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Antonioni: “La notte” e la critica di allora

La notte Antonioni consolida e sviluppa il linguaggio filmico iniziato con L’avventura, il film precedente. Questa volta siamo in un ambiente urbano, nella Milano del boom economico. C’è la Milano borghese, la Milano popolare, c’è la Brianza. Memorabili e malinconiche sono le riprese di Sesto San Giovanni, dove è cresciuto il protagonista, Giovanni, che si intuisce di estrazione plebea, ma scrittore ormai di successo. Lì a Sesto ha conosciuto anche la moglie, Lydia. Entrambi vi tornerebbero ma sono ormai emotivamente troppo distanti.

Il film fu accolto tiepidamente dalla critica che aveva gradito maggiormente L’avventura. Continua la triste incomprensione nei confronti di Antonioni, salvo qualche e significativa eccezione come quella di Pasolini. 

Senza pecche l’interpretazione di Jean Moreau fragile e minuta ma nella parte al 120 per cento. Più problemi ha Mastroianni nell’interpretare un intellettuale un po’ svagato ed erratico. Come Ferzetti ne L’avventura, Mastroianni  fatica a metter a fuoco il personaggio e non raggiunge mai i livelli di interpretazione che esprimerà in Otto e mezzo con Fellini. Si vede che soffre lo stretto controllo recitativo ed emozionale a cui lo sottopone Antonioni, dal quale rimane schiacciato. Fellini lo lascerà più fare.

C’è anche un cameo di Valentino Bompiani nella parte di se stesso, l’editore di Giovanni. Già a quel tempo il networking di Antonioni era molto ampio e qualificato.

Guido Aristarco

Che Flaubert e non Balzac (o Stendhal o Tolstoj) sia per Antonioni il vero culmine del romanzo del secolo XIX, che le sue preferenze vadano, piuttosto che a Mann, ad autori come Gide, Proust, Joyce, alla letteratura moderna e d’avanguardia, non c’è dubbio. Anch’egli sembra non comprendere coloro che continuano la tradizione del realismo critico; rinuncia cioè (o sembra rinunciare) a ogni dichiarata tesi, a ogni indiretto intervento negli avvenimenti, e a ogni diretta interpretazione dei fatti: osserva e con distacco descrive la vita quotidiana di quella borghesia cui gravita intorno come un satellite al suo pianeta. Il suo “romanzo” non è costituito d’una progressione drammatica di fatti in senso tradizionale; ai “fatti” sostituisce i pensieri che tormentano, consumano, annientano, inghiottono i personaggi.

Questo graduale, quasi impercettibile languore che mina silenziosamente la loro vita — la vita — senza neppure uno schianto delle grandi, imponenti catastrofi (Chaplin, Visconti) l’esperienza da cui Antonioni parte per articolare il suo discorso: le “cronache” della crisi, le “nuove forme dell’anima”, quali emergono appunto negli scrittori dell’avanguardia letteraria. I suoi film sono difficili da “leggere”, per cosi dire, nella stessa misura che lo sono I sonnambulidi Broch, a esempio, o L’uomo senza qualità di Musil, o Lo straniero di Camus. Simboli, allegorie, personaggi, i titoli stessi — L’avventura e La notte — vanno interpretati: costringono lo spettatore a pensare, l’obbligano a un lavoro.

Non è intanto un puro caso che in La notte uno dei personaggi più emblematici sia quello di Valentina, e che Valentina sia introdotta intenta a leggere proprio il libro di Broch; questo è un rimando preciso per comprendere la visione di Antonioni, il suo atteggiamento di fronte alla vita e all’arte. Ne La notte, come in L’avventura, vi è appunto una galleria di “sonnambuli”, di figure che non vivono più: sono marionette, automi, morti: esseri senza qualità, e senza qualità il loro esistere nell’accezione di Musil. Alle molte qualità dei protagonisti non corrisponde nessuna concreta capacità di agire. Forse sarebbe più esatto affermare che “l’uomo senza qualità è un insieme di qualità senza un uomo”. Tale è l’architetto Sandro, il romanziere Giovanni, che stanno al centro dei due film.

Non ci troviamo di fronte ad “avventure” in senso comune, al solito “gioco d’amore” più o meno sottile, che pure l’avvio e il titolo stesso dell’opera possono far supporre a chi non conosca la visione del mondo e la coerenza stilistica di Antonioni. Sette persone partono con uno yacht per una crociera tra le isole Eolie, e una di esse, Anna, scompare. L’autore parla di un “giallo alla rovescia”; e già questo è un altro preciso rimando all’ansia, all’insicurezza dell’esistenza: all’angoscia prima, in Claudia, per la scomparsa dell’amica e poi per la paura che essa ritorni, che irrompa a distruggere la nuova esperienza che sta vivendo con Sandro. Ciò significa anzitutto una precarietà dei sentimenti, della loro durata.

«Naturalmente le ambizioni del film — afferma Antonioni — sono più vaste di quelle di un comune giallo. Per esempio vuol significare che i sentimenti, cui viene dato oggi un peso definitivo dalla retorica sentimentale e dalla casistica narrativa, sono in realtà fragili, insidiati, reversibili. Comincia la ricerca da parte dei compagni di Anna, soprattutto di uno, Sandro, l’innamorato. E la ricerca dura per l’intero film”. Tuttavia a metà film Claudia desidera che Anna non sia più trovata. La scomparsa della ragazza ha lasciato un vuoto; il vuoto presto si colma. Tre giorni prima, al pensiero che l’amica fosse morta, Claudia si sentiva morire; ora non piange neppure, ha paura che sia viva. Tutto sta diventando “maledettamente facile, persino privarsi di un dolore».

Questo sottolineare la fragilità dei sentimenti rientra nel paragrafo, caro ad Antonioni, dell’incomunicabilità, della “noia” in senso moraviano, o meglio che Moravia ha rianalizzato nel suo ultimo romanzo: l’impossibilità di stabilire un rapporto effettivo con l’individuo e la realtà, la mancanza di rapporti autentici, profondi, con le Cose, con se stessi e gli altri. In ogni incontro, dice Camus, incontriamo uno “straniero”, e “straniero” a se stesso è anche ognuno di noi. La ricerca disperata di conoscere se stesso e gli altri ha un diverso e comune approdo negli ultimi due film di Antonioni.

Sandro diventa consapevole che la noia — questa mancanza di contatti diretti con la realtà — porta alla sterilità dell’arte, che il suo fallimento come architetto dipende dalla sua resa al conformismo. Alla presa di coscienza segue il disgusto di se stesso; ma è proprio questo disgusto che lo riporta sui binari consueti; anzi, quanto più la crisi si appalesa in lui, tanto più esplode il suo irrefrenabile bisogno del contatto fisico. Il proposito di sottrarsi alla realtà, di dimenticare quanto avrebbe voluto essere e non è , determina il desiderio carnale per Claudia; per dimenticare la promessa fattale, di non vivere più a quel modo, va con una prostituta. Il ritorno alla “noia” gli serve per velare il mondo intorno a sé, per “distrarsi” dalla coscienza, per renderla nuovamente opaca.

