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Antonioni: il grande cinema del passato e la critica di allora

Antonioni Michelangelo

Con lo speciale sui film di Antonioni – a cominciare da “Il grido” del 1957 – e la critica coeva iniziamo una nuova rubrica di FIRST Arte dedicata al grande cinema del passato, particolarmente italiano. Il grande cinema non invecchia mai. Ogni generazione trova nuovi stimoli, nuovi spunti di riflessione, nuove motivazioni nei grandi film che hanno segnato la storia culturale del nostro paese. Si vedono sempre in modo diverso, con la sensibilità del momento. Sta di fatto questi film sono apparsi sullo schermo in un determinato momento, sono stati girati per il pubblico del loro tempo. Ma il pubblico del tempo come li ha accolti, giudicati e sentiti? La critica cinematografica può essere un filtro importante per capire la fortuna iniziale di un film, che poi può non coincidere con quella di oggi.

Abbiamo allora pensato di offrire ai nostri lettori le recensioni dei grandi film (grandi lo sarebbero diventati dopo o subito dopo) dei maggiori critici cinematografici italiani. Articoli comparsi sulla stampa quotidiana o specializzata del tempo. Un Amarcord della critica cinematografica. Dicevamo di Antonioni che è il primo speciale. Ecco i film di Antonioni di cui  potrete leggere una vasta rassegna della critica del tempo: Il Grido (1957), L’avventura (1960), La notte (1961), L’eclissi (1963), Il deserto rosso (1964), Blow-Up (1966). A questo punto pubblicheremo per la prima volta in traduzione italiana la lunga intervista di Antonioni a Playboy uscita nel numero del novembre 1967. seguiranno quindi i film  Zabriskie Point (1970) e Professione: reporter (1975). Buon viaggio  nel tempo!

Film: Il Grido (1957)


Tullio Kezich

Andai a visitare il set di Il grido nel dicembre 1956 sulla Seicento di Gino Mercatali, un fotografo d’assalto, il primo che ci portò a “Settimo Giorno “ delle immagini “rubate” del campione Coppi con la Dama Bianca. Gino guidava la macchina da spericolato incosciente, cacciandosi nella peggiore nebbia che mi sia mai capitato di trovare. Ricordo che sulla piazza di Francolino faceva un freddo pazzesco e che l’intervista riuscii a imbastirla solo verso sera, tornati a Ferrara, con Antonioni ancora mezzo assiderato che per scaldarsi si era infilato vestito nel suo letto d’albergo. Non mi riuscì invece, per timidezza reciproca, di intervistare Alida Valli nell’osteria dove ci eravamo riparati durante una pausa.

Un uomo bruno, tarchiato, svolta l’angolo di via Andrea Costa e si ferma un momento. La nebbia scende sempre più bassa, fa freddo e sull’argine che sovrasta il paese di Francolino si stagliano nere figure di contadini. Siamo a pochi chilometri da Ferrara, fuori dalla barriera di Corso Porta Mare. Una donna bionda viene avanti dal fondo della strada. L’uomo le si avvicina, sono l’uno di fronte all’altra. Intorno a loro già si raccoglie della gente, qualcosa sta per accadere. L’uomo colpisce la donna con uno schiaffo, un altro schiaffo: la spinge verso il muro e la colpisce ancora. Lei cerca di fuggire, ma lui le afferra un braccio con la sinistra e con l’altra mano continua a colpire. Sullo sfondo passa un ciclista. Nessuno dice una parola. L’uomo e la donna sono di fronte: lei ha la faccia arrossata, i capelli in disordine e una treccia che si è sciolta durante la colluttazione. Si guardano con odio.

Alt, si ripete. Il regista Michelangelo Antonioni entra nello spiazzo illuminato dai riflettori e dice qualcosa ad Alida Valli, che ha ancora il volto contratto per gli schiaffi ricevuti e gli occhi gonfi di lacrime vere. Steve Cochran, quasi imbarazzato, la serra fra le braccia e le sfiora la guancia con un bacio. La sarta della “troupe” butta la pelliccia sulle spalle dell’attrice e le passa un bicchierino di grappa. Il parrucchiere si mette subito al lavoro intorno alla treccia.

La nebbia è umida, pesante. Antonioni, in cappotto blu col bavero sollevato e zucchetto da sciatore nero e rosso, ripete sotto voce le istruzioni a Cochran: sentiamo un inglese scandito, preciso. L’attore annuisce, poi si fa indicare il punto esatto in cui deve trascinare la Valli per gli ultimi schiaffi. Gli aiuti si danno da fare per riorganizzare il movimento delle comparse, pilotano con destrezza le contadine coi fazzoletti in testa e i vecchi avvolti nel ferraiolo.

Il cerchio dei curiosi si stringe sempre più. L’operatore Gianni Di Venanzo sorveglia ancora la luce di piombo attraverso l’esposimetro e ha una smorfia di perplessità. Franco Cancellieri, il produttore, sembra preoccupato che la nebbia non costringa da un momento all’altro a piantar lì tutto. La ballerina inglese che Antonioni ha scelto per una parte nel film, Lyn Shaw, è addirittura scomparsa nella pelliccia e pensa che forse era meglio starsene a Milano con le “girls” di Dapporto. Il direttore di produzione, Marciani, sta già facendo il programma per il giorno dopo: la mareggiata nel Polesine ha costretto la “troupe” a cambiare quasi tutti gli esterni. Antonioni lavora a costruire un paese messo insieme con pezzi presi qua e là, passando da Occhiobello a Pontelagoscuro, da Ravalle a Copparo, da Porto Tolle a Porto Garibaldi. Ma la preoccupazione costante di Marciani è la nebbia che perseguita il film costringendo a bruschi mutamenti nell’ordine del giorno: e qualche volta, quando la nebbia non c’è, bisogna crearla artificialmente per completare certe scene iniziate col tempo grigio.

Il macchinista che batte il ciak ha già preparato il nuovo numero: 123/2. Cancellieri guarda l’ora, sempre più preoccupato: è proprio vero che nel cinema il tempo è denaro. La Valli restituisce con un brivido la pelliccia alla sarta. Steve Cochran fa una corsetta per scaldarsi e finge di tirare qualche pugno a un elettricista che sta dissimulando un cavo. L’elettricista ride, tutti ridono. Cochran rifà le smorfie che faceva dieci anni fa, quando era primo attore nel “vaudeville” con Mae West.

Operatore pronto, attori in posizione, luci a posto. Ciak: centoventitré seconda. Steve (tutti ormai lo chiamano così) fa un’ultima smorfia a sua figlia Andy, che lo aspetta ai bordi dell’inquadratura reggendo il thermos del caffè, ed è di nuovo un operaio del ferrarese, all’angolo di via Andrea Costa.

Michelangelo Antonioni decise di prendere Steve Cochran come protagonista di Il grido dopo averlo visto in Dollari che scottano. Da parecchio tempo stava cercando un interprete adatto: il film si svolge intorno a Ferrara, nei paesi che il regista conosce fin da bambino e con personaggi dall’aspetto familiare, ma Antonioni non riusciva a immaginare nessun attore nella parte di Aldo. Stava già pensando di ricorrere, per una volta, a un interprete preso dalla strada, benché il sistema non gli piaccia molto. Poi una sera, al cinema, ritrovò l’immagine di Cochran. “Mi servirebbe un tipo così”, sussurrò a un amico nel buio della sala. “Perché non gli telegrafi e non gli chiedi se vuol venire?”. Era un’idea.

Ora Antonioni sembra soddisfatto della propria scelta. Steve è un attore attento e coscienzioso. Ha, un po’ il vizio, come tutti gli americani che vengono a girare da noi, di rimpiangere i metodi di Hollywood, dove ogni cosa si svolge secondo piani meticolosi e dove il ritmo del lavoro, anche per gli interpreti, è sempre riposante, impiegatizio. Ma Cochran si va abituando agli usi del neorealismo con sportiva disinvoltura: ha capito che per fare un certo tipo di film bisogna adattarsi a soffrire il freddo, a seguire i ghiribizzi del tempo e a sentirsi le mani unte dopo aver mangiato la carne dei “cestini”.

