione trascendentale; ma come rarefarsi in senso scientifico, creare il vuoto sicché il buio riveli la luce abbacinante, il silenzio il vociare indistinto. Lo spazio si organizza, viene astratto in spazialità sperimentale e così il tempo azzerando velocità, rumori, quotidiana evidenza, ottundimento da abitudine, quel che non si vede perché è da sempre lì. Vengono -create condizioni di laboratorio nella realtà, senza costruirle nella finzione del set.
Antonioni svuota il “pieno” e ne mostra la vuotezza, lo toglie dall’evidenza, ne recita la tentacolarità che sembrava dargli un senso. Assume l’inazione come “forza” contraria dell’azione, il silenzio come reagente della chiacchiera, dell’aggirarsi.
Ne L’eclisse il cerchio interno di profondità, che visualizza quelli esterni di superficie, è il minuto di silenzio nella scena della Borsa, la “controforza” del vociare assordante, frenetico, assurdo, incomprensibile, al quale, una volta presi dal meccanismo, ci si “appassiona”, secondo Piero. «A che cosa?», gli domanda raggelandolo Vittoria, il personaggio in cui si racchiudono l’osservazione intenzionale, la “forza” dell’inazione. La sua gestualità è come svuotata dall’interno, spenta da ogni impulso vitale: i momenti di “accensione”, rari, provocati da imprevisti, si spengono, cadono nel vuoto. È il reagente al non senso, svelato come tale in queste condizioni, senza le quali la vuotezza sarebbe sensata: come non appassionarsi alla Borsa! Come scorgere sotto l’apparenza sentimentale il non amore, divenuto solo fatica gestuale!
Nel minuto di silenzio i telefoni continuano a squillare, gli oggetti a esistere, gli uomini a essere presenti, restituiti al valore oggettuale; rimandano solo a se stessi. Cosi nella casa di Piero, con i telefoni momentaneamente staccati, nel chiuso di quel luogo estraneo per entrambi: del rapporto con Vittoria rimane solo il tendersi per un attimo del gesto che subito si stronca; rimane il suo inutile reiterarsi, mostrato, reso visibile dal “vuoto” circostante.
Lei apre le persiane, come sentendosi soffocare, osserva l’esterno. La mancanza di “aria”, il senso di chiuso si estendono al “fuori”, divenuto come sospeso, “galleggiante” nello stesso “mezzo”. Lei indugia un attimo prima di varcare il portone — il silenzio continua –, poi esce, si immerge nel rumore, evidenziato per contrasto, quindi conosciuto come assordante.
Nel finale l’intero paesaggio urbano diviene figure geometriche e umane, alberi, vento, voci, stridere meccanico; ogni elemento, scisso e intercambiabile, esiste irrelato perché i legami che gli davano un senso apparente sono stati recisi.
Allo spazio come insieme di luoghi “naturali”, occupati da corpi significanti in virtù di coesione e contiguità, si è sostituito un mezzo vuoto i cui punti sono solo posizioni; tra l’una e l’altra posizione non vi è differenza qualitativa. In questo continuo geometrico uniforme, in cui solo un riferimento dato può consentire di verificare una posizione, gli elementi sono oggetti decontestualizzati da quel che sembrava una orditura “naturale”, tolti dal pieno quotidiano e sospesi, disposti come nell’attesa infinita di una composizione per ora neanche potenziale. La luce bianca, abbacinante di un lampione ne segna l’evidenza, che rimanda solo a se stessa ed è scoperta come tale a partire dall’oscurità: l’eclisse.
Sono indubbi i legami di un tale atteggiamento con la filosofia heideggeriana, ma sono risvolti che si accompagnano, e non necessariamente, a una certa assolutizzazione dei nodi concettuali e delle procedure scientifico-sperimentali di tipo fisico-chimico-matematico, che Antonioni tende a essenzializzare facendo emergere la filosofia più che la storia di un metodo divenuto stile.
Da Amor vacui. Il cinema di Michelangelo Antonioni, Chieti, Métis, 1990, pp. 226–232
Walter Veltroni
La luce del sole si spegne, con l’eclisse, su una Roma estiva e cattiva, vuota e solitaria. Lì si incontrano i cuori contrari della timida, introversa Vittoria e del sicuro, arrembante Piero. Sono lontani e scontano la loro diversità in una geometria di silenzi, di luoghi avari e rarefatti come l’Eur o la Borsa. Perché L’eclisse ha visto, trent’anni fa, il girino di una creatura infernale di cui solo oggi vediamo tutta la mostruosità.
Piero è un agente di cambio, rapido e spregiudicato, immerso nel mondo di una Borsa che assomiglia più a una sala corse che al mercato delle ricchezze. Lì si trattano le Pirelli, le Fiat, le Stet e un giorno qualcosa si rompe, il miraggio della ricchezza diviene l’orrore dei debiti. Lì una voce, quella della madre di Vittoria, dice: «Stanno a pensa’ a Francoforte quelli. Invece so’ loro. So’ sempre loro. So’ i socialisti che hanno rovinato tutto qua dentro».
È il 1962, un anno cruciale, inizio di una storia già finita. Antonioni è rapito dall’idea dell’eclisse, quando, ha detto, «probabilmente si fermano anche i sentimenti». L’idea dell’eclisse come sospensione, come apnea del tempo attraversa tutto il film, lo rende freddo e fascinoso come gli altri due della trilogia, La notte e L’avventura. Rivisti oggi, quei film sembrano uno sguardo gettato da lontano, un binocolo sul tempo futuro, con i loro silenzi, la loro alienazione, i loro vuoti di comunicazione, la loro algida perfezione.
Antonioni ha detto che avrebbe dovuto mettere nei titoli di testa una frase di Dylan Thomas che suona così: «Qualche certezza deve pur esistere, se non di amare bene, almeno di non amare». E di certezze, piccole e dure, sembra pieno Piero, che di fronte alla sua macchina, portata in fondo a un lago da un ladro lì finito morto, si preoccupa di verificare l’entità dei danni alla carrozzeria. I Piero, gli uomini del nostro scontento, oggi sono in una eclisse parziale, ma inesorabile.
Da Certi piccoli amori. Dizionario sentimentale di film, Sperling & Kupfer Editori, Milano, 1994