Certo, il deserto doveva avere un posto tutto speciale nell’immaginario di Antonioni.
Fosse il deserto color ruggine di una Ravenna stravolta dall’industrializzazione, o il deserto bianco della Death Valley o le dune dalle forme sensuali del Sahara percorso dal fuoristrada di David Locke in Professione reporter.“
“Il deserto rosso” è il film più bello e ispirato di Antonioni non foss’altro per l’uso del colore da parte del grande maestro ferrarese. Una scoperta da pittore, più che da fotografo o regista cinematografico.
Le immagini del film sono una vera e propria galleria d’arte moderna. Purtroppo gli attori protagonisti non sono all’altezza del compito, mentre i personaggi di contorno sono più a loro agio e danno al film un senso di verità in mezzo a tutti quei fondali ridipinti.
Un film che la critica del tempo non poteva capire e non capì tanto era avanti il linguaggio filmico di Antonioni non solo per il panorama italiano, ma per quello mondiale.
Gian Luigi Rondi
Il deserto rosso, di Michelangelo Antonioni: un’opera, sotto certi aspetti, notevolissima e degna d’ogni più rispettoso consenso, anche se suscettibile di talune riserve.
Vediamo, per prima cosa, la vicenda (scritta, oltre che da Antonioni, da Tonino Guerra). Siamo a Ravenna, oggi. La città antica, la pineta, la splendida natura attorno, sembrano distrutte; su tutto e su tutti dominano infatti grandi fabbriche che sembrano aver instaurato con assoluta prepotenza il regno della civiltà industriale. Giuliana, la protagonista, è moglie di un dirigente di una di queste fabbriche; ha avuto, tempo prima, un incidente di auto e questo, pur senza aver lasciato conseguenze nel suo fisico, l’ha molto scossa nella psiche; è stata in clinica per qualche tempo ed ora, pur essendone stata dimessa, continua a vivere in un clima di tensione, di esasperazione e quasi d’incubo che può essere benissimo definito nevrosi.
Nessuno sembra poterla aiutare in quella situazione, né il marito, che è un individuo del tutto semplice e normale, quasi comune, né il figlio, un bambinetto da cui Giuliana non riesce a trarre nessuna delle gioie proprie alle madri, né, naturalmente, l’ambiente attorno, quella città industrializzata dove le cose hanno l’aria di predominare duramente sulle persone e dove un rigido, desolato inverno sembra a sua volta predominare sulle cose.
A un certo punto la donna parrebbe richiamata se non proprio alla realtà, almeno ad un certo interesse per i suoi contorni: conosce infatti un amico del marito e, assetata com’è d’affetto, gli si rivolge con tutto il calore e l’arsura delle sue insoddisfazioni e con tutta la trepidazione della sua costante fame d’aiuto e di protezione. L’altro le corrisponde, sulle prime dolorosamente incuriosito da quello stato, poi fisicamente travolto da quella necessità di appoggio che può anche essere scambiata per passione amorosa. Entrambi hanno appena ceduto ai sensi, però, che Giuliana si ritrova ancora una volta desolata e insoddisfatta, piena di incubi e di paure, avida di fughe e di evasioni; anche quella esperienza, cioè, l’ha delusa, ed eccola tornare al ritmo doloroso della sua dolorosa vita d’ogni giorno; tanto normale, in apparenza, ma tanto dilaniata e minata nell’intimo dalla nevrosi che la divora e che le fa guardare con occhio diverso tutto il mondo che l’attornia.
Ancora incomunicabilità, perciò, secondo le tematiche care ad Antonioni, ma una incomunicabilità, questa volta, che anziché essere il retaggio fatale della nostra condizione umana contemporanea (come nella celebre trilogia Avventura-Notte-Eclisse), sembra nascere da un dato molto preciso, una nevrosi, e non una nevrosi provocata dal nostro modo di vivere, o da un ambiente, o da un rapporto difficile, ma puramente e semplicemente, vorrei dire, traumaticamente, da uno choc seguito ad un incidente di auto.
Confessiamo che proprio dalla concretezza realistica di questo elemento nascono le nostre riserve perché se abbiamo sempre creduto in Antonioni, poeta dei mali psicologici del nostro tempo, specchio, forse parziale ma certo lucidissimo, della nostra epoca, ci riesce più difficile credere in un Antonioni che aspira a diventare il poeta delle malattie psichiche di questo stesso nostro tempo; o almeno, anche credendovi ancora, ci appare meno alto e meno ispirato.
A parziale giustificazione di questo “volo” più dimesso, però, va detto che l’interesse che sembra indirizzare Antonioni ad analizzare i sintomi e le conseguenze di una nevrosi, intesa in senso patologico, non solo non è diverso da quello che lo induceva ad analizzare l’incomunicabilità psicologica e morale, ma forse è suscitato proprio da quello; quasi, dopo tanti mali astratti, egli abbia sentito il bisogno di analizzarne uno concreto, direttamente colto nel vivo di una realtà spicciola e comune.
Questa giustificazione trova conferma nel modo con cui Antonioni ha tradotto anche questa volta sullo schermo il suo racconto, un modo che, quanto a fervore espressivo, non ha nulla da invidiare ai suoi film precedenti, che anzi supera per una novità degna della più viva ed ammirata attenzione: l’impiego del colore, con un gusto e con delle intenzioni del tutto nuove al cinema e con effetti a tutt’oggi mai raggiunti sullo schermo.
Vediamo, adesso, questo “modo”. A parte la nevrosi e a parte le riserve che ci suscita, il modo con cui Antonioni ha studiato questo suo nuovo contrasto fra una donna e i sentimenti che prova e che desta, in un ambiente cui non riesce più ad aderire, ripete e, se possibile, persino con maggiore austerità, le esperienze narrative dell’Eclisse. Assoluta essenzialità di linguaggio, cioè, e, d’altro canto, assoluta libertà da ogni convenzione drammatica. Le situazioni, infatti, la loro preparazione, i loro sviluppi, non obbediscono mai alle esigenze comuni del “compiuto” e del “risolto”, ma ci vengono prospettate solo in parte, spesso senza inizio né fine, non interessando mai all’autore il significato o il loro peso narrativo quanto piuttosto, ed esclusivamente, gli stati d’animo racchiusi nelle loro pieghe e via via dipanati nel corso del racconto non in base ad un ordine logico dei fatti, ma sempre e solo in base ad un processo di evoluzione psicologica dei personaggi: chiamati costantemente in causa in quanto possessori di un sentimento e non mai in quanto protagonisti di un’azione (l’azione c’è, ma viene dopo, ed è solo la cornice dei pensieri, dei desideri, dei moti del cuore).