“Si può vivere senza alcun rapporto con niente di reale e non soffrirne?” si domanda il protagonista del romanzo moraviano. Questo è il vero problema di Sandro; di qui il significato del suo pianto, alla fine. E il gesto di Claudia, che accarezza la nuca di Sandro, dopo qualche esitazione, non va confuso con un semplice perdono di fronte al “tradimento” (l’incontro con la prostituta), ma significa che ella ha compreso. Ecco un altro elemento nuovo in Antonioni. La comunicabilità che viene a determinarsi nel finale del film, conclude tuttavia l’“avventura”?

La risposta ci viene da La notte. Stilisticamente e strutturalmente, La notte accentua il carattere statico dell’opera precedente: cioè dopo aver rinunciato alla trama, ora l’autore rinuncia ancor più al protagonista, arriva alla diseroicizzazione della sua narrativa. Ci descrive il tessuto e i motivi di un giorno nella vita di due individui, Lidia e Giovanni; questo giorno è il vero eroe del film. Il corso dei loro pensieri sostituisce il susseguirsi dei fatti. Un continuo, lungo monologo interiore, un discorso con se stessa, è l’interminabile passeggiata di Lidia nel caos della vita cittadina prima, e poi nell’apparente tranquillità della periferia.

Qui, come in L’avventura, Antonioni dimostra la sua raggiunta maturità in simili specie di analisi; qui la novità del suo linguaggio, la capacità di raggiungere analoga dignità dello scrittore moderno, di uguagliarne la complessità e le sottigliezze, superando i risultati raggiunti, nel medesimo ambito, da Bresson e dal Bergman migliore.

Continua la descrizione della instabilità, della fragilità dei sentimenti. Anche Giovanni, questo scrittore giunto al successo, è murato vivo dentro la prigione ermetica e soffocante della “noia”: ha perso i contatti con la realtà, non comunica con gli altri. Vede Lidia, la moglie, dopo anni di matrimonio apparentemente tranquillo, attraverso un diaframma. La donna assume, nella concezione del regista, un peso maggiore, una vitalità all’uomo negata. Senza dubbio Lidia è più ricettiva, più “positiva” di Giovanni (e Claudia di Sandro). “Ho scoperto che non ti amo più, e sono disperata”, confessa ed esige una uguale sincerità dal marito. Anche Giovanni ora capisce che per quanto siano ancora insieme, non sono uniti. Tra loro non c’è niente, veramente niente; ed egli ricorre all’amplesso fisico per stordirsi, per estraniarsi da quella realtà cui è richiamato, per “attraversare, varcare, e insomma riempire quel vuoto”.

Estremo tentativo destinato a fallire, già fallito, perché non può realizzare uno stato pieno: il rapporto puramente fisico — come intuisce il pittore ne La noia di Moravia, lo stesso romanziere Giovanni, l’architetto Sandro — è un non possesso, non è vero amore e anche nell’arte porta ed equivale al conformismo.

Lidia e Giovanni, continuazione ideale di Claudia e Sandro, sono trasparenti a se stessi e l’una all’altro. Nondimeno rimangono disperatamente soli, senza via di uscita dalla loro solitudine. Due “albe” suggellano la “notte”. L’”avventura” rimane per i protagonisti conclusa; ma al tempo stesso sospesa, aperta per Antonioni.

Da Cinema Novo, 1960

Gian Luigi Rondi

Antonioni diventa ostile ad ogni convenzione, alieno da concessioni anche minime alle normali esigenze del racconto cinematografico e sempre più attento, invece, alle cadenze, alle allusioni, ai ripensamenti segreti del linguaggio letterario.

Un film di Antonioni, perciò, o lo si respinge in blocco, perché non somiglia a quello che comunemente si intende per spettacolo al cinema o, se lo si accetta, lo si accetta sapendo che ci si troverà di fronte a modi espressivi cui il cinema offre solo l’apparenza, ma filtrati, in realtà, attraverso le più intellettuali esperienze della letteratura. E, spesso, della letteratura più chiusa ed ermetica.

Come nel film di oggi che, forse più lineare e compatto dell’Avventura, denuncia però gli stessi limiti sul piano del “cinema cinematografico” e la stessa volontà del regista di non preoccuparsene. Anche qui ci sono personaggi in crisi, anche qui i personaggi si dibattono in un desolato travaglio che li porta a dubitare degli altri e di se stessi.

Questa volta lui è uno scrittore, lei, sua moglie, è una donna che lo ha amato moltissimo e che adesso, senza ragione alcuna, si accorge di non amarlo più: da qui una disperazione logorante che trascina la donna, durante tutto un giorno e una notte, su e giù per Milano (dove l’azione si ambienta) alla ricerca di una distrazione o di una soluzione e conduce lui, ignaro, ma altrettanto disamorato, a cercare nello stesso spazio di tempo nuove situazioni sentimentali.

Fino a quando un franco chiarimento non sembra, almeno in apparenza, restituire tutto alla normalità. Per dirci di questa crisi e per descriverci quella della società di intellettuali e di ricchi che circonda i due protagonisti, Antonioni ha messo da parte ogni consuetudinaria ricerca di climi drammatici o, comunque, esteriormente emotivi e ci ha proposto personaggi, cornici e stati d’animo quasi soltanto attraverso riferimenti interiori, cogliendoli in un clima volutamente casuale, immediato e grezzo quanto la stessa realtà e affidandoli ad un linguaggio di prezioso effetto calligrafico e simbolico.

Il risultato è senza dubbio suggestivo e in più momenti affascina chi riesce a seguire quei personaggi nel loro vagabondare tra gli altri, arrivando ad intuirne i tormenti e i cedimenti più segreti, ma in qualche luogo lascia interdetti per il suo ermetismo, per l’eccesso di intenzioni letterarie e per la compiacenza con cui si indugia in situazioni narrativamente non coordinate tra loro. Al film, così, oltre probabilmente a non arridere il consenso del pubblico, arriderà solo parzialmente il consenso di quanti accettano, per il cinema, la ricerca di nuove vie: pur riconoscendo, infatti, la serietà delle intenzioni di Antonioni, non potranno non constatare che, comunque le si accolgano, lo hanno portato questa volta un po’ troppo lontano. Lontano dal cinema, almeno. Gli interpreti, Jeanne Moreau, Monica Vitti, Marcello Mastroianni.