Poiché è anche compartecipe di Il grido (si è assicurata la distribuzione per il mercato americano, dove Antonioni è ancora pressoché ignoto: soltanto Cronaca di un amore è stato dato alla TV), l’attore vuol rendersi bene conto di tutto, interroga e dissente. Non gli par vero di uscire, una volta tanto dalla categoria dei “cattivi” in cui Hollywood l’ha più o meno confinato e non vuol sprecare l’occasione. Arriva al mattino con la cartella sotto il braccio come un avvocato, e ne tira fuori i dattiloscritti delle scene in programma, che ripassa attentamente, assistito da una piccola corte: figlia, amica della figlia, consigliere amministrativo, fidanzata del consigliere, sceneggiatore americano per tradurre i dialoghi. Con tutto ciò, Cochran chiede spesso consiglio al regista e si è perfino fatto accompagnare dal sarto per essere sicuro che un certo vestito di scena fosse quello che Antonioni voleva.

Questi incontri fra attori americani e cinema italiano sono veramente curiosi. A volte danno risultati scoraggianti, come accadde al regista che dovette girare tutto un film con un famoso attore perennemente ubriaco, manesco e vociante. Altre volte la collaborazione nasce sotto auspici favorevoli. Antonioni, per esempio, è entusiasta di Betsy Blair, che ha lavorato per qualche settimana a una parte de Il grido: “È una di quelle attrici — dice — con le quali tutto diventa più facile. Non c’è da meravigliarsi che abbia avuto tanto successo. Betsy Blair si impadronisce della parte, la penetra con intelligenza così sottile che può permettersi di dire: la tale battuta suona falsa, credo che il personaggio dovrebbe esprimersi in modo diverso: e trova sul momento le parole esatte, il tono insostituibile”.

Il grido si annuncia come un film con molte attrici. Oltre ad Alida Valli, a Betsy Blair e a Lyn Shaw, c’è Gabriella Pallotti ( la scoperta di Il tetto di De Sica) e Dorian Gray, che forse stenteremo a riconoscere perché il regista la vuole bruna e con i capelli corti. Cinque donne per un uomo solo sono parecchie anche sullo schermo. La presenza di tante attrici in Il grido ha suscitato una certa curiosità per il soggetto: ma Antonioni non vuole raccontarlo. “Questa volta — annuncia ridendo — voglio fare come Chaplin”. Non è affatto vero, naturalmente: tanto più che nel cinema italiano non esistono segreti, tutti sono informatissimi o appena c’è nell’aria qualcosa che non si dovrebbe sapere, arriva subito qualcuno, con fare di mistero, a spiattellarvi l’intero retroscena. Anche il soggetto di Il grido è un segreto di Pulcinella, che tutti si fanno in quattro per svelare.

Il regista lo sa benissimo e ci si diverte: tuttavia non tiene a divulgare la vicenda del film. “Perché dobbiamo sempre raccontare il soggetto prima? — dice — Molti spettatori potenziali, quando conoscono la storia, perdono il gusto del film: e il cinema è fatto soprattutto per quelli che ci vanno, altrimenti sarebbe una cosa combinata tra noi”. Il grido, infatti, scapita a essere raccontato in poche parole. Diremo che è la storia di un operaio, Aldo, che non riesce a dimenticare una donna, con la quale ha vissuto per anni, Irma; altre donne passano, l’una dopo l’altra, nella sua vita, in un lungo vagabondaggio di paese in paese: ma Aldo rimane legato al ricordo di Irma e finisce per tornare a lei. C’è anche un finale drammatico, che preoccupa molto Antonioni. Ma il film vivrà soprattutto del contesto: ci sarà il colore di queste contrade, il volto della gente del ferrarese, le fabbriche, le osterie, il vino e la nebbia.

Quando annunciò che stava per realizzare Il grido, cioè una vicenda di ambiente popolare, Antonioni sorprese tutti. Il cinema è uno strano mondo, in cui nessuno sfugge a una classificazione precisa: anche all’autore di Le amiche era stata applicata un’etichetta, quella di “regista della borghesia”. Michelangelo Antonioni, oggi poco più che quarantenne, dirige film da sei o sette anni: prima si era fatto notare come critico cinematografico, giornalista, assistente di Rossellini e di Carné, sceneggiatore e finalmente regista dei più bei documentari realizzati in Italia. Il suo primo film, Cronaca di un amore, era ispirato all’ambiente del caso Ballentani: la Mostra di Venezia lo rifiutò come opera di un esordiente, ma i critici più svegli ne parlarono con entusiasmo. Da allora, il cammino di Antonioni non è stato facile: I vinti, un film sulla gioventù del dopoguerra, ebbe grossi fastidi con la censura di tre Paesi; La signora senza camelie, storia di una “diva all’italiana”, suscitò una mezza rivoluzione a Cinecittà, provocando lo sdegno della Lollobrigida e di altre personalità che si ritennero prese di mira.

I primi riconoscimenti ufficiali arrivarono soltanto con Le amiche, tratto da un romanzo di Pavese: e adesso anche i critici che si divertirono a stroncare Cronaca di un amore scrivono che Michelangelo Antonioni è uno fra i migliori registi del cinema contemporaneo.

Il regista di Il grido è fra quelli che potrebbero fare due film all’anno, malgrado la crisi. Oltre ad avere un nome, si ë fatta una reputazione come tecnico di prim’ordine: ci sono dei vecchi operai del cinema che assicurano di non aver mai visto un direttore altrettanto abile nel far muovere la macchina da presa. Con quella sua aria un po’ diafana, da intellettuale, Antonioni è incredibilmente rapido e deciso: spesso gira una scena quando gli attori credono di dover fare l’ultima prova: “È un buon sistema — afferma — per cogliere l’espressione più fresca, il gesto non ancora appesantito da troppe ripetizioni”. Se non fa un film dopo l’altro, è soltanto perché non riesce ad appassionarsi che alle imprese delle quali è convinto.

Antonioni prevede già che molti dopo Il grido lo accuseranno di aver voltato le spalle al suo mondo e ai suoi temi. Ma il nuovo film rientra perfettamente, secondo il regista, nella sua particolare concezione del cinema. Questa volta ha voluto uscire dai limiti psicologici dell’ambiente borghese, per raccontare una complessa storia d’amore che si svolge fra il popolo, a un livello sociale dove le passioni esplodono con maggiore violenza. “Il neorealismo — dice Antonioni — è stato finora quasi sempre un cinema di situazioni: l’attacchino al quale rubano la bicicletta è l’esempio più tipico. Forse i tempi sono maturi per tentar di trasferire il realismo dalla situazione al personaggio, per cercare di individuare, insomma, non più dei ‘tipi’ ma degli uomini veri”.

Nella strada di Francolino, la scena degli schiaffi si ripete esattamente come la prima volta. Fra poco sarà notte e Alida Valli continua impavida a ricevere i manrovesci di Steve Cochran, che risuonano come frustate. Nella “troupe” tutti hanno lo sguardo intirizzito dei malati d’influenza; la segretaria di edizione si soffia il naso rumorosamente; gli occhi rotondi di Lyn Shaw seguono con apprensione le disavventure della Valli; l’inglesina sta pensando che domani toccherà a lei. Gli spettatori occasionali sono ormai molto più numerosi, perché gli uomini del paese sono rientrati dal lavoro; Marciani ha dovuto far tirare delle corde per tenerli indietro. Quando gli schiaffi si moltiplicano, qualcuno ride forte. Il regista ordina l’alt e la Valli si copre il volto con le mani, ma ha ancora il coraggio di fare un mezzo sorriso. Antonioni dice qualcosa che solo quelli intorno a lui possono sentire. “Il dottor Antonioni è un signore — bisbiglia la sarta — è l’unico regista che parla a bassa voce anche quando usa il megafono”.

Da Settimo Giorno, n. 1, 5 gennaio 1957


Paolo Gobetti

Pur senza molta speranza cerchiamo di sapere quale sia l’argomento, il soggetto de Il grido. Ma Antonioni è irremovibile: non, dice, per adeguarsi a una moda; non ha mai voluto parlare del soggetto del film prima di averlo terminato, perché e difficile riassumerlo in poche parole e si corre il rischio di darne un’idea assolutamente inadeguata. Ci dice comunque che sta girando il periodo che corrisponderà sullo schermo a un’acerba primavera; poi farà l’inverno e infine l’autunno. Tutto considerato, il film dovrebbe essere terminato per la fine di gennaio e gli esterni ancora prima. Dopo gli inizi a Occhiobello, sono venute le riprese di Porto Tolle, dove l’alluvione ha creato delle difficoltà e offerto al tempo stesso preziosissime occasioni, poi ancora ha girato nei dintorni di Ferrara; presto andrà verso Ravenna, poi nella campagna romana.