Questo sistema, figurativamente risolto con un seguito di immagini preziosissime e quasi sempre statiche (ricche di un ritmo interno, ma sorrette esternamente da un respiro lento e disteso), rischia forse di negare al film le cadenze consuete dello spettacolo cinematografico normale, ma non v’è dubbio che le sostituisca con una concentrazione drammaticamente e psicologicamente così intensa da pretendere senza fatica, anche con queste remore, l’attenzione dello spettatore provveduto ed attento.
Anche perché — e qui è il pregio più suggestivo del film, forse il segreto più nobile della sua vitalità artistica — Antonioni, per dare la preponderanza agli stati d’animo sui fatti, ha chiesto al colore (operatore Carlo Di Carlo) di soggettivizzare per i personaggi questi stati d’animo un po’ come Wagner aveva chiesto alla musica di dare luce alle parole, e in questa soggettivizzazione (che, ne siamo certi, segnerà una data nella storia del cinema a colori) ha raggiunto, tecnicamente e drammaticamente, la più compiuta perfezione.
Le sue immagini, infatti, oppresse dal tedio lugubre di un inverno quasi monocromo, dove la neve e il suo ricordo recente sembrano dominare ogni dettaglio, sono soprattutto il riflesso di quello che vedono, sentono e soffrono i suoi personaggi e, specialmente, il personaggio di Giuliana: sono, cioè, la raffigurazione cromatica della nevrosi, il risultato ultimo del modo con cui le cose, le persone e il mondo sono visti da qualcuno che, improvvisamente, ha perso ogni vero contatto (rapporto e comunicazione) con essi. Dominano, così, i colori disfatti, i colori “non colori”, i colori irreali, il bianco, il grigio, il lattescente, il fumoso, secondo tutte le gradazioni brumose delle nebbie, dominano, anche là dove c’è luce e dove le cose, illuminate, dovrebbero avere tutte le loro tinte naturali, quei pochi colori sbiaditi con cui le albe piovose o i tramonti d’inverno colorano la natura: e se su queste tinte senza luce (che rendono bianco perfino un bosco e cremosa come fango l’erba dei prati) campeggiano alcuni dettagli “colorati”, potete star sicuri che non sono realistici; sono soltanto abnormi colorazioni con cui gli occhi dei personaggi, fatti attenti da un determinato dettaglio, lo fissano, lo ingrandiscono e, in definitiva, vedendolo, lo interpretano.
Da Il Tempo, 8 settembre 1964
Giovanni Grazzini
Povera Giuliana. Ha già tentato una volta di uccidersi, ma non ce l’ha fatta, e nell’incidente automobilistico ha preso una tal botta in testa che nonostante un mese di clinica non è più riuscita a trovare il suo equilibrio. Invece di mandarla in convalescenza in campagna, o a distrarsi in un’allegra stazione turistica, il marito, ingegnere, se l’è riportata, col figlioletto, sui luoghi dove lavora: nella zona industriale di Ravenna, tra altiforni, ciminiere, serbatoi, un paesaggio grigio e fumoso.
Sfido io, la poverina dà fuori da matta. Anziché “reinserirsi nella realtà”, continua a soffrire di angosce e di incubi notturni, striscia lungo i muri, è tutta un brivido. Né il marito, che ha già dato prova di insipienza, muove un dito per aiutarla: non la incoraggia nel proposito, da lei manifestato, di aprire una boutique, anzi le mette intorno degli amici stupidi e sporcaccioni, con i quali la porta a passare una giornata in una baracca sul mare; la casa, povera Giuliana, è deprimente, arredata con mobili e soprammobili provvisori; il bambino, Dio mio, non ride mai, è un mostriciattolo che armeggia con giocattoli avveniristici, e si diverte a spaventare la mamma; e gli operai? Persino fra di loro la nevrosi ha mietuto vittime.
Quando arriva Corrado, un collega del marito, Giuliana tenta di sciogliersi: un po’ impietosito delle condizioni di lei, un po’ attirato dalla malattia della donna, in cui crede di riconoscere le proprie inquietudini di uomo randagio, Corrado le gironzola intorno, vorrebbe aiutarla, e anche lei per un poco ci spera; ma tutto finisce in una camera d’albergo. Non sarà certo Corrado che potrà guarire Giuliana dalla nevrosi. È il male del secolo, tutti ne siamo affetti. Matti incurabili, l’unico conforto ci viene dal tenere per mano un bambino e dall’avere coscienza della nostra condizione. La colpa di tutto? Innanzi tutto della civiltà industriale. Gli uccellini, che hanno un cervello da uccellino, l’hanno capito che dalle ciminiere esce un veleno mortifero, e non ci passano più. Gli uomini, invece, testoni, ci vanno a vivere in mezzo, peggio per loro.
Questo il nocciolo della storia raccontata da Deserto rosso. La sua fragilità ideologica è evidente a chiunque non sia malato di intellettualismo. Antonioni non aggiunge nessun zuccherino alla sua pessimistica analisi del mondo contemporaneo, disumanizzato dal progresso tecnologico, ma la sua condanna della, civiltà delle macchine sembra ormai coinvolgere l’eterna condizione dell’uomo.
Giuliana, per far star quieto il bambino, favoleggia di un mondo primitivo, di una ragazzina libera e felice nell’acqua di un’isola, e tuttavia inquietata da un’oscura presenza: qui (l’unica apertura ridente del film) si proietta non soltanto lo stato d’animo della novellatrice, ma lo stesso rimpianto del regista, che transita per “questa nostra dimora terrestre”, come ama chiamarla, nostalgicamente rammemorando gli evi felici della pesca e della pastorizia, tuttavia già incrinati dalla minaccia dei mostri.
Abbastanza superficiale nel voler far dipendere tutti i guai contemporanei, con un determinismo ottocentesco, dall’inferno industriale, il film rivela la sua origine intellettualistica nel fatto che la molla dell’ispirazione non è scattata per l’intuizione di un carattere o di un nodo sentimentale, già fusi con un’atmosfera, ma, per ammissione dell’autore, di rimbalzo a una visita agli stabilimenti di Ravenna, vedendo le risorse figurative che si potevano trarre da quel rauco paesaggio di bitume e di strutture meccaniche. Poiché l’ambiente preesisteva, Antonioni vi ha calato dentro dei personaggi che dovevano forzosamente aderirvi.
Se sono risultati delle maschere schematiche, alle cui disavventure non partecipiamo, è perché la tesi era già risolta nel momento stesso dell’impostazione, e il rapporto fra i personaggi e i luoghi non comportava più, come ancora ne L’eclisse, alcuna dialettica. Si trattava semplicemente di un’opera di giustapposizione, alla quale erano estranei ogni senso del dramma e ogni palpito di passione. Se è questo che Antonioni voleva, ci è riuscito perfettamente. Usando il colore, con entusiasmo da neofita, e anche la musica elettronica, per esprimere unitariamente la desolazione del panorama e lo squallore dei personaggi, egli ha saputo con maestria costruire un universo disameno che riesce a deprimerci tutti benché nessuno sappia dimenticare che il catalizzatore della storia è un caso clinico, e perciò scarsamente generalizzante.