Da Il Tempo, 2 febbraio 1961

Pier Paolo Pasolini

Caro Pasolini, seguo attentamente la sua rubrica e ne condivido l’impostazione. Vorrei chiederle, dato che tante opere letterarie e artistiche in genere sono dettate dalla cosiddetta «solitudine» dell’uomo moderno o, più precisamente, dalla antiumana condizione dell’uomo nell’odierna società, la giustificazione di queste opere, la loro validità e la loro importanza e funzione. E le ragioni culturali di questo atteggiamento. Cordiali saluti.
Giovanni Stefani — via S. Egidio 3, Firenze

II suo biglietto, caro Stefani, è un invito a scrivere un libro. Lei infatti parla di «opere letterarie e artistiche» prodotte in questo ultimo periodo: e se io dovessi rispondere a tono, e con la rabbia analitica che mi è caratteristica, dovrei scrivere un intero capitolo di storia della cultura. Ma io voglio prendere la sua richiesta come una sollecitazione e trattare degli argomenti di attualità: le ultime «opere letterarie e artistiche» cui lei si riferisce, sono probabilmente i film di Antonioni e La noia di Moravia.

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Sia La notte che La noia, esprimono, come lei dice, la «solitudine» dell’uomo moderno, o «più precisamente l’antiumana condizione dell’uomo nell’odierna società». Eppure tra le due opere c’è una differenza sostanziale.

Intanto, La notte è scritta dall’autore, Antonioni, direttamente: la Moreau è «lei» e Mastroianni è «lui»: malgrado questa oggettività narrativa, l’opera è estremamente soggettiva e lirica. I due personaggi «ella» ed «egli» non sono che dei «flatus vocis», incaricati a esprimere quel vago, irrazionale e quasi inesprimibile stato di angoscia che è tipico dell’autore, e che nei personaggi diventa quasi un sentimento riflesso o riferito.

Nella Noia succede il contrario: essa è scritta dall’autore indirettamente: Bino, il protagonista, è l’«io» stesso che racconta: eppure, malgrado questa soggettività narrativa, l’opera è estremamente oggettiva, cosciente. Il personaggio «io» non è che un espediente, usato per esprimere uno stato di angoscia ben chiaro, storicizzato, razionale nell’autore, e ridonato alla sua vaghezza, che è poi concretezza poetica, nel personaggio. Tutte e due le opere esprimono l’angoscia del borghese moderno: ma attraverso due metodologie poetiche, per così dire, ben diverse, le quali rivelano appunto, una sostanziale diversità d’impianto ideologico.

Per Antonioni, il mondo in cui accadono fatti e sentimenti come quelli del suo film è un mondo fisso, un sistema immodificabile, assoluto, con qualcosa, addirittura, di sacro. L’angoscia agisce senza conoscersi: come avviene in tutti i mondi naturali: l’ape non sa di essere ape, la rosa non sa di essere rosa, il selvaggio non sa di essere selvaggio.

Quello dell’ape, della rosa, del selvaggio, sono mondi fuori dalla storia, eterni in se stessi, senza prospettive se non nella profondità sensibile.

Così i personaggi di Antonioni non sanno di essere personaggi angosciati, non si sono posti, se non attraverso la pura sensibilità, il problema dell’angoscia: soffrono di un male che non sanno cos’è. Soffrono e basta. Lei va in giro scrostando nevroticamente muri, lui va a portare la sua faccia mortificata in giro per strade e salotti, senza né principio né fine. Del resto, Antonioni non ci fa capire, o supporre, o intuire in alcun modo di essere diverso dai suoi personaggi: come i suoi personaggi si limitano a soffrire l’angoscia senza sapere cos’è, così Antonioni si limita a descrivere l’angoscia senza sapere cos’è.

Moravia invece, lo sa benissimo: e lo sa anche il suo personaggio, Dino, il quale vive e opera a un livello culturale inferiore solo di un gradino a quello di Moravia. Per tutto il romanzo, dunque, non si fa altro che discutere, analizzare, definire l’angoscia (nel romanzo chiamata «noia»). Essa deriva da un complesso nato nel ragazzo borghese ricco: il quale complesso comporta una deprimente impossibilità di rapporti normali col mondo: la nevrosi, l’angoscia. L’unico modo per sfuggire è abbandonarsi all’eros: ma anche l’eros si rivela niente altro che meccanismo e ossessione. Questo è quello che sa il personaggio.

Moravia, naturalmente, ne sa qualcosa di più. Egli sa che la psicologia non è solo psicologia: ma anche sociologia. Sa che quel «complesso» di cui si diceva se è un fatto strettamente personale, è anche un fatto sociale, derivante da un errato rapporto di classi sociali, da un errato rapporto, cioè, tra ricco e povero, tra intellettuale e operaio, tra raffinato e incolto, tra moralista e semplice. In altre parole, Moravia conosce Marx, il suo protagonista no. Ecco perché il tanto discettare che fa il protagonista sul suo male, gira un po’ a vuoto, ed ha un valore puramente mimetico e lirico.

Manca alla soluzione quella parola che Moravia conosce e il suo protagonista no. La noia è un romanzo splendido, la cui ultima pagina doveva essere una tragedia, e non una sospensione. Moravia doveva avere la forza di non dare alcuna specie di speranza al suo protagonista: perché quello del protagonista è un male incurabile. Non ci sono terze forze, né ideali di sincretismo umanistico capaci di liberarlo.

Purtroppo il pubblico borghese medio, e anche molti intellettuali (pur ridendo di certe battute goffe del film) si riconoscono più nella Notte che nella Noia: a parte l’ipocrisia, per cui essi non vorrebbero mai sapersi presi dalla follia erotica da cui è preso il protagonista moraviano, essi sentono che i personaggi «pura-angoscia» della Notte rispecchiano meglio il loro sostanziale desiderio a non affrontare problemi razionali, il loro rifiuto a ogni forma di critica, e l’intimo compiacimento di vivere in un mondo angoscioso, sì, ma salvato, ai loro occhi, dalla raffinatezza dell’angoscia.

Da Vie Nuove, 16 marzo 1961

Giorgio Tinazzi

«La crisi: tutti ne parlano. Ma per me è una cosa segreta che tocca tutta la mia vita»: le parole di Giovanni Pontano, protagonista de La notte sono forse un diretto richiamo autobiografico di Antonioni, uno specchio fedele comunque del suo intimo travaglio, del suo vivere dentro le cose che narra, dello star dentro alla crisi «come un correo consapevole».