Protagonista del film è un operaio: un meccanico che lavora in uno zuccherificio, specializzato quindi. È stato scelto per interpretarlo Steve Cochran, e non solo perché si tratta d’una coproduzione con gli Stati Uniti, ma anche perché ha il fisico perfetto, e una faccia molto espressiva. Non è facile guidarlo, ci confessa però Antonioni: gli attori americani sono abituati a metodi diversi. Il regista italiano è abituato a servirsi spesso degli attori come materia bruta; gli attori americani invece devono rendersi conto della parte, di quello che vuole da loro il regista, altrimenti non riescono a esprimerlo.

Cerchiamo, con l’aria più disinteressata del mondo, di ritornare sul discorso del soggetto, di strappargli qualche confidenza. Ma non c’è niente da fare. Ci ripete quel che già sappiamo: è la storia d’un uomo che ama una donna, la moglie, con la quale però non può più vivere. E ha incontri, esperienze con altre donne, con cui stringe rapporti diversi. Il soggetto l’ha scritto con De Concini, di cui ha apprezzato soprattutto l’abilità nel costruire, e con Bartolini, letterato e professore, figlio di contadini, alla sua prima esperienza cinematografica, in cui ha dato ottima prova.

È un film difficile, conclude Antonioni. Un film con il quale pensa di procedere sulla stessa linea d’indagine psicologica dei sentimenti che ha seguito nei film precedenti: solo che ha cambiato ambiente: si tratta questa volta del mondo degli operai. Il lavoro è analogo a quello compiuto negli altri film, centrati sulla borghesia. Ma qui bisogna andare al fondo delle cose: «Gli operai vanno al nocciolo delle questioni, all’origine dei sentimenti. Tutto è più vero. Ma come qualità di lavoro è la stessa dei miei film precedenti». Di fronte a un mondo che non conosceva Antonioni si è posto con molta umiltà e serietà. Ha mandato stenografi nelle osterie, nelle fabbriche a raccogliere discorsi, frasi, modi di esprimersi degli operai. Con gli operai stessi ha discusso la forma dei dialoghi. Certo ha affrontato un tema apparentemente un po’, complicato, che potrebbe apparire più adatto a personaggi della borghesia. Ma non bisogna aver paura di certe convenzioni. «Il mondo in cui viviamo — dice — è notevolmente cambiato in questi ultimi anni e se vogliamo che i nostri film siano attuali, dobbiamo sforzarci di riconoscere la nuova realtà, di scoprire modi e situazioni impensate. Nelle fabbriche, per esempio, esiste una quantità di donne in posizione irregolare, con storie incredibili. Non si deve credere che certi problemi siano specifici della borghesia. E nella gente semplice c’è una ricchezza incredibile di intuizioni profonde: ho incontrato tempo fa a Ca’ Tiepolo un vecchietto, a cui non si sarebbe dato molto credito, che a un certo punto è uscito in questa osservazione poetica e drammatica: «guarda com’è bello questo mondo: viverci dovrebbe essere un vero piacere!».

Il discorso torna ora agli attori. Persino Alida Valli reciterà in inglese con Cochran, come abbiamo potuto constatare il mattino dopo. Sull’argine del Po, presso Ravalle — questa volta la nebbia si dirada e riusciamo facilmente a trovare la troupe — vestita come una donna di campagna, con la borsa della verdura, Alida Valli incontra Steve Cochran al cospetto d’una schiera attenta di gente che gli organizzatori han da tenere calma e zitta mentre operatore e carrellisti si dan da fare a ripetere un movimento piuttosto complicato: uno di quei movimenti di macchina che costituiscono una parte essenziale dello stile di Antonioni. Steve s’avvicina ad Alida e le chiede come ha potuto dimenticare. E la donna risponde «it is just because I haven’t forgot» («È proprio perché non ho dimenticato che non posso rimanere con te»). E dopo quel bacio rabbioso si allontana lungo l’argine.

C’è un’atmosfera d’inquietudine, che si disperde in una natura fredda e nebbiosa in cui i raggi del sole entrano come filtrati e dove il Po scorre sullo sfondo, disinteressato, senza passione. Se Antonioni riuscirà a renderla, se soprattutto il soggetto lo aiuterà a ricreare il mondo della Bassa padana ne uscirà indubbiamente un film interessante e importante. Ma è necessario che il Po sia veramente il Po, che la Bassa e il Ferrarese e le Valli di Comacchio corrispondano a una ben precisa geografia anche sociale perché la storia dell’operaio che non può dimenticare la moglie acquisti una dimensione autentica, italiana (anche se Cochran recita in inglese). Bisogna insomma che si tratti d’una vicenda che si può svolgere solo in questo ambiente, in questa natura, che sia impensabile nel Texas; così ancora una volta il Po potrà dare al nostro cinema il suo prezioso contributo.

Da Cinema Nuovo, n. 98, 15 giugno 1957, pp. 16–17


Guido Aristarco

Michelangelo Antonioni è forse il più “letterato” dei nostri registi per il suo gusto e le sue ambizioni: un letterato che […] si inserisce nella crisi del nostro romanzo contemporaneo. Egli stesso, nel costruire le storie, i racconti per i propri film, sembra trovare, in cotesto lavoro, gli ostacoli che sono di fronte a molti nostri giovani e non più giovani scrittori. Il grido, ancora da un suo soggetto, è un’altra sconfitta di Antonioni soggettista […], sconfitta magnifica per certi versi […] La riprova data da Il grido, in questo senso, dispiace doverla registrare dopo i risultati raggiunti con Le amiche e in un momento in cui, osservando i valori perseguiti dai registi italiani nell’immediato dopoguerra fin verso il ’50, sarebbe lecito pretendere da loro lo scendere in profondità, l’«andare oltre la superficie dei fenomeni, il trovare con nitida consapevolezza i modi e le contraddizioni di una realtà». (Ma le ragioni della crisi sono molte e complesse, di natura interna ed esterna; e poi ci siamo mai domandati i motivi di analoghi fenomeni in letteratura, perché a esempio il rinascimento del romanzo americano durò il breve spazio di un quinquennio, quasi lo stesso spazio del nostro rinascimento cinematografico?)

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«In un’epoca come la nostra, in cui chi sa scrivere pare non abbia più niente da dire e chi comincia ad avere qualcosa da dire non sa ancora scrivere» — annotava il Pavese appunto nel ’50 — «l’unica posizione degna di chi pure si sente vivo e uomo tra gli uomini ci sembra questa: impartire alle masse future, che ne avranno bisogno, una lezione di come la caotica e quotidiana realtà nostra e loro può essere trasformata in pensiero e fantasia». Per far questo, aggiungeva Pavese, sarà necessario non essere sordi né all’esempio intellettuale del passato — il mestiere dei classici — né al tumulto rivoluzionario, informe, dialettico dei nostri giorni. Pavese non viene citato vanamente, ma di proposito per più di una ragione se non altro per la ricerca, lo studio delle “fonti” letterarie di Antonioni (per quelle cinematografiche la questione è più appariscente, diremmo quasi più facile: si potrebbe parlare di Bresson, del Carné migliore, e in genere del più evoluto cinema francese tra le due guerre; e si tenga presente che nell’un caso come nell’altro, fonti significano analogie di interessi, di gusti, affinità ideali che spesso si contraddicono). Tali fonti letterarie si rifanno tra l’altro, sia pure per via meno diretta, o addirittura indiretta, ad alcuni atteggiamenti alla Fitzgerald (così comuni del resto in certa nostra giovane cultura cinematografica e non soltanto cinematografica). Pare infatti che Antonioni e i suoi personaggi — tra i quali domina sempre o quasi la donna — vogliano credere ma non possano, che essi, come i “belli e dannati” dello scrittore americano, domandino: «Come si fa a imparare a credere, e in che cosa si può aver fede?» Sembra insomma che egli sia il regista di una certa categoria di giovani della generazione triste, e che con Fitzgerald abbia in comune, spiccatissimo, il senso dell’ambiente, la coscienza delle proprie possibilità tecniche, le quali anche in lui tengono «il posto della dottrina» (che non sia anche un richiamo al Grande produttore il film sul mondo cinematografico La signora senza camelie?)