L’aver poi, come egli ha fatto, dipinto l’erba e gli alberi, per renderne il colore più funzionale, conferma quanto si diceva: che il regista, intervenendo sugli oggetti per farli combaciare ai sentimenti, ha coinvolto se stesso in quel processo che demolisce l’antico rapporto fra uomo e natura contro il quale protesta. Di per sé il colore è adoperato con bellissimi effetti: su una base neutra, il grigio della desolazione, Antonioni ha giocato estraendo dalla tavolozza delle luci pastosità che a tutt’oggi restano insuperate, e pongono il film fra le più alte conquiste della sensibilità cromatica del regista italiano.
Il clima scenografico è perciò di straordinaria potenza evocatrice (come talune invenzioni, basti citare il bastimento che sembra navigare fra gli alberi, sono la conferma di un genio cinematografico su cui non occorre nemmeno discutere). Ma a che vale aver raggiunto con tanta gloria il traguardo del colore, se esso è messo al servizio di una tesi superficiale, di una storia priva di sviluppi narrativi sia pure interiori, di personaggi per i quali non proviamo né simpatia né pietà, e di una recitazione molto modesta?
Se Deserto rosso non è stato una delusione, perché è tale in ogni caso da suscitare polemiche culturali (e per scrupolo di informazione si aggiunge che a Venezia il film è piaciuto a molti), nell’interpretazione ha però mancato quasi tutte le promesse: l’esagitazione di Giuliana, interpretata da una Monica Vitti stanca di impersonare donne angosciate, è tutta rovesciata all’esterno; Richard Harris nella parte di Corrado è di una totale inespressività, degli altri non si ricorda nemmeno il nome. Il difetto di un film pur figurativamente così suggestivo come Deserto rosso è nella visionaria fantasia di un intellettuale di provincia che ha identificato il diavolo con le fabbriche, e crede che tutta l’umanità sia chiusa in un cerchio di dannati, ciascuno nella sua gabbia. Andiamo a Ravenna, e vediamo quanti sono gli operai, gli ingegneri, le mogli dei tecnici che si comportano come nel film.
Da Il Corriere della Sera, 8 settembre 1964
François Maurin, intervista ad Antonioni
Maurin: In Il deserto rosso ha utilizzato per la prima volta il colore.
Antonioni: Non mi pare un fatto particolarmente straordinario perché il colore fa parte della società moderna. Molti dei film a colori che ho visto mi hanno entusiasmato e al tempo stesso lasciato insoddisfatto. Perché, se per un verso mi restituivano la verità esteriore delle cose e dei personaggi, d’altra parte non erano mai quelli che sarebbero serviti per cogliere appieno i sentimenti suggeriti dalle relazioni tra le cose e i personaggi.
Ho dunque cercato di sfruttare ogni minima risorsa narrativa del colore in modo che entrasse in armonia con lo spirito di ogni scena, di ogni sequenza.
Maurin: Il colore nell’universo industriale?
Antonioni: Ne Il deserto rosso ci troviamo in un universo industriale che produce ogni giorno milioni di oggetti di ogni genere, tutti colorati. È sufficiente uno solo di questi oggetti — e chi potrebbe farne a meno? — per introdurre in casa un’eco della vita industriale. Così le nostre abitazioni si riempiono di colore e le strade, i luoghi pubblici di manifesti pubblicitari.
Ho sempre pensato Il deserto rosso a colori. L’idea mi è venuta percorrendo la campagna ravennate. Sono nato a Ferrara, che si trova a circa settanta chilometri da Ravenna, e per lungo tempo ho continuato ad andarci molte volte all’anno per diversi motivi, soprattutto quando partecipavo ai tornei di tennis. Da allora Ravenna è diventata il secondo porto d’Italia, dopo Genova. La violenta trasformazione del paesaggio naturale attorno alla città mi ha molto colpito. Prima c’erano pinete immense, bellissime, oggi quasi completamente morte. Presto anche le poche sopravvissute moriranno per far posto alle fabbriche, ai canali artificiali, al porto.
È una sintesi, un riflesso di quanto avviene nel resto del mondo. Mi è sembrato lo sfondo ideale per la storia che avevo in mente, naturalmente una storia a colori.
Maurin: E i personaggi?
Antonioni: L’universo con cui i personaggi del film entrano in conflitto non è quello delle fabbriche. Dietro alla trasformazione industriale ce n’è un’altra che riguarda lo spirito, la psicologia umana. Il nuovo modo di vita condiziona il comportamento sia di quelli che lavorano in fabbrica sia di quelli che, all’esterno, ne subiscono le ripercussioni. I personaggi de Il deserto rosso sono in stretto contatto con l’universo industriale. Giuliana, la protagonista è una nevrotica. E dove sfociano quasi tutte le nevrosi? In tentativi di suicidio. Giuliana — e forse nel film non mi sono spiegato bene su questo punto — ha cercato di abbreviare la propria vita lanciandosi con l’auto contro un camion.”L’incidente” di cui parla e che non esita a confessare (perché lei sa benissimo quale è la verità) è una conseguenza della sua nevrosi, non la causa.
Giuliana è incapace di adattarsi alla nuova “tecnica” di vita e va in crisi, suo marito invece e contento della propria sorte. E poi c’è Corrado. È quasi giunto alla nevrosi e crede di poter risolvere il problema andandosene in Patagonia.
Maurin: È contro il progresso?
Antonioni: Non sono contro il progresso. Ma ci sono delle persone che per loro natura, per la loro eredità morale sono alle prese con il mondo moderno e non riescono ad adattarsi. Così si verifica un fenomeno di selezione naturale: sopravvive chi riesce a stare al passo con il progresso, gli altri scompaiono inghiottiti dalle loro crisi. Perché il progresso è inesorabile, come le rivoluzioni.
Il deserto rosso non è propriamente la continuazione della mia opera precedente. Prima, l’ambiente in cui si muovevano i personaggi era descritto indirettamente attraverso la loro stessa condizione, la loro psicologia, i loro sentimenti, la loro educazione e si parlava soprattutto dei loro rapporti intimi.