Se L’avventura era forse il film più “caldo” del regista, La notte è più decantato, più strutturato, più elaborato se volete, ma senza che si senta mai il peso dell’idea o della costruzione, l’astrazione del simbolo: si avverte solo lo sforzo di portare a maturazione una testimonianza poetica, rendendola sempre più aderente stilisticamente («ad un certo momento — dice Pontano — non conta cosa scrivere, ma come scrivere») filtrandola e quasi stilizzandola, senza che si perda il senso di una storia “dal vivo”, di una “cronaca dall’inferno” saremmo tentati di dire.

«Fare un film è per me vivere» scrisse Antonioni: e proprio per questa sua sincerità, per quel «versare nella botte del film tutto il (suo) vino», l’opera sua non approda a soluzioni che egli non ha; testimone dei fatti dei nostri giorni, a lui basta registrarli (si pensi all’episodio inglese de I vinti). Non vi è freddezza, distacco, solo la lucida analisi dell’assurdità, delle intime contraddizioni di un’epoca fatta da uno che, lo si può dire, vi è dentro fino al collo. Il suo e il romanzo dell’“antieroe”: a ragione Sadoul ha parlato di una costante «sdrammatizzazione» che si opera nei personaggi di Antonioni: il suo apparente distacco è solo pudore, un voler “mostrare” senza “dimostrare” mai: nemmeno i fatti e le psicologie e gli intrecci debbono forzare il lettore a drammatizzare la vicenda: il dramma è tutto all’interno, nei lunghi “monologhi figurativi”, nelle lente, inesorabili “spogliazioni” dei personaggi, nei ritorni, negli indugi necessari, nelle allusioni, nei ritmi interni, nelle cadenze (si pensi alla musica di Fusco, alla fotografia, alla “forma’ insomma, sempre pregna e significante). È questa la vera modernità di Antonioni, il suo stile, il suo star pari con la poesia e la narrativa d’oggi; e si richiamano infatti Proust e Joyce, Musil e Gide, o, addirittura, il Nouveau Roman francese.

C’è in lui l’ansia di trovare un modo nuovo di guardare le cose, uno sforzo cioè di guardare all’essenza, all’antidecorativo, al di sotto della “crosta”, di ridare ai gesti, ai fatti, ai ritmi il loro peso e il loro significato: non occorre più la “storia”, costruzione inutile; la “storia” e nei particolari, nel non costruito, nei fatti e nelle cose. Di qui l’unità stilistica di Antonioni, il senso che ogni opera ha di un blocco continuo; di qui il suo modo di narrare (viene alla mente il racconto “rallentato” di Proust. Quello che giunge a noi è un senso ritrovato del tempo; Lidia è alla “ricerca del tempo perduto”, cerca di dare un senso alla sua “avventura” presentificando il passato, le cose e i fatti ci appaiono pertanto “filtrate” dalla sua coscienza.

Saremmo tentati di riprendere il motto husserliano «tornare alle cose stesse», e cercare di avviare un discorso sugli influssi della fenomenologia su certo cinema e su certa letteratura. «Nei film — ha scritto Robbe-Grillet — le cose non esistono che come apparizioni, e cioè come fenomeni». «Il romanzo contemporaneo — continua — di cui si dice volentieri che vuole escludere l’uomo dall’universo, gli dà in realtà il primo posto, quello dell’osservatore».

Antonioni comunque guarda ai suoi personaggi “qui e ora”; e inutile cercare in lui le aperture mistiche di un Fellini. L’alba di Antonioni (e non a caso L’avventura La notte così come La dolce vita si concludono all’alba), non è il ripensamento dopo la notte di peccato, il richiamo immanente al perduto senso della natura, ma un lucido ed amaro guardarsi quali si è, nella propria incapacità di capirsi e di amarsi, continuamente insoddisfatti, malati di noia, vinti dall’abitudine, animati da sentimenti instabili, che sfuggono. Ancora per un po’ fingiamo di credere che il contatto fisico ci dia la possibilità di comunicare, di avere un rapporto con gli altri e perciò con le cose, con la realtà.

Abbiamo toccato forse il punto centrale della complessa problematica de La notte. Il distacco dalla realtà. Non è certo casuale la coincidenza con l’uscita de La noia di Moravia, un’opera anch’essa di un peso non indifferente, i cui punti di contatto col film di Antonioni non potevano sfuggire. Il romanzo-saggio moraviano è infatti la minuta analisi del sentimento della noia, una forma di distacco dal mondo oggettivo, l’incapacità di comunicare con la realtà (marxisticamente si parla di «alienazione», e per Il grido si è parlato di «alienazione sentimentale»).

«La noia per me — si legge nell’acuto prologo moraviano — è propriamente una specie di insufficienza o inadeguatezza o scarsità della realtà». «…un’oscura consapevolezza che tra me e le cose non ci (sia) alcun rapporto». Non a caso il Dino di Moravia e il Giovanni di Antonioni sono degli intellettuali, o più precisamente degli artisti. Perché anche l’espressione artistica è una forma di tentativo di contatto con la realtà, e la crisi nasce, in Dino e Giovanni, dalla coscienza dell’insufficienza anche di questo tentativo, per cui si chiedono se mai serve ancora scrivere («questo lavoro artigianale di mettere parola dopo parola» dice Giovanni) o dipingere. La noia, l’insoddisfazione permangono, come per il contatto fisico, illusione di un rapporto più autentico e profondo.

Non è certo casuale, e tanto meno gratuito il ricorrere del motivo del sesso. Per tutto il film abbiamo sotto gli occhi l’immagine della ragazza malata della clinica, quasi un simbolo di una sorta di ossessione del nostro tempo: e ancora le scene del night-club e il finale ritornano sul motivo.

È nell’insufficienza dei sentimenti, nella loro fragilità, nel caos e nella desolazione della solitudine che si manifesta, con forza, quasi un bisogno fisico, il desiderio di trovare un rapporto con le cose e con gli altri, di comunicare. La passeggiata di Lidia per le strade e la periferia di Milano (una delle cose più alte di Antonioni), altro non è che il bisogno di sensazioni, come una sete di incontri, di visi e di parole, di sentirsi vivi. Per Lidia, abbiamo visto, è una sorta di ricerca del tempo perduto, un ripercorrere le occasioni sprecate cercandone di nuove: la crosta che essa stacca dal muro par quasi il grumo dei ricordi, il senso della difficoltà e dell’insoddisfazione: nel qualcosa che va cercando il passato e il presente si confondono, e le danno l’immagine della sua solitudine, il senso greve della staticità delle cose (i lunghi silenzi), della stanchezza, e dall’altro il fluire inesorabile del tempo.