Si è visto nei film precedenti, sin dai suoi primi documentari, come la lingua e la tecnica siano assai evolute in Antonioni. L’espressione cinematografica ancora una volta non presenta per lui difficoltà insormontabili; al contrario si aggrava qui, in Il grido, il pericolo se non […] del vacuo formalismo, di scambiare il dominio formale, delle forme, con la poesia vera. […] L’ascolto di Antonioni non è infatti per il Pavese “sociale” e dei dialoghi col compagno, ma per il Pavese che, nonostante tutto, nonostante le sue limpide intuizioni, e la sua coscienza, si ripiega su se stesso e dalle contraddizioni non risolte arriva al suicidio. Lo studio delle varianti, oltre che delle fonti, scopre come le prime non coincidano mai, in Antonioni, con delle “correzioni”, come anzi tendano, di là dalle contraddizioni e dalla visione di Pavese, a fermare l’attenzione — oltre che sulla tecnica intesa come dottrina — sul culto pavesiano della parola, che è come dire il culto del regista per l’inquadratura. «Quando Pavese comincia un racconto, una favola, un libro, non gli accade mai di avere in mente un ambiente socialmente determinato, un personaggio o dei personaggi, una tesi. Quello che ha in mente è quasi sempre un ritmo indistinto, un gioco di eventi che, più che altro, sono sensazioni e atmosfere». Sono parole facilmente trasferibili ad Antonioni. Sembra davvero di sentir parlare il regista, e in particolare il regista di Il grido […] Così il passaggio dal mondo della borghesia — mondo sempre presente nei suoi precedenti film — a quello degli operai, non è dovuto a una intima necessità, anche se sulla falsariga di Pavese, figlio di contadini, Antonioni sa che «in quello strato sociale che si chiama popolo la risata è più schietta, la sofferenza più viva, la parola più sincera». (Bisogna andare al fondo delle cose, dichiarava a «Cinema Nuovo»; «gli operai vanno al nocciolo delle questioni, all’origine dei sentimenti. Tutto è più vero»). Vien da pensare che il paesaggio — il delta padano, il Po, gli argini fangosi, le povere cose e le povere case, le baracche: il paesaggio ferrarese brumoso, autunnale e invernale, del ferrarese Antonioni — obbedisca più a ragioni per così dire fotogeniche, e a modelli figurativi, che all’umana necessità dei personaggi, che qui risultano occasionali. (A determinati personaggi corrisponde un determinato e «necessario» paesaggio in Ossessione, con il quale Il grido ha tanti richiami, e non soltanto geografici, che portano a un divario cospicuo, ampio: vogliamo e possiamo chiamare Il grido un Ossessione anacronistico? Forse è impossibile, poiché nonostante le diversità di tempo, l’opera di Visconti è più radicata nella realtà, più attuale e viva e diversa quindi da Il grido).

In questa nuova cronaca di un amore — della crisi di un amore — le reazioni di Aldo sono viste uguali alle reazioni di ogni altra persona travolta da un rapporto infelice; la sua vicenda, l’idea che egli conserva di Irma anche a contatto con altre donne, potrebbero essere quelle di qualsiasi uomo di qualsiasi strato sociale: la dimensione proletaria di Aldo è casuale — confessa Antonioni. Una media universalizzata come si vede, che coinvolge più di un equivoco. Ci sono diversi modi di reagire, legati ai caratteri degli individui e ai loro vari destini. Antonioni sceglie come protagonista un operaio specializzato, un meccanico che lavora in uno zuccherificio; e non mostra o non sa mostrare come Aldo sia l’uomo della propria classe: rifacendosi alla sociologia volgare, individuo e classe costituiscono per lui una “realtà meccanica”. Non possiamo pertanto sapere o intuire esattamente da dove è uscito Aldo, come ha potuto diventare quello che è (così è tenuto volutamente nascosto l’altro uomo, l’operaio che porta via ad Aldo Irma; e sappiamo qualcosa del passato di questa, e delle altre donne, attraverso alcune ricorrenti parentesi del dialogo). Il donde e il dove dei personaggi — oltre ad Aldo, i tre ritratti di donna: la zitella, la “benzinara”, la mondana, che pur vogliono nelle intenzioni dell’autore stabilire condizioni umane e un giudizio morale — sono sostituiti da un mero documentarismo, da una semplice descrizione di stati d’animo: non si rivelano, tutto sommato, al di sopra dell’episodico. (La stessa musica del resto, il pianoforte ricorrente, testimonia la natura degli stati d’animo).

La scelta di Antonioni non distingue infatti ciò che è essenziale e superficiale, decisivo ed episodico, importante e privo di importanza (privo di importanza […] è l’episodio del “vespista”, non decisiva la gara dei motoscafi, o la passeggiata dei “matti” in una atmosfera brumosa e rarefatta, ecc.) Film decadente, Il grido ha perduto — dal punto di vista soggettivo: respinto, come direbbe Lukacs — il principio di selezione o, che è lo stesso, lo ha sostituito con quello di una “condizione umana” eterna e immodificabile per principio, «onde la tendenza stilistica che ne deriva non può non essere, nella sua essenza, naturalistica». Regista “elegante” quanti altri mai (e in un’accezione non restrittiva), che considera il cinema e la storia del cinema — l’arte e la storia dell’arte — più come semplice espressione che come espressione e storia della società, che guarda o crede di guardare in un modo per così dire distaccato, Antonioni si situa nello stesso ambito di certa critica che pone al centro dell’analisi problemi stilistici e formalistici, «isola le esteriorità tecniche del modo di scrivere dal contenuto poetico, e le sopravvaluta enormemente, mentre rimane del tutto acritica di fronte all’essenza sociale e artistica di questo contenuto: sparisce così, da queste considerazioni estetiche, la vera demarcazione fra realismo e naturalismo, la presenza o l’assenza di una gerarchia nei tratti e nelle situazioni umane rappresentate».

In pochi autori come in Antonioni, e particolarmente nell’Antonioni di Il grido, la critica stilistica e linguistica è così stimolante, offre aspetti e motivi rivelatori; purtroppo essa non trova un adeguato equilibrio con la critica del “sentimento ispiratore”. Altro è la peculiarità dei modi di espressione riconosciuta propria di uno scrittore — annota il Fubini — altro la natura di quei modi, che possono essere artistici e non artistici: la coerenza dei modi di uno scrittore può essere il segno per eccellenza di una perfezione stilistica; e può essere il risultato di un programma, volontariamente perseguito. E già all’inizio, nei primi film di Antonioni, la coerenza dei modi espressivi era infatti un programma volontariamente perseguito: si poteva, e si può notare in lui, a esempio, la tendenza a sostituire l’inquadratura breve o media con quella lunga, il montaggio dei quadri con il montaggio nel quadro, senza taglio, la tendenza ad abolire, a diminuire gli stacchi. In Il grido, e più ancora in Le amiche, non si allontana da quel programma e nell’avvicinarsi ulteriormente alla qualità stilistica, si fanno più chiare, meno disperse, le ragioni dell’uso che fa delle inquadrature lunghe, i motivi che lo hanno indotto alla scelta di quelle inquadrature e non di altre, gli effetti infine che per mezzo di esse tenta di raggiungere : una narrazione che vuole svilupparsi all’interno, psicologica; tuttavia il gusto figurativo, le finalità figurative a sé stanti, hanno la loro grande parte. Si prendano le inquadrature finali, quelle dello sciopero. Aldo torna a Goriano, il suo paese; ha incontrato altre donne; ma l’idea di Irma non e scomparsa, e il lungo vagabondaggio ha termine con il suicidio, con il grido di Irma (viene la morte, e ha i suoi occhi). Nessuno si accorge di lui, del suo ritorno, eccetto Irma che lo rincorre, prevedendo la tragedia. Ed è interessante che così sia: gli altri hanno problemi diversi e non meno complessi da superare: l’esproprio delle terre, la solidarietà degli operai con i contadini: ma sono problemi, questi, che appaiono episodici e occasionali, quasi esterni all’economia del racconto: anche i legami tra la vita privata, personale, e la vita pubblica di Aldo e degli altri personaggi o figure, hanno un carattere accidentale, e quindi astratto e schematico; «ciò che istituisce il legame tra le due sfere — la pubblica e la privata — è un carattere qualsiasi, scelto a caso». Tutt’al più quella indifferenza, quella mancanza di funzione della necessità individuale e sociale, ribadiscono la natura di Aldo, la sua solitudine (che però è data, non spiegata). Ecco allora che risultano privi di un autentico significato, aggiunti dall’esterno, il riferimento all’alluvione a Porto Tolle, e il vecchio che canta con la bambina Pugnala il vigliacco borghese, o Andreina che esclama: «Non riesco a capire perché le cose vadano così male da queste parti. D’estate c’è lavoro anche per le donne, c’è la bieticultura, il lavoro per la canapa»; oppure l’ingegnere che dice: «Cosa vi interessa dei contadini, stanno meglio di voi»; e l’operaio che risponde: «Lei avrà ragione ingegnere, ma c’è la solidarietà».