Ne Il deserto rosso ho voluto dare maggiore rilievo alla relazione tra i personaggi e il mondo che li circonda. Ho cercato, dunque, di riscoprire le tracce degli antichi sentimenti umani sepolti ormai da un universo di convenzioni, di gesti e di ritmi nel quale sono sostituiti dalle apparenze, da un linguaggio conciliante da “pubbliche relazioni” dei sentimenti. È quasi un lavoro di archeologia sul materiale arido e duro del nostro tempo. Se questo lavoro appare con maggior chiarezza ne Il deserto rosso che in altri film, è anche perché il mondo si sta facendo sempre più palpabile.
Da L’Humanité dimanche, 23 settembre 1964
Goffredo Fofi
Una nevrosi è alla base del film di Antonioni. Il soggetto è ormai noto: Giuliana, la protagonista, ha subito uno shock, e da allora l’angoscia la vince, l’insicurezza — totale, in certi istanti — e dall’altra parte una insoddisfazione perenne, una aspirazione quasi vorace a una impossibile comunicazione e comprensione col tutto, sono i due poli di riscontro delle sue crisi. Alle quali gli altri rispondono con altri sintomi di nevrosi: l’instabilità e l’irrequietezza di Corrado, innanzitutto; e poi l’adattamento e l’indifferenza del marito, l’adattamento pauroso del bambino, per cui forse la lacerazione provocata dall’inserimento in un mondo industrializzato e dominato dalle macchine non c’è più ed egli è già un personaggio di fantascienza, del mondo di domani; le smanie erotiche del gruppo degli amici nella riunione nel capanno. L’insicurezza si manifesta ancora, sia pur diversamente, anche nel mondo della fabbrica, col personaggio dell’operaio che era in clinica con Giuliana, e con quello della moglie, per cui il rimedio è il morboso attaccamento alle abitudini, al paesaggio e all’ambiente familiare, alle quattro mura protettrici.
Cosa c’è di nuovo in questo film che ci permetta di indicare in Antonioni una qualsiasi evoluzione? Si assiste alla proiezione de Il deserto rosso — costruito peraltro con una coerenza stilistica ammirevole — continuamente colpiti da impressioni e ricordi di altri suoi film: l’inizio è Il grido, la riunione è Le amiche e L’avventura, le antenne che captano i rumori delle stelle corrispondono ai pali delle Olimpiadi nella scena notturna de L’eclisse e la nave che innalza la gialla bandiera del colera corrisponde all’intervento improvviso della morte col personaggio dell’ubriaco dello stesso film; ecc… I temi, d’altronde, sono più o meno gli stessi, anche se lo sfondo è cambiato. C’è semmai il ritorno a un arco narrativo che era de Il grido con il personaggio centrale del disadattato, dell’individuo in crisi, intorno alla cui vicenda il film viene pezzo a pezzo costruito.
C’è anche l’aver scelto decisamente a protagonista un personaggio che è nettamente, decisamente patologico. E c’è naturalmente l’uso del colore, che è magistrale, essenziale al racconto in modo tale che ci è ormai impossibile pensare a un nuovo film di Antonioni che non sia a colori. Ma tutto questo non è sufficiente ad allontanare l’accusa di ripetersi e di non aggiungere nulla al già detto con la precedente trilogia. La formula incomprensibile sulla nave, il marinaio che parla una lingua sconosciuta e con cui Giuliana non riesce a intrattenere neppure un discorso di gesti, arrivano addirittura da Bergman e da sollecitazioni meno antonioniane. La scena d’amore, con la sua conclusione sull’inutilità dell’erotismo come soluzione alla crisi non è nuova neanch’essa (ed è la meno riuscita del film, forse a causa della cattiva interpretazione della Vitti).
Ma dice il regista in questo film si opera il passaggio da una trilogia basata sui rapporti tra gli individui, e si cerca di vedere invece con più precisione il contesto, il rapporto uomo-società, anzi più precisamente individuo-fabbrica, individuo-società industriale. La nevrosi è insomma legata all’ambiente, e questo legame indicato con più precisione che nei film precedenti. Dobbiamo riconoscere ad Antonioni di aver raggiunto queste ambizioni? Ci pare, in definitiva, di no. Riconosciamo e stimiamo il suo sforzo di uscire dall’impasse cui ormai L’eclisse lo aveva portato, gli riconosciamo anche una intelligenza registica e delle illuminazioni poetiche che lasciano vedere come questo film difficile, scabroso, contorto e complesso, non segni affatto l’arrivo a un punto morto e alla sterile ripetizione di se stesso, ma ponga anzi le premesse per una ricerca ulteriore: Antonioni non si ferma, per fortuna, e dalla sua faticosa e sofferta disperazione è escluso il pericolo dell’aridità o del compiacimento cui è arrivato ad esempio, l’ultimo Bergman. Senza dire poi che questa disperazione è laica e atea, e tale resta e ci è quindi vicina anche ne Il deserto rosso.
Rinnovando fiducia ad Antonioni non possiamo contemporaneamente non prendere atto delle limitazioni di questo film come delle svolte ambiziose e assai critiche su cui esso cerca di agganciarsi. Ci riferiamo in particolare a quella parte del suo discorso che riguarda direttamente la fabbrica e la società industriale. È illuminante in proposito l’intermezzo della favola, che nel momento della massima ansia Giuliana racconta a suo figlio, per ritrovare essa stessa un momento di quiete. Episodio narrativamente bellissimo, poiché apre il film a un livello diverso, ne allarga e solleva il discorso, e in esso in questo rimpianto per una “età dell’oro” in cui era la natura e non la fabbrica a circondare l’uomo, e le rocce cantavano e il meraviglioso interveniva quotidianamente con pagana poesia nella vita umana, il discorso antonioniano si riallaccia a una delle illusioni più tipiche dei nostri intellettuali, al contrasto industria-natura che domina ad esempio in un romanzo come il Memoriale di Volponi, che viene fuori in molte altre scelte e in molte altre lotte.
Non a caso Antonioni mostra — come è suo solito — due libri tra le mani dei protagonisti: e di essi uno è il banale breviario dell’intellettuale italiano avanzato, il Diario di uno scrutatore di Calvino. Nel finale poi, quando Giuliana si aggira col figlio apparentemente pacata tra gli altoforni e i serbatoi e le ciminiere della fabbrica, questa illusione ritorna. Gli uccellini dice Giuliana, hanno imparato che il fumo della ciminiera è avvelenato e vuol dire morte, e sono fuggiti lontani. Ma dove infine? È a questa domanda che Antonioni non può rispondere. La fabbrica e la società industriale sono realtà cui non si sfugge col sogno, o coll’evasione dell’eroe di Jessua. Il regista non arriva o non sa arrivare oltre, e per questo il suo discorso resta limitato, non nuovo, e tutte le illusioni che lo pervadono non sono risolte in una visione chiara — sia pure negativa e dubitativa — del rapporto dell’individuo con la società in cui agisce e vive. E forse quel che questo film può dare di più è proprio da cercare nel senso di questa impotenza — ancora — ad affrontare questo nucleo, per sceverarlo e districarlo. È il segno di uno stato di crisi e disorientamento e di una visione che è essa stessa critica e disorientata.