Anche Valentina è una donna inquieta e la sua insoddisfazione è, in un certo senso, rivolta al futuro; inappagata dai sentimenti di cui sente la sfuggevole consistenza, la fragilità, il venir meno non appena sfiorati («quando trovo il modo di comunicare mi pare che l’amore svanisca»). Il suo strano isolarsi da quel mondo di “sonnambuli” (il titolo del libro di Broch che essa legge è indicativo) quasi a contemplare le astratte e fredde geometrie di pavimenti, il sottrarsi alle insistenze di Giovanni, sono come un indice dell’insicurezza che essa sente in sé, del suo ritrovarsi priva di forze («sono uno straccio»). Dinanzi a lei Giovanni e la pigrizia sentimentale: tanto Valentina è disponibile, tanto lui è ormai chiuso entro gli schemi dell’acquiescenza, del freddo schema.

Anche il mondo che circonda questi personaggi e privo di aperture: il nostro modo di vivere cristallizzato, i rapporti definitivamente sterili, la nostra civiltà meccanizzata e standardizzata, il conformismo hanno chiuso il circolo. Il denaro, l’industria non sono, al di sotto dell’apparenza, che un veicolo della noia.

Giovanni e Lidia portano con sé questa noia e stanchezza spirituale, vagando in quel mondo di “anime morte”. Nelle loro persone è sempre presente il ricordo dell’amico morente, come un’ombra ammonitrice che domina tutto il film, un senso angoscioso, una presenza continua: «questa morte che ci accompagna / dal mattino alla sera, insonne / sorda, come un vecchio rimorso / o un vizio assurdo».

«Tanto per cominciare si muore»: è una frase di Antonioni; ed infatti, giustamente si è notato come vi sia un’analogia di situazioni con L’avventura: li la scomparsa di Anna che pesa su tutto il film, qui la morte di Tommaso, lì il mistero, qui la morte, due facce dello stesso identico problema del perché della nostra esistenza. Sono i dubbi e le angosce che Antonioni porta nel sangue, interrogativi irrisolti che egli pone senza poter suggerire che un amaro guardare se stessi, i propri limiti: ne L’avventura un ritrovarsi egualmente malati, ne La notte un avvicinamento di poco cui seguirà la noia, la stagnante indifferenza di prima: è quella stessa incantata immobilità, il senso di incolmabile vuoto delle coppie all’alba nella villa; si può trovare la calma, un momentaneo punto di intesa, si può mentire ancora una volta, c’è un lungo abbraccio; ma è la vittoriniana«quiete della non speranza»: un titolo, se si vuole, per un saggio sul regista.

Rimproverare ad Antonioni di non saper “uscire”, trovare una via che lo porti agli altri? Certo, egli sente vivissimo il bisogno di rompere la “crosta’, ma non hai mezzi. La stessa desolata testimonianza di Camus, il suo sentirsi “straniero”, il sartriano «l’enfer c’est les autres». Per questo il richiamo fatto a Fellini (la festa de La dolce vita) è piuttosto facile ma del tutto inopportuno. Al misticismo barocco e al senso religioso della natura del regista de La strada corrisponde qui la lucidità e la “terrestrità” di Antonioni. Il quale però è forse più in là di Camus, almeno di quello de Lo straniero; perché Antonioni è con i vinti, con i suoi personaggi. Egli non potrebbe dire di non essere «mai riuscito a provare un vero dispiacere per qualcosa»; la solitudine è invece una malattia di cui il regista vorrebbe guarire, vorrebbe poter fare «un salto fuori del rito implacabile» dei sentimenti instabili.

L’insufficienza, il vuoto dei personaggi sono i suoi stessi dubbi, le sue angosce; il lungo, a volte esasperante seguire di personaggi non è mai (accusa sin troppo spesso ripetuta) un calligrafismo inutile, ma una insistenza nella “spogliazione” dei loro spiriti, una drammatica “denudazione”. I lunghi silenzi (quasi un film di silenzi), lo scavare nei loro volti, nell’ambiente (che, come sempre in Antonioni è tutt’uno con i personaggi), non è che l’analisi dei loro animi, la scoperta delle pieghe recondite, dei punti oscuri: mettere l’anima allo scoperto, che è poi confessarsi, con pudore e sincerità.

Aldo, Sandro, Giovanni: i tre protagonisti di quell’ampio “romanzo della crisi” da Antonioni avviato e portato avanti. E l’ultimo capitolo è forse il più rappresentativo; la struttura stessa del film (più che di fatti, di atmosfere e di stati d’animo), la cura dello stile hanno indotto a parlare di “romanzo flaubertiano”. Come sempre le ascendenze letterarie di Antonioni sono complesse e decifrabili con sforzo, perché in lui sembrano convergere molte delle voci di coloro che, in un modo o nell’altro, sono stati interpreti della crisi contemporanea; e proprio la capacità di “sintonizzarsi” sulla nostra crisi, di essere, come Camus, sensibile “alle dissonanze, al disordine” di cui siamo pieni, fanno di Antonioni un uomo d’oggi.

Da Michelangelo Antonioni, Quaderno del Centro cinematografico degli studenti dell’univerità di Padova, Padova, 1961, pp. 27–31

Adelio Ferrero

Giovanni Pontano, scrittore milanese di successo, attraversa un periodo di crisi matrimoniale: ogni possibilità di dialogo con la moglie sembra perduta. I due, scossi dalla visita a un amico morente e dopo un party letterario per la presentazione dell’ultimo libro di Giovanni, vagano per la città completamente svuotati. La sera, si ritrovano a una festa nella sontuosa villa di campagna di un grande industriale e si buttano entrambi in avventure sentimentali, da cui escono ancora più delusi di prima. Ma all’alba riescono finalmente a parlarsi apertamente e intravedono forse una possibilità di salvezza e di maturazione per il loro rapporto.

Il film, uno fra i più significativi del cinema italiano degli anni Sessanta, fa parte, con L’avventura e L’eclisse, del cosiddetto ciclo dell’incomunicabilità: anche in questo caso, nessuno dei personaggi riesce a instaurare rapporti sinceri e costruttivi con l’ambiente che lo circonda, né l’intellettuale Pontano, né la moglie di questi, né la giovane figlia dell’industriale, interpretata da una bravissima Vitti: solo la morte dell’amico sembra scalfire la passività dei due protagonisti. Eccellente sceneggiatura di Antonioni, Flaiano e Guerra e splendida fotografia di Gianni Di Venanzo.

Se quanto avviene ne L’avventura, è sempre filtrato attraverso lo sguardo ed il sentimento di Claudia, La notte si risolve integralmente nel sofferto ed inesorabile monologo interiore di Lidia, uno dei personaggi più esemplarmente autobiografici di Antonioni. In quest’opera, forse il punto più alto e rigoroso della parabola creativa del regista, ritornano temi e motivi de L’avventura, ma senza la forzatura intellettualistica del “giallo alla rovescia” e senza irritanti sottolineature polemiche.