Libero è soltanto chi si inserisce nella realtà e la trasforma, scriveva Pavese; è la morale di lavoro imparata su Melville e su Anderson che, annota Calvino, porta lo scrittore vicino a Marx: «vicino, non più in là»: proprio come è avvenuto nel cinema italiano migliore. Si diceva all’inizio che Il grido è un’altra sconfitta di Antonioni soggettista; questo film assume una dimensione più ampia nell’attuale situazione, simbolica diremmo: e forse non a caso esce nello stesso anno di Le notti bianche e di I sogni nel cassetto. Sia in Antonioni che in Visconti — nell’ultimo Visconti e nell’ultimo Antonioni — il ritorno all’uomo, l’andare verso l’uomo è soltanto apparente o unilaterale: il tema del destino e della solitudine torna in primo piano; in entrambi i film, che rompono l’equilibrio tra l’individuale e il collettivo, non c’è più speranza di uscire dalla solitudine, anzi questa porta come si è visto il protagonista di Il grido al suicidio. è un segno dei tempi? Un influsso degli eventi cambiato? (si ricordi comunque di Antonioni l’episodio di Amore in città: Tentato suicidio). Certo è passato l` euforico ottimismo” dell’immediato dopoguerra, e il cinema italiano oggi non sa più in che senso gli tocca lavorare; sembra che abbia perso la certezza di un tempo: che «l’ostacolo, la crosta da rompere» è «la solitudine dell’uomo, di noi e degli altri».

Nessuno forse più di noi ha avvertito al suo nascere una personalità così importante come quella di Antonioni (sin da Cronaca di un amore e dal documentario Gente del Po). Né vogliamo e possiamo negare oggi il grande talento, le possibilità raggiunte da questo regista e che in Il grido appaiono ancor chiare e inequivocabili, nonostante i limiti accennati, la mancata integrazione dell’individuale al sociale. Ma su questo talento, su questa personalità — e il talento e la personalità di Visconti di Le notti bianche — sovrasta un grave pericolo, cui si ricollega un altro dei motivi interni della crisi del nostro cinema. Che cioè la maturità che Antonioni e Visconti cercano sia una maturità mortale, in un certo senso quella stessa da Muscetta individuata nella maturità che cercava Pavese: «la rarefazione del contenuto in una perizia di soluzioni formali, di velocità di linguaggio, di “situazioni stilistiche” ». è del resto sintomatico il fatto che per la prima volta in Visconti il contenuto e la forma non nascano dal provarsi continuo dell’autore con i grandi problemi del suo tempo. Sembra davvero che il cinema italiano, anche nei suoi esponenti maggiori, abbia perso la «fresca capacità di ricezione per il nuovo che si protende nel futuro» […]

Da Cinema Novo, a. VI, n. 116, 15 ottobre 1957


Gian Luigi Rondi

Siamo sul Po, in uno di quei paesini affogati di nebbia in inverno e sempre sotto l’incubo delle alluvioni in autunno. Vi incontriamo un uomo che da vario tempo vive con una donna da cui ha avuto una figlia. Non si possono sposare perché la donna ha un marito andato via molti anni prima. Un giorno però arriva la notizia che questo marito è morto. Ora tutto si potrebbe sistemare, ma la donna ha un altro amante, non ama più il primo e pur avendo mentito fino a quel momento non ha coraggio adesso di mentire di fronte al matrimonio e dice tutto. L’uomo ne è sconvolto, perde di colpo ogni ragion d’essere e scappa via, con la figlia, per paesini e città, lungo il fiume, incapace di adattarsi, incapace di accettare la vita. Incontra altre donne: in ognuna cerca lei, la fedifraga, e ognuna perciò presto o tardi lo delude. Così dopo tanto peregrinare, eccolo di nuovo al paese, sorretto da una assurda speranza. Ma è l’ultima: l’amante si è sposata e ha anche un altro figlio. Lui allora si uccide.

Tanta disperazione, tanto cieco dolore, tanta sete di annientamento totale sono stati espressi da Michelangelo Antonioni più con il senso della cornice e dell’ambiente che non con l’indagine dei singoli personaggi. Le pagine più vive e poetiche del suo film, così, sono quelle in cui il tedio atroce del protagonista scaturisce da quei tetri panorami fluviali, da quella neve, da quel fango, da quelle grigie e desolate campagne; oppure quando lo si ritrova, sotto altre forme, in figure di secondo piano, incontrate per caso, in situazioni di contorno, in uomini e donne visti quasi di sfuggita, ma tutti più o meno dilaniati dalla stessa pesante solitudine, dall’identico clima di livida sfiducia. Sulle figure di primo piano, invece, il dramma perde di nettezza e convince di rado all’emozione. In un certo senso, così, il film si dovrebbe dire “mancato” perché il disegno meno valido è proprio quello dei personaggi principali, ma a farlo considerare con doveroso interesse c’è sempre quella sua alta se pur disperata effusione lirica, quelle sue intenzioni drammatiche così nude, così lucide, così disadorne e quegli sprazzi di conclusa poesia nell’evocazione ambientale. Non è moltissimo, ma è sempre testimonianza concreta di un autore dalle aspirazioni non comuni, spesso forse troppo ambiziose, ma certamente mai convenzionali o meschine. Degni di stima anche gli interpreti, da Alida Valli a Betsy Blair. Il meno efficace, forse, è proprio Steve Cochran, il protagonista.

Da Il Tempo, 30 Novembre 1957


Giuseppe Marotta

Il Po di Michelangelo Antonioni è fosco, tetro, gelido al punto che si griderebbe ad ogni barcaiuolo affiorante da quelle brume: “Ehi, Caronte!”. Ma stiamo ai fatti. Irma, chiamata non so da quale funzionario, apprende che suo marito è defunto a Sydney. Piange e rincasa. È vedova, ma le restano Aldo e Rosina, ovvero un amante e la bambina che, cinque o sei anni prima, ebbe da lui. Mah. Pare che nella Bassa ferrarese buongiorno significhi veramente buongiorno. Infatti ad Aldo, che subito le propone il matrimonio, la donna obietta: “No, perché da quattro mesi ho un altro”. Accidenti. Accostare un fiammifero o una calcolatrice meccanica alle vene di Irma dev’essere egualmente pericoloso.

Invano Aldo tenta un rilancio, comprandole una cintura, (di pettegolo cuoio, non di inflessibile ubicato acciaio medievale): Irma non cede e l’uomo, dopo averla finalmente ridotta a una gerla di schiaffi, piglia Rosina e fila. Questa bambina è un robot; non chiede, non protesta, non fiata… Cammina e pensa: “Quando avrò sedici o diciassette anni, papà, vedrai con chi vado”. Sarà la canapa? Qui le donne, secondo Il grido, ignorano i mezzi termini: letto spalancato e sempre l’ultimo ha ragione. Anima e corpo esse non li spendono come noi, li dilapidano.

Sentite. La prima sosta di Aldo è a Pontelagoscuro, dove lo ospitano due sorelle: Elvia sui trenta, Edera sui diciotto. Con la maggiore egli ebbe già del tenero, e va bene; la minore torna alticcia da una gara paesana di bellezza, gli farfuglia (testuale): “Un cretino mi ha detto che sono fresca e profumata”, lo rovescia sulla branda. Aldo e Rosina fuggono.

Peregrinazioni, sui camion e a piedi. Incontrano poliziotti stradali, incontrano banchi di nebbia, ciclisti, paracarri, galline, autocisterne, dame in fuoriserie, perfino matti che i guardiani conducono a spasso dicendo: “Non temete, sono pacifici”. Aldo è infine attirato da una florida benzinaia. Che tipo, è questa Virginia. Se le chiedono benzina ricca di ottani, replica: “Eh… di super basto io”. Fa per 1400 lire il “pieno” a un’auto di grossa cilindrata. Un motorettista, in cambio, la paga con un gesto irriferibile e si dilegua. Occorre quindi un ganzo; Virginia concede uno sgabuzzino ad Aldo, esclamando: “Pretendeva forse di venire nella mia camera? Furbo, lei”.