Che dire, infine, del film “epico-lirico in chiave nazional-popolare, secondo la definizione gramsciana” di Pasolini? Ecco un regista e un poeta che liberandosi via via dagli equivoci pseudomarxisti che hanno finora intorbidato il suo discorso, e quindi anche quello della maggior parte della critica, ha fatto ormai le sue scelte e deciso verso quale mondo protendere, che è il contrario di quello dei Jessua e degli Antonioni: il mondo delle borgate, del sottosviluppo, del Sud. Non c’è neanche il rifiuto della società odierna (verso cui pure il mondo che egli tratta va dirigendosi a larghi passi): semplicemente la si ignora, e si ripiomba in un discorso anacronistico, quasi assurdo. Man mano che gli equivoci si dilatano, Pasolini ci interessa e i suoi lavori ci piacciono come qualcosa di coraggiosamente estraneo ai nostri problemi e di autenticamente suo, e originale e poetico. Ma è sempre più chiaro però che egli ha scelto il mondo del passato, un mondo che non è più il nostro, e che ha rifiutato di portarvi lo sguardo di chi abbia almeno una certa visione complessiva, di chi almeno un’occhiata abbia saputo rivolgerla anche a quello che è il mondo delle società cosiddette sviluppate, industriali.
Da Quaderni piacentini, n. 17–18, 1964
Tullio Kezich
Alla Mostra di Venezia Il deserto rosso ha diviso in due il fronte dei critici: è un film per il quale si romperanno antiche amicizie. Chi è entrato nel gioco afferma che Antonioni ha compiuto la sua opera più raffinata; altri gli negano stavolta ogni capacità di farsi capire. Ancora una volta rimbalzano le vecchie accuse: l’inconsistenza dell’intrigo drammatico, la precarietà dei dialoghi, la recitazione spaesata. Ma se alcuni detrattori di film come L’avventura o L’eclisse sono spinti al consenso dalla cattiva coscienza o dai grandi successi che intanto il regista ferrarese ha ottenuto all’estero, vi sono antonioniani di vecchia data molto perplessi di fronte al nuovo film.
Il eserto rosso è un capitolo della vita di una donna in bilico fra due uomini, il marito e l’amante, o piuttosto a una svolta decisiva dì un’esistenza segnata dalla nevrosi, il mondo di Giuliana è una Ravenna sporca, avvelenata dai vapori chimici, assediata dai mostri fantascientifici di un futuro affidato alla tecnica. Questo mondo è a colori perché Antonioni ha voluto sottolineare la soggettività della visione di Giuliana.
Sono immagini pregnanti e suggestive, faranno testo nella storia del cinema. E tuttavia se ripensiamo a certe pagine di Aldous Huxley o del nostro Morselli sugli effetti che ha la mescalina sulla retina di chi l’esperimenta, come testimonianza nell’alterazione cromatica in un soggetto patologico, le ipotesi di Il deserto rosso appaiono perfino timide. È vero che il regista è intervenuto a modificare i colori di tutto ciò che inquadrava con l’obiettivo, ma i momenti della trasformazione appaiono scoperti e addirittura ostentati. Le colorazioni di Antonioni diventano la ragione principale dell’opera, distraggono dalla vicenda, dai personaggi, dai significati.
Naturalmente non siamo di fronte a un film naturalistico, psicologico, narrativo in senso tradizionale; è difficile dire che cosa Antonioni racconta e soprattutto individuare le sue ragioni profonde. Temperamento di astrattista, Michelangelo è sempre a disagio con i residui letterari o drammatici. E quasi si vorrebbe che i suoi personaggi, anziché pronunciare battute contestabili e irritanti, parlassero in turco, come il marinaio che Giuliana accosta nel finale del film.
Non a caso a Venezia, dove era presentato senza didascalie, gli stranieri hanno amato Il deserto rosso più di molti italiani. A noi il film è parso freddo, premeditato, accademico. I problemi di Antonioni non lo incalzano con l’abituale violenza, il successo ha forse indotto l’artista a rilassarsi. Questa volta ci è difficile credere all’angoscia esistenziale di Giuliana, e i contorni della sua nevrosi ci sembrano poeticamente oltre che clinicamente improbabili. Il personaggio non smuove la nostra simpatia, rimane una somma di “gags” intellettuali e di provocazioni esteriori.
Monica Vitti e il suo debole contorno affondano in un mare d’immagini suggestive, ma svincolate da un discorso impegnato. In questo film Antonioni, finalmente a cavallo di un budget importante, rispecchia un po’ il mito di se stesso. Si direbbe che l’antonionismo, malattia di moda tra i giovani registi, abbia colpito anche lui.
Da Tullio Kezich, Il cinema degli anni sessanta, 1962–1966, Edizioni Il Formichiere
Jean-Luc Godard, intervista ad Antonioni
Godard: I suoi tre film precedenti, L’avventura, La notte, L’eclisse davano la sensazione di costituire una linea retta, che procede diritto davanti a sé, che cerca. E ora lei è giunto a una nuova destinazione, forse si chiama Il deserto rosso. Per quella donna forse è un deserto ma per lei è qualche cosa di più pieno, di più completo: è un film sul mondo totale, e non solo sul mondo di oggi.
Antonioni: Per il momento mi risulta molto difficile parlare de Il deserto rosso. È troppo recente. Sono ancora troppo legato alle “intenzioni” che mi hanno spinto a farlo, non ho la lucidità e il distacco necessari per dare un giudizio. Tuttavia credo di poter affermare che questa volta non si tratta di un film sui sentimenti. I risultati a cui ero giunto con i miei film precedenti — buoni o cattivi che fossero, belli o brutti — sono ormai superati, sorpassati. Il proposito è completamente diverso. Un tempo mi interessavano i rapporti dei personaggi tra di loro. Ora invece il personaggio principale deve confrontarsi anche con l’ambiente sociale e per questo motivo tratto la storia in modo completamente diverso. È troppo semplicistico dire — come in molti hanno fatto — che la mia è un’accusa al disumano mondo industriale che schiaccia l’individuo e lo conduce alla nevrosi. La mia intenzione — sebbene si sappia quasi sempre da dove si parte ma quasi mai dove si arriverà — era di tradurre la poesia di quel mondo, in cui anche le fabbriche possono essere belle… Le linee, le curve delle fabbriche con i loro camini possono essere anche più belle del profilo degli alberi, che siamo abituati a vedere. È un mondo ricco, vivo, utile. Tengo a dire che la nevrosi che ho voluto descrivere ne Il deserto rosso riguarda soprattutto la questione dell’adattamento. Ci sono persone che si adattano, altre che invece non ci riescono, forse perché sono troppo legate a delle strutture, a dei ritmi di vita che oggi sono superati. Il problema di Giuliana è questo. A provocare la crisi del personaggio è il divario insanabile, lo sfaldamento tra la sua sensibilità, la sua intelligenza, la sua psicologia e il ritmo che le è imposto. È una crisi che non riguarda solo i rapporti epidermici con il mondo, la percezione dei rumori, dei colori, della freddezza delle persone che le stanno intorno, ma tutto il sistema di valori (educazione, morale, religione) ormai superati e che non servono più a sostenerla. Si trova, dunque, a doversi rinnovare completamente come donna. È questo il consiglio che le danno i medici e che lei si sforza di seguire. Il film è in un certo senso la storia di questo lavoro.