Antonioni sembra ritornare alla “cronaca di un amore”, ma vi torna dopo dieci anni di esperienze, di tentativi, di sondaggi; vi ritorna, soprattutto, dopo la svolta de Il grido, alla luce degli svolgimenti più pessimistici e delle conclusioni più amare della sua visione. Il suo linguaggio si è fatto più maturo, lo stile sicuro e riconoscibile, inconfondibile anzi: la sua vocazione all’analisi, la disposizione saggistica del suo metodo narrativo ambiscono a provarsi con le espressioni più alte della letteratura contemporanea. Qui, attraverso la cronaca di una giornata tutta risolta negli stati d’animo, nelle inquietudini, nello sconfortato e tormentoso trascinarsi dei personaggi, egli persegue e raggiunge, nel cinema, la dissoluzione di ogni tessuto narrativo tradizionale, brucia senza esitazioni ogni residuo di cinema da “intrattenimento”.

All’analisi della disgregazione del tessuto connettivo della società e dei rapporti tra gli uomini, analisi conquistata e sofferta attraverso le scoperte e le reazioni di un personaggio femminile, corrisponde la rottura ed il rifiuto di un metodo narrativo organico e ascendente (vedi per contro il Visconti di Rocco) e la scelta di forme distese e inconcluse. Antonioni celebra, con Hauser, i fastigi, dell’essenza antinaturalistica del cinema.

Questo il senso dell’apertura del film, con quel magistrale montaggio audiovisivo di profili di grattacieli, di strade inquadrate dall’alto, di suoni, di rumori, di stridori lancinanti e di strutture metalliche, di intercapedini visive e sonore, la sinfonia fonda e ininterrotta della città, un incubo di immagini e di suoni ché si stacca sul volto sudato e ansante di Tommaso. Tommaso muore in una clinica moderna, confortevole, dove tutto è meravigliosamente funzionale ed efficiente. Tommaso muore, e l’incombere di quella morte si coglie in ogni momento della giornata di Lidia e Giovanni, di Lidia soprattutto.

La morte di Tommaso è per Lidia la morte di un uomo vero, uno dei pochi che sono rimasti tali: un compagno di studi, un amico, tenero, appassionato, persino incomodo nella sua capacità di credere. Se Giovanni, uscendo dalla stanza dell’amico, si imbatte nella ninfomane (un’Anna finita male, l’immagine di un erotismo esasperato, senz’anima, non del tutto dissimile da quello con cui Giovanni cercherà di stordire Lidia e se stesso, per non vedere, per non andare al fondo delle cose e dei sentimenti e trovarvi l’aridità e il vuoto), Lidia si trova invece di fronte a se stessa.

La morte di Tommaso fa scattare la molla di una crisi latente da tempo, mette a nudo l’insoddisfazione, l’amarezza, l’usura dei sentimenti, tutto ciò che si aliena nelle consuetudini e nei rapporti di ogni giorno, i vuoti che si colmano con feroce accanimento. Ancora una volta l’iniziativa ed il coraggio dell’esame di coscienza è affidato da Antonioni al personaggio femminile. A Lidia anzi Antonioni trasmette quell’impegno e quella volontà di capirsi e di capire, quel tenace lavorio di demistificazione e di scavo che egli compie sui sentimenti e sulle idee. E questo è il significato più segreto della lunga passeggiata di Lidia, del suo peregrinare per i prati e le strade di Sesto San Giovanni.

Nel corso di quel solitario vagabondare, che è uno smarrirsi ed un ritrovarsi continuo della coscienza, Lidia vede se stessa, le sue speranze di un tempo e le sue disillusioni di oggi, «come in uno specchio» mentre trascorrono dinanzi ai suoi occhi le immagini estranee e remotissime, pur se fisicamente presenti, di una realtà priva di aperture, chiusa ad ogni virtualità di dialogo e di rapporti: la violenza gratuita di una lite di teppisti, lo spettacolo «favoloso» di un razzo lanciato verso il cielo, la cadenza strascicata di una parlata dialettale. Il paesaggio, frantumato in una sequenza di immagini ferme e distaccate, acquista qui la dimensione soggettiva della meditazione interna del personaggio.

La ricerca di Lidia continuerà nella villa dei Gherardini e non si risolverà in quel vano tentativo di stordimento con un accompagnatore occasionale. Rifiutandone l’amplesso con una sorta di violento rancore, il personaggio non cade nella convenzione dei sentimenti, come potrebbe apparire ad un lettore superficiale, ma “vede” ancora una volta se stessa nello specchio della sua consapevolezza.

A Lidia fa da pendant l’enigmatica figura di Valentina: se Anna era scomparsa lasciando dietro di sé un effimero ricordo ed un libro di Fitzgerald, Valentina legge Broch, appartata dal dall’amore e dalla fittizia euforia della festa. È significativo questo ricorrere nell’ultimo Antonioni di figure, motivi, immagini emblematiche che si rinnovano di film in film attraverso una serie di connessioni e approfondimenti, momenti e trapassi di un discorso sempre più monocorde quanto stilisticamente più rigoroso.

Come è del resto assai significativo che alla descrizione di certi memorabili personaggi femminili, corrisponda una visione sempre più approssimativa di quello maschile e delle sue ragioni. La figura di Giovanni Pontano, scrittore di successo già integrato in un ordine di compromessi e di cedimenti e alla vigilia di una completa abdicazione della propria “qualità” umana ed intellettuale, è in tal senso particolarmente indicativa.

Come non concordare con l’acuta analisi di Vittorio Spinazzola quando osserva (in Michelangelo Antonioni regista, Film 1961. Feltrinelli) che «il più immediato obiettivo polemico de La notte è evidentemente rappresentato da Giovanni, l’intellettuale egocentrico, debole e vile, ricco solo di alterigia e di disprezzo per la comune umanità, dalla quale si sente separato, come il membro di una casta superiore?».

Ma come non rilevare d’altro canto, e lo stesso Spinazzola in parte lo ammette, che se Giovanni voleva essere l’immagine di un certo tipo di intellettuale contemporaneo inserito nell’ordine esistente, che ha smarrito le ragioni e la coscienza del proprio lavoro ed in cui il mestiere di letterato non riceve più alimento e significato dal «mestiere di vivere» e da un rapporto attivo con la società e i problemi degli altri, Antonioni ha sostanzialmente mancato l’obiettivo?

Troppe le assenze, le lacune, i silenzi sui rapporti fra Giovanni e la società, l’ambiente in cui vive e che ne hanno deteriorato la “qualità” di uomo e di scrittore; e troppe, per altro verso, le schematizzazioni esterne e persino le cadute macchiettistiche (si veda la figura di Gherardini, davvero poco credibile come incarnazione tipica di un certo ceto neocapitalistico e di una avanzante “società dei consumi”): vogliamo alludere alle sequenze del ricevimento nella casa editrice ed ancora a quella della festa, dove i rapporti fra Giovanni e gli “altri” non si approssimano neppure ad una persuasiva identificazione.