È tanto volgare, quanto scema. Eccola amante di Aldo, che però non smette di friggere nell’olio di Irma. Ciò lo costringe ad allontanarsi. Cammina cammina, ottiene lavoro su una draga e conosce la prostituta Andreina, malata in una capanna. Dalla strada il medico, fermando per un attimo l’utilitaria, grida: “Andreina, hai la diarrea?” e scappa. Aldo, che lo obbliga con la forza a visitare Andreina, ne risponderà ai carabinieri! Dio del cielo. Aldo racconta la sua tenace passione, quanto bene vuole ad Irma, a Rosina; e la bagascia fa: “Porca l’oca. Appena sarò un po’ libera voglio avere anch’io una bambina. Una volta sono rimasta incinta, ma mi è andata storta”. E via dicendo. Poi Aldo, che non regge più, torna a Goriano. Ma Irma ha già un marmocchio del terzo sangue; Aldo si uccide e a lei sfugge un urlo: di qui il titolo (enigmatico, finora) del film.

Caro Antonioni. Giuro che non ho nulla contro di te, anzi. Il grido è, visivamente, perfetto; ma è anche il giardino d’infanzia di ogni narrativa. Fili di racconto dispersi nella bora di una incompetenza sconcertante, inaudita, vi cercano invano la sottile cruna dell’organicità, della chiarezza, della verosimiglianza. Tanta carne al fuoco e mezza cipolla nel piatto. La bellezza, l’evidenza, il sentimento, altro che, degli sfondi, macchiati, raggelati dall’incongruenza e dall’ingenuità dei fatti e dei personaggi. Dammi retta, Antonioni… i critici indulgenti e i premi del governo ti uccidono, mentre io ti sono amico e ti guarisco dicendoti: come De Sica, trova uno Zavattini e aggrappati a lui. Non c’è salute, Michelangelo, senza l’ordine e la chiarezza di Ladri di biciclette e di Umberto D. O l’uomo continua e riassume il tempo e le cose, nei film, o i film sono vuoti di cose, di tempo e di uomini. Hanno interpretato Il grido, né in meglio né in peggio, Steve Cochran, Alida Valli, Dorian Gray, Betsy Blair e Lyn Shaw.

Da Giuseppe Marotta, Marotta Ciak, Milano, Bompiani, 1958


Filippo Sacchi

È un piccolo bravo Festival quello di Locarno. Coinvolto suo malgrado nel complicato conflitto commerciale che da anni si dibatte tra noleggiatori svizzeri e produttori europei, e perciò esposto a veti e sabotaggi da parte delle organizzazioni ufficiali, esso è un po’ un Festival alla macchia, inviso a ministri e a direzioni generali, e perciò istintivamente simpatico a coloro che considerano la presente dittatura delle burocrazie cinematografiche governative in tutti i paesi come la peste che finirà per uccidere il cinema. È appunto perché è un Festival birichino che ha potuto permettersi una cosa che sembra straordinaria e che invece dovrebbe essere normalissima, se la libertà d’opinione e di espressione al cinema non fosse favola, cioè di presentare un’opera cinematograficamente importante senza tagli di censura.

Il film era Il grido di Antonioni, intorno a cui si sapeva che erano sorte in sede di censura controversie vivacissime. Ancora una volta gli spettatori accorsi al richiamo del prezzo proibito dovettero domandarsi se valeva la pena di creare (dopo le Notti di Cabiria) questo nuovo caso di pesante “imprimatur”. Perché concediamo pure che si debbano accorciare un paio di approcci amorosi prolungati, un po’ troppo, quasi sino al limite oltre il quale incomincia l’amplesso, e magari anche si tagli (ma quanta piccineria!) la curiosa scenetta del venditore ambulante di Madonne, dov’è tutta questa materia di scandalo? Ci dissero che uno dei passaggi incriminati è quello in cui Resina, la bimba, scopre dietro una scarpata il babbo steso accanto all’amante, il cui disordine, nel riposo, denuncia i segni di una trascorsa intimità. Ma questo vuoi dire non capir niente. Ma se proprio in questo episodio e in questo choc è la vera profonda amarissima moralità del film. Rosina il frutto di una delle centomila unioni illegittime che rallegrano il nostro moralissimo Paese, Aldo, operaio in uno zuccherificio del Polesine, e Irma, moglie di un emigrato in Australia, convivono da sette anni quando arriva a Irma la notizia che il marito è morto. Ed ecco che, proprio al sospirato momento di legalizzare la loro unione e dare una posizione regolare a Rosina, Aldo si trova davanti a una rivelazione tremenda: Irma non lo sposerà perché ama un altro. Suppliche e percosse sono inutili. Aldo prende la bimba e parte. Va a ritrovare la onesta e gentile ragazza che amava prima di incontrare Irma: ma certe cose non si riprendono. Riparte in cerca di lavoro, e il caso lo scarica un giorno in una stazione di servizio, tenuta da un’ardita e provocante benzinara che si incapriccia di lui e se lo piglia come aiuto e come amante.

Ma c’è Rosina. Ogni giorno qualcosa viene a fargli sentire che non potrà mai da solo allevare Rosina. Poi arriva la terribile scoperta. Quando rialzandosi confuso e sconvolto egli vede Rosina fuggire, capisce che ha perduto tutto. Allora rimanda la bimba alla mamma. Rimanda la bimba, ma tronca con Virginia e va via. Questo estremo soprassalto di pudore e di rimorso per cui, solo perché quella triste passione ha mortificato la sua bambina, e quasi per purificarsi tardivamente agli occhi di lei, abbandona l’unica donna che poteva nella rabbia dei sensi fargli dimenticare Irma, perdendo il solo lavoro sicuro, è un grande, bellissimo movimento d’anima, un disperato atto di onestà. Ebbene, tutto ciò è irreparabilmente cancellato e distrutto se si sopprime quella scena. Arrivo a dire che, sotto questo aspetto, anche l’arditezza critica di certi passaggi diventa giustificabile: sì, perché fa più cocente, dopo la vergogna di lui, più misera la povera animalesca foia dei grandi davanti a quelle due chiare pupille di bimba.

E poi, sopprimendo quella scena, si ammazzerebbe il personaggio di Rosina. Ora, questa bimbetta che vediamo per tre quarti del film, coi suoi due scopini biondi, il suo intelligente musetto slavato, sgambettare accanto al suo papa sullo sfondo di quel desolato paesaggio alluvionale, è la vera protagonista del film. È da sola una creazione: per trovare un altro personaggio infantile così assoluto e poetico bisogna risalire alla Brigitte Fossey di Giochi proibiti (questa è polesana e si chiama Mima Girardi). E infatti quando Rosina esce, il film cade immediatamente. L’episodio della quarta donna, Andreina, volutamente introdotto ed esacerbato per spingere Aldo al collasso finale, per quanto pieno di acutissime osservazioni documentarie, invece di accelerare il dramma, lo devia negli ardui sentieri di una troppo sottintesa protesta sociale. E la catastrofe arriva melodrammatica e scontata.

Non importa, anche così Il grido rasenta almeno per metà il capolavoro. Ci sono pezzi degni di un classico. C’è tutto il mondo del basso Polesine, trasferito intero sullo schermo coi suoi paesi, I’ i suoi orizzonti, le sue genti. C’è una folla di personaggi unici è indimenticabili, come il tragico Aldo di Steve Cochran così semplice e predestinato, la formidabile Virginia di Dorian Gray (una vera e propria rivelazione), la fiera, dolente e delicatissima Elvia di Betsy Blair; e infine quello straordinario tipo che è il vecchio Campanili, un paesano polesano preso tal quale, col suo cappello e tutto, che è un vero monumento di natura: i suoi colloqui con Rosina, sono pezzi unici. Insomma, se l’arte ha qualche diritto, questa è arte.

Da Al cinema col lapis, Milano, Mondadori, 1958


Vittorio Spinazzola

Potremmo dire che Antonioni, d’altronde, ha affrontato metaforicamente il tema dell’impotenza maschile, intesa in senso duplice: fallimento del desiderio di imporsi amorosamente sulla donna e rifiuto di accettare la sconfitta, riconoscendo la legittimità della reazione di lei.