Godard: Ritiene che il prendere coscienza di questo nuovo mondo abbia delle ripercussioni sull’estetica, sulla creazione dell’artista?
Antonioni: Si, senz’altro. Modifica il modo di vedere, di pensare, cambia ogni cosa. La Pop Art è la dimostrazione che si sta cercando altro. Non si deve sottovalutare la Pop Art. È un movimento “ironico”, di un’ironia consapevole che è estremamente importante. A parte Rauschenberg che è più pittore degli altri, gli artisti della Pop Art sanno benissimo di fare cose il cui valore estetico non è ancora del tutto maturo… Anche se La macchina da scrivere morbida di Oldenburg è molto bella… Mi piace molto. Credo sia una buona cosa che tutto questo trovi un’espressione. Non può che accelerare il processo di trasformazione di cui parlavo.
Godard: Quando lei apre oppure chiude un’inquadratura su una forma quasi astratta, su un oggetto o su un particolare, lo fa con spirito pittorico?
Antonioni: Sento la necessità di esprimere la realtà in termini che non siano del tutto realistici. La linea bianca astratta, che irrompe nell’inquadratura all’inizio della sequenza con la stradina grigia, mi interessa molto di più dell’automobile che arriva: è un modo di avvicinarsi al personaggio partendo dalle cose piuttosto che dalla sua vita che, in fondo, mi interessa relativamente. È un personaggio che partecipa alla storia in funzione della sua femminilità, del suo aspetto e del suo carattere femminile, elementi che reputo essenziali. È proprio per questo che ho voluto che quella parte fosse recitata in modo leggermente statico.
Godard: Anche su questo punto c’è una rottura rispetto ai film precedenti.
Antonioni: Sì, dal punto di vista figurativo e un film meno realista. Cioè, è realista in modo diverso. Per esempio mi sono servito molto del teleobiettivo per limitare la profondità di campo che, invece, è un elemento essenziale del realismo. Quel che mi interessa ora è mettere i personaggi in contatto con le cose, perché oggi quello che conta sono le cose, gli oggetti, la materia. Non ritengo che Il deserto rosso sia un punto d’arrivo, è piuttosto una ricerca. Voglio raccontare storie diverse con mezzi diversi. Tutto ciò che è stato fatto, tutto quello che ho fatto finora non mi interessa più, mi annoia. Forse anche lei prova la stessa sensazione?
Godard: Girare a colori ha rappresentato per lei un cambiamento importante?
Antonioni: Molto importante. Sono stato costretto a cambiare tecnica, anche se non solo per via del colore. Sentivo già il bisogno di cambiare tecnica, per le ragioni di cui abbiamo parlato. Le mie esigenze non erano più le stesse e il fatto di utilizzare il colore non ha fatto altro che accelerare il cambiamento. Il colore richiede obbiettivi diversi. Inoltre mi sono accorto che certi movimenti della cinepresa non erano più possibili: una panoramica rapida rende bene su un rosso acceso ma non dirà niente su un verde marcio a meno di cercare nuovi contrasti. Credo che esista una relazione tra i movimenti della cinepresa e il colore. Un solo film non è sufficiente per esaminare a fondo il problema, ma è un problema che deve essere studiato. Avevo fatto degli esperimenti interessanti in 16 mm ma nel film ho potuto inserire solo pochi degli effetti che avevo trovato. In quei momenti si è troppo presi.
Lei saprà che esiste una psicofisiologia del colore, si sono fatti degli studi, degli esperimenti in proposito. L’interno della fabbrica che si vede nel film è stato dipinto di rosso; nel giro di quindici giorni gli operai sono arrivati a picchiarsi. È stato ripetuto l’esperimento dipingendo tutto di verde chiaro ed è ritornata la calma. L’occhio degli operai ha bisogno di riposo.
Godard: I dialoghi sono più semplici, più funzionali rispetto ai suoi film precedenti: forse che la loro tradizionale funzione di commento è stata assolta dal colore?
Antonioni: Sì, credo di sì. Diciamo che sono ridotti al minimo indispensabile e che, in questo senso, sono legati al colore. Per esempio nella scena nel casotto in cui si parla di droga, di eccitanti, non avrei potuto non utilizzare il rosso. In bianco e nero non l’avrei fatta. Il rosso mette lo spettatore in uno stato d’animo che gli consente di accettare simili dialoghi. È il colore giusto per i personaggi (che a loro volta sono giustificati dal colore) e anche per lo spettatore.
Godard: Si sente più vicino alla ricerca dei pittori o degli scrittori?
Antonioni: Mi sento non lontano dalle ricerche del Nouveau Roman anche se mi sono di aiuto meno di altre: mi interessano di più la pittura, la ricerca scientifica anche se non credo che mi influenzino direttamente. Nel film non c’è nessuna ricerca pittorica, siamo lontani dalla pittura, almeno così mi sembra. E naturalmente certe esigenze, che in pittura non hanno alcun contenuto narrativo, lo ritrovano nel cinema. Ecco dove si incontrano le ricerche del romanzo e della pittura.
Da Cahiers du cinéma, n. 160, novembre 1964
Vittorio Spinazzola
Dopo La notte questo pericolo si aggrava, col venir meno della lucidità intellettuale e il prevalere di una volontà di comprensione, che raccomanda i personaggi alla solidarietà commossa del pubblico. Ecco la coppia dei protagonisti de L’eclisse, così teneramente giovani, così pateticamente soli e indifesi — non soltanto la ragazza ma anche lui, Piero, l’agente di borsa, la cui aridità è tanto palesemente imputabile all’ambiente, alla professione esercitata. Ed ecco poi la Giuliana de Il deserto rosso: una povera malata, che come tale reclama subito tutta la nostra pietà.