Gli è che ne La notte, più ancora che ne L’avventura e ad anticipare già i modi che saranno propri de L’eclisse, quello di Antonioni tende sempre più a diventare un cinema di “antefatti”, mirabile nel descrivere la coscienza e il rimpianto di una vita in cui tutto è già avvenuto, significativamente povero ed elusivo sulle “ragioni” quanto attento e sensibilissimo ai “sentimenti”.

Da Cinestudio. Quaderni del circolo monzese del cinema, n. 5, novembre 1962, pp. 7–17

Vittorio Spinazzola

A qualche mese di distanza da L’avventura, ecco Antonioni firmare una nuova opera, La notte. Stavolta le accoglienze delle prime sono decisamente calorose: 158.878.000 e l’ottavo posto nella classifica (sia pure a debita distanza dal gruppetto di testa), a ridosso di Adua e le compagne, prima di Io amo, tu ami, La verità, Il gobbo.

Antonioni non ritroverà più la felicità di movimento narrativo dell’Avventura. Nella Notte il racconto prende avvio da uno spunto tutto sommato estrinseco: una visita al moribondo Tommaso, amico dello scrittore Giovanni e già timido, innamorato della moglie di lui, Lidia. Ciò facilita la successiva interiorizzazione della vicenda, che gravita soprattutto sulla protagonista femminile, tratta dalla circostanza a rimeditare il passato, instaurando un paragone tacito fra i due uomini della sua vita, e accorgendosi infine, con stupita lucidità, che il suo matrimonio è fallito. Il personaggio appartiene certamente al rango delle creazioni migliori di Antonioni. La crisi che sempre più cresce e si chiarisce in Lidia è seguita con finezza, così da conferir risalto a ogni sguardo voce silenzio. Mai forse come nella Notte il regista ha raggiunto risultati tanto fermi nella visualizzazione degli stati d’animo, nella traduzione in immagini di atteggiamenti e sentimenti sottratti a ogni forma di intuizionismo romantico con obiettivismo rigoroso. Pensiamo a certi brani di “cinema puro” come la passeggiata solitaria di Lidia per le strade di Milano, tra l’asfalto e il cemento, poi sui viali della periferia; oppure la corsa in macchina, sotto la pioggia; e di converso alla levità dei colloqui coniugali, durante il bagno e più tardi al tabarin.

Contemporaneamente Antonioni prosegue con coerenza il suo programma di soggettivizzazione riduttiva del reale, da cui viene eliminato ogni aspetto non riferibile — per allusione, analogia o contrasto — alla vicenda interiore del personaggio. Fragorosa, abbagliante, ostentatamente soddisfatta di sé, la Milano della Notte chiede di essere giudicata con gli occhi della protagonista: una città estranea, dove si può lavorare bene ma si vive male. Ciò spinge ad aderire con immediatezza più affettuosa alla pena di Lidia, alla sua cordiale, gentile umanità. Tuttavia, ed è questo il motivo di forza del film, proprio la donna rappresenta il vero obiettivo polemico del regista: lei, col suo rimpianto di non aver saputo prolungare all’infinito l’amore per il marito, di non avergli saputo dedicare tutta la vita, di non essere morta per lui. Ha voluto isolarsi dal mondo, per porre la propria debolezza al riparo dell’amore coniugale: il mondo si è vendicato, distruggendo il suo sentimento e impedendole, ora che cerca di riprendere contatto con la realtà, di riconoscervisi. Così Lidia, come Claudia, comprende che quell’amore era una forma di egoismo: l’egoismo di chi sente il bisogno di essere posseduto da qualcuno e preferisce affidare ad altri le ragioni della sua vita, incapace di trovarle autonomamente dentro di sé.

Meno riuscito è il ritratto del protagonista maschile, rappresentato inadeguatamente nella sua qualifica intellettuale e perseguito con moralismo troppo facile nella sua ostentata alterigia, nel suo cinismo e nell’intima viltà. Da ciò deriva un grave squilibrio nel racconto, riconoscibile in tutte le scene destinate a porre in risalto la personalità dello scrittore. Tacciamo dell’espediente costituito dalla lettura di una sua vecchia lettera alla moglie, nell’episodio conclusivo, che peraltro si risolleva subito, con la forte sinteticità dell’abbraccio animalesco imposto dall’uomo alla donna che gli ripete desolatamente di non amarlo, su un prato deserto, in un’alba spenta. Ma l’episodio del ricevimento editoriale non oltrepassa le annotazioni di un descrittivismo aneddotico. E anche il lungo party nella villa dell’industriale indulge al macchiettismo, pur se fornisce sfondo adeguato ai rovelli di Lidia e Giovanni, patetici spettri disperatamente attaccati alla vita, che si incontrano e si separano, sostano e riprendono il cammino, aggirandosi per le sale come nel labirinto della loro coscienza: sino all’incontro con Valentina, che con la sua freschezza e le inibizioni della sua gioventù disillusa sarà per entrambi lo specchio in cui constatare la loro sconfitta.

Certamente, le concessioni al colore e al folclore della modernità urbana facilitarono l’esito del film, compensando agli occhi dello spettatore la vanificazione dell’intreccio. Più dell’Avventura, La notte è opera legata al momento del “miracolo economico”, all’immagine di una società che ritiene di aver raggiunto l’opulenza e di essersi ormai data un assetto stabile: e perciò si decide a porgere orecchio alle voci di un’inquietudine profonda che le giungono dal suo stesso seno. Anche Antonioni, come Fellini, porta sullo schermo i ceti superiori, nei confronti dei quali il pubblico prova un desiderio d’informazione crescente, nella misura in cui non li considera più un modello inaccessibile ma continua a subirne il fascino. Entrambi i registi procedono a un’opera di smitizzazione, mostrando come le élite intellettuali e artistiche abbiano smarrito, assieme all’interesse per la cosa pubblica e le idee generali, anche ogni norma di comportamento privato. E la loro posizione di condanna acquista risonanza tanto più agevole in quanto appare improntata a un’esigenza di ordine e normalità neoborghesi non meno che a un forte sentimento dei valori individuali. Ma Antonioni va più a fondo: mira all’essenziale, mettendo a fuoco il più nudo dei rapporti intersoggettivi, quello uomodonna. Il rifiuto delle fumisterie sentimentali, delle scappatoie consolatorie gli consente di inoltrarsi nel cuore della questione: che riguarda l’impossibilità di ogni soluzione individuale della crisi.