Lo stesso motivo viene ripreso e ampliato nel miglior film in assoluto girato da Antonioni, Il grido. A esaltarlo provvede anzitutto la scelta provocatoria della qualifica sociale da attribuire al protagonista. L’aver fatto di Aldo un operaio implicava un riconoscimento, un omaggio: «Gli operai vanno al nocciolo delle questioni, all’origine dei sentimenti. Tutto è più vero (in loro)», ebbe a dichiarare il regista a un intervistatore, durante la lavorazione del film, nel 1957. Uscito dal chiuso delle sale dove il mondo borghese si addestra all’ipocrisia, all’ambiguità, al compromesso, Antonioni si è avviato per i paesi, lungo le strade di campagna e gli argini dei fiumi, nelle balere e gli ospizi, fra prati e canneti, dove la gente sa essere sino in fondo coraggiosamente se stessa. Il dato sociologico mira a conferire il massimo risalto al discorso esistenziale; da ciò il valore di scandalo dell’ambientazione popolare, portato al culmine nelle ultime sequenze: Aldo, tornando a Gordiano, trova i compaesani impegnati in una manifestazione di protesta, e resta indifferente e non offre solidarietà, preso com’è dall’ansia di rivedere la sua donna; quando infine la ritrova, ma ormai perduta per lui, si allontana e si uccide, gettandosi proprio dall’alto della fabbrica dove ha inutilmente lavorato. Questo epilogo può essere letto in chiave morale: ecco la punizione spettante a chi si lascia dominare da una passione privata sino a estraniarsi dalla comunità e imprigionarsi in una solitudine che non può non segnare la condanna dell’io. Ma la vicenda umana viene registrata documentariamente, come un accadimento di natura, con un rifiuto di motivazioni coscienziali, e senza alcuna ricerca dei perché.

Due fatti ci stanno davanti, la fine dell’amore nell’animo di una donna e la sua perduranza nel cuore di un uomo: non c’è bisogno di spiegazioni causali. Il prologo del racconto sottolinea anzi esaspera paradossalmente questi elementi di certezza, non verificati e non verificabili ma del tutto sufficienti: Irma abbandona d’un tratto l’amante con cui è vissuta otto anni e da cui ha avuto una figlia; lo congeda proprio quando la loro unione può venire legalizzata, solo dicendogli che un altro affetto la occupa. Da parte sua, Aldo cerca di riconquistarla solo adducendo il sentimento che continua a provare per lei: quindi ricusa di accettare la diversa decisione della donna per quello che è, un termine di realtà, una cosa. Così lo scontro di caratteri acquista subito un’incandescenza, appunto, cosale, che d’altronde sublima la qualità umana dei personaggi: l’una non poteva umiliare la sua dignità continuando a vivere con un uomo che non amava più; per lo stesso motivo, l’altro non potrà unirsi ad altre donne, lontano da quella che incarna tuttora il suo amore.

Da queste premesse, il racconto della macerazione interna di Aldo si sviluppa tutto sul piano dell’evidenza oggettiva. Il protagonista abbandona il paese e cerca di dimenticarsi fra gli altri, in un vagabondaggio senza frutto; poi il balenio d’una speranza illusoria, il ritorno al paese, l’ultimo disinganno, la morte, e il grido di Irma, spettatrice impotente. Il lungo monologo interiore è completamente trasposto nella cronistoria del viaggio, sulle occasioni apparentemente casuali degli episodi di vita quotidiana che il personaggio attraversa. Al consumarsi dell’avvilimento di Aldo, espresso nei suoi approcci con tre donne simboleggianti altrettante sempre meno sicure condizioni umane, fa riscontro il declinare del suo itinerario geografico sempre più giù verso le foci del Po, dove alla massima apertura del paesaggio si contrappone la chiusura definitiva dell’uomo nella sua solitudine.

Forse gli ultimi tratti della parabola rendono troppo palese il desiderio di una compiutezza strutturale che esaurisca tutte le possibilità di fuga dal proprio sentimento insite nell’animo di Aldo: alla schematicità dell’asse narrativo risponde infatti una fioritura di aneddoti pittoreschi nei quali il dramma, in vece di concentrarsi, si disperde; la catastrofe rischierebbe di giungere emotivamente scontata se il ritorno a Gordiano non rinnovasse d’un tratto la situazione, ridando velocità al ritmo e precipitandolo in poche sequenze all’epilogo. Il grido rappresenta un punto fermo in una carriera svoltasi sino allora raccoltamente, in disparte. Consapevole della chiarezza raggiunta sul significato della sua ricerca, Antonioni volle dare al film un valore di esemplarità rigorosa. Ma l’accoglienza del pubblico non avrebbe potuto essere più glaciale. D’altronde il discorso del regista era giunto a un grado di assolutezza che ambiva a essere definitiva: la crisi dell’individualismo come crisi dell’individuo, condannato a subire l’esistenza come esilio da una patria sconosciuta. Antonioni cercherà di attestarsi su questo alto ma precario equilibrio; e, nel mutato clima degli anni sessanta, la sua opera otterrà finalmente ampia udienza: ma arricchendosi e complicandosi di risonanze effettistiche, nelle quali la purezza di linee dei primi film subirà un ammorbidimento indulgentemente compiaciuto.

Giorgio Spinazzola, Cinema e pubblico, goWare. 2018, pp. 172–174


Georges Sadoul

Un operaio, Aldo, (Steve Cochran) abbandonato dall’amante (Alida Valli), se ne va portandosi via la loro bambina. Vagando nella pianura padana, ricerca un suo vecchio amore (Betsy Blair), poi va a vivere con una distributrice di benzina (Dorian Gray). Ma si lasciano, e l’uomo, tornato presso l’amante che non sa dimenticare, si uccide.
Una ricerca straziante in un paesaggio desolato. Alla conclusione, la morte del protagonista coincide con una manifestazione operaia contro la costruzione d’un aeroporto militare nella zona. Così l’autore ha definito il suo film: “In Il grido, in cui si ritrova la tematica a me cara, pongo in modo diverso il problema dei sentimenti. Prima i miei personaggi si compiacevano spesso delle loro crisi sentimentali. Qui ci troviamo invece di fronte a un uomo che reagisce, che cerca di spezzare la sventura che lo perseguita. Ho trattato questo personaggio con molta maggior pietà. Ho voluto che il paesaggio in cui si muove, usato per meglio definire uno stato d’animo, fosse il paesaggio della mia infanzia, visto con gli occhi d’uno che torna a casa dopo un’intensa esperienza culturale e sentimentale”. Una certa adesione al personaggio di Aldo, e un cupo pessimismo caratterizzarono questo film, che irritò i critici italiani per aver trattato fuori dagli schemi un ambiente operaio. È nondimeno uno dei suoi film più grandi, ora ampiamente rivalutato.

Da Dizionario dei film, Firenze, Sansoni, 1968


Vito Zagarrio

Il grido è un film mobile, un film in viaggio: verso gli anni ’60, verso la definizione di una poetica, verso una ridefinizione della condizione e della cultura moderna, verso la società della tecnologia avanzata e del boom. In viaggio attraverso la storia, storia degli anni ’50 e della nuova società di massa italiana, storia delle costanti forti dell’ideologia, delle rappresentazioni collettive, dei miti culturali ed economici emergenti.

Ma viaggio anche attraverso il microcosmo del delta padano, su tutte le strade e con tutti i mezzi possibili, un’autocisterna del nuovo petrolio italiano, o il pulmann che va ad Adria e Goriano. Un film on the road, dunque, in molti sensi: fatto di passaggi, di autostop, di inseguimenti di motociclette e sidecars, lunghi viaggi in autobus e carretti, corse di motoscafi, peregrinaggi a piedi, lo stesso fiume che sta lì, immobile come una grande strada d’asfalto. Ma anche un film in viaggio, travelling su una strada cominciata anni, o forse ere, prima, ma poco distante, la statale Ferrara-Padova su cui Gino e Giovanna hanno consumato amore e morte in Ossessione. Il grido, dunque, in viaggio verso gli anni ’60 e oltre, da Ossessione a Professione: reporter, in inglese significativamente The Passenger. Road movie, lo chiama tout court Withcombe in The New Italian Cinema, uno dei già numerosi libri americani dedicati al cinema italiano.

Non a caso, Il grido è stato il primo film di Antonioni ad essere distribuito in America. Cronaca di un amore e La signora senza camelie sono arrivati solo alla fine degli anni Sessanta. Non a caso, dico, perché Il grido èun film che, oggi, può apparire “americano”, al di la dello stereotipo dei generi. Americano come è americano Wenders, americano come lo èil protagonista di Alice nella città, anche lui viaggiatore perplesso, con una bambina, occhi nuovi su uno strano pianeta in attesa di una nova.

Americano come è americano Ossessione, che Il grido cita espressamente, scena madre con cui il film di Antonioni si misura e si interroga quasi alla maniera di un film saggio.