Rispunta così proprio l’atteggiamento contro il quale Antonioni era insorto agli esordi della carriera: il sentimentalismo lagrimoso e sterile delle anime belle che effondono il loro turbamento davanti alla durezza della realtà. Le protagoniste non nutrono più alcun rapporto attivo con l’esistenza: nelle loro coscienze smarrite sopravvive soltanto la malinconica nostalgia per un mondo sognato e perduto, dove uomini e cose conservino una riconoscibile, consistente verità. Entrambe deluse d’amore, Vittoria e Giuliana rinnovano davanti ai nostri occhi l’attesa di una presenza virile attraverso cui partecipare alla vita, soddisfacendo la loro frustrata fame di eros, cioè di realtà. La femminilità delle nuove eroine di Antonioni è di stampo alquanto tradizionalista.
Corrispondentemente, ai modi obiettivi dell’indagine di comportamento subentrano le forme di una psicologizzazione lirica: i primi piani estatici delle figure umane schiacciate contro un fondo gelidamente immobile, cui si accompagna il ritorno alla tecnica del campo e controcampo. Siamo nell’ambito di un crepuscolarismo che può ancora accendersi di un palpito di verità nelle forme misuratamente bozzettistiche de L’eclisse ma dà un suono falso, enfatico quando viene portato al livello del dramma, ne Il deserto rosso. Né d’altronde concederemo credito agli elementi di polemica sociale diretta, che già affiorano ne La notte e successivamente ispirano le sequenze della Borsa, ne L’eclisse, e i frequenti accenni all’inumanità della fabbrica, in quanto tale, ne Il deserto rosso:anche per questo aspetto la posizione del regista appare sostanzialmente evasiva, derivando da un anticapitalismo di stampo romantico — per usare il linguaggio marxista.
Sbaglierebbe però chi, di fronte all’ultima parabola di Antonioni, badasse esclusivamente al fatto narrativo, senza notare che le figurazioni dall’intreccio perdono sempre più peso nell’economia dell’opera, avviata a svincolarsi definitivamente dal contatto con la realtà. Un dato significativo: il prologo del racconto, che dianzi rappresentava il momento della certezza, ora sfuma dell’indefinito; ne L’eclisse si riduce a una scena pressoché muta di commiato, ne Il deserto rosso è addirittura escluso dal corpo della narrazione, della quale costituisce un antefatto necessario ma volutamente oscuro. Dominano la scena i valori di atmosfera: la presenza delle cose, riportate a un “grado di significazione zero”, sospese nell’attesa immobile che gli uomini tornino a prenderne possesso.
Proprio mentre si confonde nel ritrarre i personaggi, la mano del regista acquista nuova sicurezza nel dipingere gli sfondi, dai quali emergono le linee di un cinema non antropocentrico, vivo di una autentica modernità oggettuale. Per questa via l’opera riacquista una drammatica pregnanza visiva: pensiamo soprattutto all’epilogo astratto del penultimo film, e nell’ultimo alla trama di rapporti cromatici componenti l’immagine di una civiltà che non solo respinge l’uomo ma gli inibisce persino il rifugio nella natura, ormai corrotta e putrescente. Gli approcci all’informale filmico rappresentano il motivo di dibattito più interessante nella evoluzione contraddittoria di Antonioni.
Cinema e pubblico, goWare, 2018, pp. 300–301
Nicola Ranieri
Il deserto rosso segna il passaggio al colore. Le tonalità cromatiche (e con esse anche l’acromatismo del bianco così importante come sinonimo di significati differenti: luce, enigma, attesa di scrittura, impossibilità e così via) sono elementi visivi quasi privilegiati per narrare reazioni, interazioni, contrasti in termini concettuali; in linea con le generali riflessioni ejzenstejniane sul colore, che il regista italiano rinnova, sviluppa, arricchisce lavorando anche sulle novità tecniche. La funzione narrativa del colore visualizza la superficiale policromia dei “riconoscimenti” operati dal cinema colorato, estremizza i fenomeni in concetti, strania i personaggi, comportamenti, idee; storia e visione.
Dopo una prima intuizione del paesaggio urbano, della sua geometria — si pensi all’attacco de La notte. La dimensione orizzontale, l’estendersi a dismisura di Milano, dall’alto della verticalità, del grattacielo Pirelli che subito prima svetta dal basso come futuro incombente su un vecchio palazzo –, Il deserto rosso è la scoperta dell’artificialità cromatica: il colore sintetico, industriale, commisto al paesaggio. Un cinema imitativo non potrebbe che riprodurre l’apparente amalgamarsi di artificio e natura, un surplus di mistificazione; oppure si scioglierebbe nel lirismo per la incontaminatezza perduta — che pure è un sogno di Giuliana: l’isola rosa in Sardegna -. Invece si tratta di decifrare la nuova “natura”, di toglierla dalla sua organizzazione “spontanea”, di osservarla nel “vuoto”, dove i colori possano stridere, essere decontestualizzati, possano interagire in nuove aggregazioni, tolti dalla staticità e inseriti in una struttura in divenire che, attraverso l’antinaturalismo, conosce l’artificialità.
Un nodo fondamentale di Antonioni: l’astrattezza della geografia urbana — la modifica dei luoghi “naturali” — produce, in sé reca, l’artificio, il reificarsi dei rapporti; ma nessuna forma naturalistica e più in grado di conoscere.
Il cinema in particolare, la cui funzione principale è vedere, non può restare schiavo di qualsiasi automatismo percettivo, del “normale” guardare, o di “visioni” che sono specifiche di altre arti. Deve emanciparsi al livello dei procedimenti scientifico-sperimentali, che proprio dalla rivoluzione urbano-industriale sono indotti. L’antinaturalismo è, insomma, la coscienza più alta dell’artificialita, senza di esso non la si conosce, pur essendo il suo (certo, non meccanico) “derivato”. La scienza e l’arte occidentali, moderne, sono in diretta o mediata relazione con l’estendersi, tendenzialmente planetario, dell’urbanesimo.
Da Amor vacui. Il cinema di Michelangelo Antonioni, Chieti, Métis, 1990, pp. 232–234
Pier Paolo Pasolini
Quanto ad Antonioni (Il deserto rosso), non vorrei soffermarmi sui punti universalmente riconoscibili come “poetici”, e che pure son molti, nel film. Per esempio, quei due o tre fiori violetti sfuocati in primo piano, nell’inquadratura in cui i due protagonisti entrano nella casa dell’operaio nevrotico: e quegli stessi due o tre fiori violetti, che ricompaiono nello sfondo — non più sfuocati, ma ferocemente nitidi — nell’inquadratura dell’uscita.