Nel mondo moderno ognuno vive solo. Ma per l’uomo solitudine equivale a morte: la tensione verso la società è un dato di natura. D’altronde, quanto più sofferta è l’esigenza di comunicare con gli altri, tanto più dura sarà la delusione. Muovendosi tra i termini opposti di questo dilemma insolubile, i personaggi di Antonioni definiscono una condizione tipica del nostro tempo. Ingiusta appare perciò l’accusa mossa al regista di occuparsi soltanto degli pseudo-problemi di coloro i quali non hanno preoccupazioni materiali, non conoscono gli assilli concreti di una vita di lavoro. Vero è piuttosto che anche nel caso di Antonioni il quadro di costume, pur dipinto a colori tanto più neutri e opachi rispetto alla Dolce vita, conserva un suo fascino positivo: la diseroicizzazione dei personaggi non esclude che lo spettatore tenda a proiettarsi nell’ambiente, con le sue obiettive caratteristiche di lusso ed eleganza.

Da: Giorgio Spinazzola, Cinema e pubblico, goWare, 2018, pp. 297–300

Georges Sadoul

Dopo essere andati a far visita a un amico agonizzante (Bernard Wicki), un marito (Marcello Mastroianni) e sua moglie passano in casa di certi miliardari una serata insulsa da “dolce vita”, si rendono conto (la donna in particolare) che il loro amore è finito, e il mattino si stringono in un abbraccio disperato e inutile.

Il film forma quasi una trilogia con L’avventura L’eclisse. Sequenze celebri: la visita all’ammalato, la passeggiata della donna per Milano e sobborghi, la noiosa serata trascorsa in un ritrovo notturno, gli invitati al ricevimento che si gettano nella piscina, l’incontro con una triste ragazza ricca (Monica Vitti), l’amplesso amaro e disperato all’alba sul prato dopo la festa.

«Una coppia in cui la donna è più lucida dell’uomo perché la sensibilità femminile è il filtro più fine che esista e l’uomo, nel regno dei sentimenti, è quasi sempre incapace di avvertire la realtà, ma tende a dominarla. Il peso dell’egoismo femminile suppone, a proprio vantaggio, un’astrazione totale della personalità della donna.» (Antonioni).

Più triste de L’avventuraLa notte è un ulteriore scavo in ambienti e personaggi simili. Antonioni raffina il suo linguaggio e chiarisce, forse limitandoli, i suoi temi di fondo.

G. Sadoul, Dizionario del cinema, Sansoni, 1968

Carlo di Carlo

Giovanni, romanziere di successo, e Lidia vanno in ospedale a trovare Tommaso, un amico che sta morendo di cancro. E mentre Lidia è ancora nella camera ad ascoltare le parole di Tommaso, da sempre innamorato di lei, Giovanni subisce passivamente le attenzioni di una giovane ninfomane. Poi marito e moglie vanno a un cocktail offerto dall’editore di Giovanni per l’uscita dell’ultimo romanzo dello scrittore.

Lidia, annoiata, se ne va e inizia un lungo vagabondaggio per le strade di Milano, poi in periferia, finché, giunta nel luogo dove il marito aveva cominciato a corteggiarla, lo chiama col telefono e gli dice di venire a prenderla. La sera, dopo una puntata in un night club, vanno ad un ricevimento, nella villa di un grosso industriale. Giovanni è circondato di attenzioni. Lidia telefona in ospedale e viene a sapere che Tommaso è morto. Disperata, sola, accetta un giro in macchina da uno sconosciuto che vorrebbe sedurla, ma non se la sente di tradire il marito, che intanto è attratto da Valentina, figlia del padrone di casa, che comunque resiste alle attenzioni dello scrittore, anche se gli confida la sua difficoltà di vivere. Lidia intanto è tornata, trova Giovanni con Valentina, e tra le due donne sembra instaurarsi una tacita intesa. Poi usciti nel parco, la donna dice al marito che Tommaso è morto. Anche il loro amore è morto: lo scoprono quando lei gli legge una vecchia lettera d amore che lui non riconosce. All’alba, sul prato, i due si abbracciano disperati.

Da Caro Antonioni, catalogo edito in occasione della mostra e della retrospettiva dedicate ad Antonioni, Roma, Palazzo delle Esposizioni, 2–17 dicembre 1992, pp. 69–70

Stefano Lo Verme

Giovanni Pontano è un affermato scrittore che vive a Milano con la moglie Lidia, ma il loro matrimonio sta scivolando in una fredda indifferenza reciproca. Un sabato, dopo aver fatto visita ad un loro amico, Tommaso Garani, ricoverato in una clinica, Giovanni e Lidia si preparano per recarsi ad una festa mondana nella villa del ricco industriale Gherardini, interessato all’opera di Giovanni.

Secondo capitolo, dopo L’avventura (1960), della “trilogia esistenziale” di Michelangelo Antonioni, La notte è stato premiato con l’Orso d’Oro come miglior film al Festival di Berlino del 1961, e rappresenta una delle pellicole più apprezzate nella carriera del celebre regista italiano.

Sceneggiato da Antonioni con Ennio Flaiano e Tonino Guerra, La notte è incentrato sul complicato ménage fra i due personaggi interpretati da Marcello Mastroianni e Jeanne Moreau: Giovanni Pontano, un brillante intellettuale alle prese con un sotterraneo senso di frustrazione, e la sua consorte Lidia, in rotta con il marito ed incapace di sentirsi a proprio agio in mezzo al “bel mondo” dei salotti milanesi.

L’azione si svolge nell’arco di una mezza giornata, da un sabato pomeriggio fino all’alba di domenica: la parte centrale corrisponde così alla “notte” del titolo, che Giovanni e Lidia trascorrono ad una festa dell’alta società in una villa appena fuori Milano. Riprendendo i temi del precedente L’avventura, Antonioni si sofferma nella descrizione della crisi sentimentale dei protagonisti: una crisi ormai irreversibile, sottolineata dalla freddezza e dall’incomunicabilità che contraddistinguono il rapporto fra i due coniugi. La pellicola scorre così fra la noia di Lidia, che si chiude in una volontaria solitudine, e il disagio di Giovanni, sintomo della più generale condizione di malessere dell’intellettuale alle prese con il conformismo dell’Italia contemporanea.

Con La notte, Antonioni torna ad approfondire i concetti peculiari del suo cinema: in particolare quell’ineffabile senso di alienazione che, nella moderna civiltà industriale, sembra soffocare l’individuo e non lasciare alcuno spazio ai sentimenti. Emblematica, da questo punto di vista, l’apparente indifferenza con la quale Lidia attraversa tutti gli eventi della propria giornata, inclusa la scoperta dell’attrazione fra suo marito e la giovane Valentina (Monica Vitti), figlia del padrone di casa.u

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