Ripercorrendo i tragitti culturali, le mappe geografiche e ideologiche del progetto Ossessione, Antonioni riallaccia il romanzo europeo alla narrativa americana; il nuovo régard al vecchio mito che Antonioni praticava nelle sue scritture su «Cinema».

L’impressione che si ricava rivedendo Il grido oggi è che Antonioni riesca ad anticipare il dibattito della critica di venti anni, che riesca a leggere Ossessione in chiave non-neorelistica, che ne faccia emergere, forse inconsapevolmente, tutti i lati — la tradizione culturale, il milieu sociale, il background mitologico, l’intervento sul reale storico — che meno fanno parte della nozione di neorealismo così come essa ha preso corpo e forma mitica dopo Rossellini e De Sica-Zavattini. In questo senso, il viaggio de Il grido verso Ossessione è anche un viaggio lontano dal neorealismo fatto scuola, modello, standard. Tanto più perché viene da lontano, viene dalle elaborazioni e suggestioni del ‘43-’48 di Gente del Po, film girato “sull’altra sponda del Po”, ma convergente e complementare, rispetto a Ossessione, sulla stessa riva poetica, sullo stesso spartiacque. Viene dal ’54, prima della realizzazione de Le amiche, prima, se si vuole accettare una data convenzionale, della “crisi” del neorealismo. E viene realizzato in piena crisi del movimento e della scuola, in un momento storico estremamente intenso, la metà degli anni Cinquanta, la rifondazione dei partiti come partiti di massa e la nuova consapevolezza del mutato tessuto sociale del paese, gli indizi del boom, l’Ungheria, le tensioni ideologiche de Le ceneri di Gramsci. Da Ossessione a Il grido c’è tutta la storia, messa in atto delle premesse, ascesa e crisi del neorealismo, o meglio di un quindicennio di cinema italiano. E Antonioni ne prende atto, registra nascita e morte — del genere come del genere umano — come una delle silenziose catastrofi di cui sono popolati i suoi film. Catastrofi o epifanie, ne Il grido, sono l’incidente o suicidio come liberazione, come salto nel vuoto di un iperspazio, spazio nuovo della conoscenza e della sensibilità; la manifestazione di piazza contro la nuova pista aerea militare — che contiene e contrappunta il ritorno di Aldo -, Goriano come Comiso, in un’atmosfera postmoderna popolata di sopravvissuti, in un clima da dopoguerra mondiale (seconda o terza?) denso di nebbie padane e di fumi catastrofici; la tensione interna delle sequenze, sempre in ansia, sempre in attesa, di un evento di svolta, alla singola inquadratura o alla sequenza intera.

Ma alle catastrofi, Aldò — e Antonioni — assistono con occhio distaccato, assente, automatico; come da automa, da zombie è l’espressione e il gesto di Aldo poco prima di lasciarsi cadere dalla torre, prima di lasciarsi morire. E la m.d.p. è lospettatore freddo, l’osservatore distante, non ironico però, ma attento e partecipe, con rispetto se non con affetto.

La m.d.p. de Il grido infatti non è mobile all’eccesso come i personaggi, le situazioni, i capitoli della multitrama del film. In un travel film — viaggio straordinario all’interno di un fazzoletto di terra, all’interno di un manoscritto e di una bottiglia di vetro, viaggio tra piccole stazioni dove il tempo e lo spazio però si dilatano — in un travel film, dicevo, ci sono pochi travelling shots, le mobilità americane dei carrelli, delle gru e dei dolly sono limitate e sobrie. Al loro posto, un’osservazione da lontano, ma accurata, determinata. Non un pedinamento sull’uomo, non uno sbirciare dal buco della serratura alla Zavattini, ma una contemplazione nobile che tutto riporta alle razionalità matematiche di un classicismo rinascimentale. Il ritmo e l’armonia del dramma quotidiano.

Prendiamo le sequenze iniziali, dai titoli di testa al primo interno della casa di Irma; vero e proprio inizio della storia.

Nella forma di ripresa e nel montaggio delle inquadrature c’è un ritmo preciso, da solfeggio musicale: C1., m.d.p. fissa, pausa, panoramica a destra; C1., m.d.p. fissa, pausa, panoramica a sinistra; C1., campo fisso, panoramica. I personaggi appaiono, la m.d.p. sembra accorgersi di loro un attimo in ritardo, poi li segue in modo quasi spietato, ma solo girandosi sul suo asse, solo voltando la testa. Non si sposta, non si commuove, non si avvicina il piano della m.d.p. e dello spettatore. I personaggi determinano il campo con il loro movimento e non è, viceversa, la macchina. Tranne in pochi casi la m.d.p. è un occhio freddo che registra la realtà. Una realtà, però, volutamente artefatta, volutamente messa in scena.

«Il soggetto de Il grido mi venne in mente guardando un muro» — scrive lapidario Antonioni… — «Londra 1952. Un vicolo cieco. Case di mattoni anneriti. Un paio di persiane dipinte di bianco. Un fanale. Un tubo di grondaia verniciato di rosso, molto lucido. Una motocicletta coperta da un telo, perché piove. Voglio vedere chi passerà da questa strada che ricorda Charlot. Mi basta il primo passante. Voglio un personaggio inglese per questa strada inglese. Aspetto tre ore e mezza. Il buio comincia a disegnare il tradizionale cono di luce del fanale quando me ne vado senza aver visto nessuno. Io credo che questi piccoli fallimenti, questi vuoti, questi aborti di osservazione, siano tutto sommato fruttuosi. Quando ne abbiamo messi insieme un bel po’, non si sa come, non si sa perché, viene fuori una storia. Il soggetto de Il grido — appunto — mi venne in mente guardando un muro».

Nella sequenza iniziale c’è la stessa forma di osservazione, o di aborto di osservazione, personaggi per una strada del Polesine, sotto vuoto e nella nebbia come fosse quella Londra borghese, in attesa di un avvenimento, di una catastrofe. Che può essere una donna che lascia un uomo per un altro uomo; oppure una grande alluvione. Ma le catastrofi sono anche positive, come le morti. «Speriamo — dice un vecchio che si affaccia alla porta di Irma — che anche questa alluvione diventi bella grossa, come quell’altra, che ha portato via un po’ di vecchio e portato un po’ di nuovo».

È la morale apocalittica del vecchio alla porta, registrata anch’essa come fatto quotidiano, in maniera candida e illuminata. Con la naivéte incantata degli occhi di Rosina, o del vecchio-bambino, ed anche con il cinismo disincantato del borghese, dell’illuminista, del tardo rinascimentale.

«Pensate un numero, raddoppiatelo, triplicatelo, elevatelo al quadrato. E cancellatelo. Sono sicuro che potrebbero diventare il nucleo, o almeno il simbolo, di un curioso film umoristico, indicano già uno stile» –scrive Antonioni, quando racconta di aver pensato di sceneggiare l’Introduzione alla filosofia matematica di Bertand Russel, libro serissimo, ma ricco di spunti comici. «Il numero due è un’entità metafisica di cui non saremmo mai sicuri che esiste realmente e se l’abbiamo individuata». Affermazione allucinante, dal punto di vista del numero due. Di un numero due protagonista.

Bene, Aldo e il numero due della storia de Il grido. Raddoppiato, triplicato, elevato al quadrato. E poi cancellato. Uno dei numeri possibili, l’operaio dello zuccherificio di Goriano, uno dei mancati protagonisti di Tentato suicidio, poniamo. Un uomo qualunque, preso dalla strada, come nei canoni del neorealismo, ma messo in una condizione ai confini della realtà, come nei capolavori di Road Serling o Richard Matheson.

Questo numero due qualsiasi viene strappato dal suo felice nuovo eden (la babelica torre dello zuccherificio) ed espulso dal paradiso terrestre. Un nuovo ciclo biblico, o mitologico, si apre (sette anni, sette anni con insistenza simbolica, è durato il rapporto con Irma) un pellegrinaggio costellato di tappe di sofferenza e di conoscenza, stazioni di una via crucis popolata di Maddalene, Irma, Virginia, Elvia, Edera, Andreina, Rosina. E poi scompare, cancellato. Cancellato dal proprio malessere, cancellato dal malessere della condizione postmoderna.

Resta il grido finale, un grido che viene anch’esso da lontano, Munch e l’avanguardia, e ritornerà nella cultura degli anni ’60. Anche soffocato come un lamento, nella cupa nave che approda, nella rada di Deserto rosso.

Da Messi in scena, Ragusa, Libroitaliano, 1996.

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