Oppure la sequenza del sogno: che, dopo tanta squisitezza coloristica, e improvvisamente concepita quasi in un ovvio technicolor (a imitare, o meglio, a rivivere, attraverso una «soggettiva libera indiretta» l’idea fumettistica che ha un bambino delle spiagge dei tropici). Oppure ancora la sequenza della preparazione del viaggio in Patagonia: gli operai che ascoltano ecc. ecc.; quello stupendo primo piano di un operaio emiliano struggentemente “vero”, seguito da una folle panoramica dal basso all’alto lungo una striscia blu elettrico sulla parete di calce bianca del magazzino. Tutto questo testimonia una profonda, misteriosa e a tratti altissima intensità, nell’idea formale che accende la fantasia di Antonioni.
Ma, a dimostrazione che il fondo del film sia sostanzialmente questo formalismo, vorrei esaminare due aspetti di una particolare operazione stilistica estremamente significativa. I due momenti di tale operazione sono:
1) l’accostamento successivo di due punti di vista, dalla diversità insignificante, su una stessa immagine: cioè il succedersi di due inquadrature che inquadrano lo stesso pezzo di realtà, prima da vicino, poi un po’ più da lontano; oppure, prima frontalmente e poi un po’ più obliquamente; oppure infine addirittura sullo stesso asse ma con due obbiettivi diversi. Ne nasce l’insistenza che si fa ossessiva: in quanto mito della sostanziale e angosciosa bellezza e angosciosa bellezza autonoma delle cose.
2) La tecnica del fare entrare e uscire i personaggi nell’inquadratura, per cui, in modo talvolta ossessivo, il montaggio consiste in una serie di “quadri” — che possiamo dire informali — dove i personaggi entrano, dicono o fanno qualcosa, e poi escono, lasciando di nuovo il quadro alla sua pura, assoluta significazione di quadro: cui succede un altro quadro analogo, dove poi i personaggi entrano ecc. ecc. Sicché il mondo si presenta come regolato da un mito di pura bellezza pittorica, che i personaggi invadono, è vero, ma adattando se stessi alle regole di questa bellezza, anziché sconsacrarle con la loro presenza.
La legge interna al film delle “inquadrature ossessive” dimostra dunque chiaramente la prevalenza di un formalismo come mito finalmente liberato, e quindi poetico (il mio uso della parola formalismo non implica giudizio di valore: so benissimo che c’è un’autentica e sincera ispirazione formalistica: la poesia della lingua).
Ma come è stata possibile a Antonioni questa “liberazione”? Molto semplicemente, è stata possibile creando la “condizione stilistica” per una «soggettiva libera indiretta» che coincide con l’intero film.
Ne Il deserto rosso, Antonioni non applica più, in una contaminazione un po’ goffa, come nei film precedenti, la sua propria visione formalistica del mondo a un contenuto genericamente impegnato (il problema della nevrosi da alienazione): ma guarda il mondo immergendosi nella sua protagonista nevrotica, rivivendo i fatti attraverso lo “sguardo” di lei (che per nulla stavolta è decisamente oltre il limite clinico: il suicidio essendo stato già tentato).
Per mezzo di questo meccanismo stilistico, Antonioni ha liberato il proprio momento più reale: ha potuto finalmente rappresentare il mondo visto dai suoi occhi, perché ha sostituito, in blocco, la visione del mondo di una nevrotica, con la sua propria visione delirante di estetismo: sostituzione in blocco giustificata dalla possibile analogia delle due visioni. Se poi in tale sostituzione ci fosse qualcosa di arbitrario, non ci sarebbe nulla da ridire. È chiaro che la «soggettiva libera indiretta» è pretestuale: e Antonioni se ne è magari arbitrariamente giovato per consentirsi la massima libertà poetica, una libertà che rasenta — e per questo è inebriante — l’arbitrio.
Da Empirismo eretico, Milano, Garzanti, 1991, pp. 179–181
Carlo di Carlo
Giuliana vive con il marito e il figlioletto Valerio nella periferia industriale di Ravenna. Lei soffre di nevrosi, ha avuto in passato un incidente d’auto (probabilmente un tentativo di suicidio), in seguito al quale è stata ricoverata per qualche tempo in una clinica per malattie mentali. Ora si occupa del figlioletto è sta allestendo un negozio a Ferrara: ma continua ad essere angosciata dal mondo, dalle cose che la circondano.
Un giorno conosce Corrado, un vecchio amico del marito venuto a Ravenna in cerca di operai specializzati da portare in Patagonia. Fra i due nasce un’intesa fondata forse sul malessere del quale anche Corrado è preda e rafforzata dalle frequenti occasioni di incontro fra loro, solo e in compagnia del marito e degli amici, nella pineta inquinata di Ravenna o in uno squallido tentativo di amore di gruppo in una capanna da pesca.
Accade un giorno che il figlio di Giuliana si finga gravemente malato per non andare a scuola. Lei è terrorizzata ma quando si accorge dell’inganno, fugge sconvolta di casa, va a trovare Corrado in albergo e ne diventa l’amante, poi fugge anche da lui e, in un successivo incontro, lo accusa di non averla aiutata. Corrado è partito, lei ricomincia a girovagare col figlio in mezzo all’agghiacciante paesaggio industriale di Ravenna. Dice al bambino che gli uccellini hanno capito che il fumo delle fabbriche potrebbe ucciderli e hanno imparato a starne lontani: forse, in qualche modo questa scoperta può riguardare anche lei.
Da Caro Antonioni, catalogo edito in occasione della mostra e della retrospettiva dedicate ad Antonioni, Roma, Palazzo delle Esposizioni, 2–17 dicembre 1992, p. 71
Walter Veltroni
Di Il deserto rosso si ricordano i colori, quelle tinte fredde, quell’atmosfera glaciale, smarrita. Ravenna e il suo porto furono riclassificate in ragione dei colori del disagio di Giuliana, la protagonista. Il deserto rosso è un film algido, privo di concessioni e ammiccamenti.
Il suo colore è la sua temperatura. Per ottenerlo furono modificati i dati del reale: furono ridipinti i muri, le case, molti sfondi.
Dopo anni di bianco e nero Michelangelo Antonioni cerca un coloro capace di essere piegato al racconto, ne frena la naturale esuberanza visiva. Ne riduce l’«autonomia» di narrazione. Il film circola nello spazio dell’alienazione e della nevrosi.
Quelle raffinerie rimandano a uno sviluppo industriale veloce e incapace di portare con sé, nella sua corsa, i sentimenti, il cuore, l’equilibrio delle persone, il film è il racconto dello smarrimento famigliare e «ambientale» di una donna, della difficoltà di comunicare. E un film difficile, strano, come i colori che racconta.
Da Certi piccoli amori. Dizionario sentimentale di film, Sperling & Kupfer Editori, Milano, 1994