Blow-Up. Che bella la fotografia quando non c’era Photoshop e il fotoritocco a camuffare la realtà! Veramente memorabili le sequenze degli ingrandimenti (blow-ups, appunto) che portano il protagonista rintracciare il segreto di uno scatto casuale, ma sospetto. Per poi scoprire che la realtà sfugge alla sua riproduzione meccanica, ben prima di Photoshop e dei meme. Nella sua evanescente assenza, Hemmings è perfetto. Un ectoplasma che viaggia in Rolls-Royce in una Londra felliniana. Tocco à l’Antonionì nella scena dell’elica.
Alberto Moravia intervista Antonioni
Alberto Moravia: Caro Antonioni, tu hai girato in Inghilterra, con una storia inglese, attori inglesi, ambienti inglesi. Dopo Il deserto Rosso, film piuttosto romantico e psicologizzante nel quale, sia pure con i modi che ti sono propri, raccontavi la storia tipicamente italiana della crisi di un matrimonio, questo film nitido, limpido, preciso, bene articolato, ben raccontato, elegante ed estroso mi ha fatto pensare a un ritorno all’ispirazione che anni or sono ti fece girare uno dei tuoi film migliori, voglio dire I vinti e in particolar modo l’episodio inglese di quel film, nel quale raccontavi un fatto realmente avvenuto: il delitto di un ragazzo che uccide una povera donna matura per vanità e mitomania. Anche in Blow-Up, come in quell’episodio, c’è un delitto. D’altra parte così in Blow-Up come nell’episodio di I vinti c’è la stessa maniera di raccontare: distante, assolutamente oggettiva, in certo modo un poco al di qua delle tue possibilità espressive, così da consentire un dominio completo della materia. Inoltre in Blow-Up come nell’episodio di I vinti il protagonista era un uomo. A proposito lo sai che i personaggi maschili ti riescono meglio di quelli femminili?
Michelangelo Antonioni: È la prima volta che me lo sento dire. Di solito dicono il contrario.
Moravia: S’intende, tu hai saputo creare dei personaggi femminili memorabili. Ma mentre si direbbe che questi personaggi in qualche modo ti sfuggano, cioè riescano misteriosi non soltanto allo spettatore ma anche a te stesso, i personaggi maschili sembrano più dominati e perciò più caratterizzati e delimitati. Sono insomma più “personaggi” dei personaggi femminili. Ma lasciamo andare, torniamo a Blow-Up. Dunque tu riconosci una parentela tra l’episodio inglese di I vinti e Blow-Up?
Antonioni: Direi di no. Può anche darsi che tu come critico e spettatore abbia ragione; ma io non vedo questa parentela. Non ci ho mai pensato. Blow-Up è molto diverso dall’episodio di I vinti. Anche il significato è diverso.
Moravia: Non mi aspettavo una risposta differente. Un artista non è mai del tutto consapevole delle origini vicine e lontane della propria arte. Ma torniamo a Blow-Up. Se permetti ne racconterò la storia.
Antonioni: Per me la storia è importante, certo; ma quello che più importa sono le immagini.
Moravia: Dunque la storia è la seguente: Thomas è un giovane fotografo alla moda, anzi il fotografo più alla moda della Londra attuale, la Swinging London, la Londra scatenata, vibrante, attiva di questi anni. Thomas è uno di quei fotografi che non si contentano di riprendere le cose straordinarie ossia degne di interesse per qualche motivo particolare ma spiano la realtà più comune un po’ come un voyeur spia una stanza per il buco della serratura, con la stessa patologica curiosità, la stessa speranza di cogliere qualcuno o qualcosa in un momento di completa intimità. Nella vita Thomas è un tipico rappresentante della gioventù inglese di questi anni: attivo e distratto, frenetico e indifferente, rivoltato e passivo, nemico dei sentimenti e in fondo sentimentale, risoluto a rifiutare qualsiasi impegno ideologico e insieme portatore inconsapevole di una ideologia precisa, quella appunto del rifiuto delle ideologie. Dal punto di vista sessuale Thomas si potrebbe definire un puritano promiscuo; ossia qualcuno che rifiuta il sesso non già reprimendolo ma abusandone, senza però darci importanza. Uno di quei giorni andando in cerca di fotografie inedite per un suo album, Thomas capita in un parco, scorge una coppia, la segue, la riprende più volte. È una donna giovane e un uomo anziano; la donna trascina l’uomo riluttante verso un angolo del parco, evidentemente per appartarsi con lui. Poi la donna scorge Thomas, lo rincorre, esige con violenza che le consegni il rollino. Thomas rifiuta, se ne va a casa, la ragazza lo raggiunge, gli chiede di nuovo il rullino, Thomas finisce per far l’amore con la ragazza e quindi le dà il rullino, ma non quello delle fotografie scattate nel parco, un altro qualsiasi. Appena solo, Thomas sviluppa le fotografie, è subito colpito dalla maniera strana con la quale la ragazza trascina l’uomo e poi guarda davanti a sé. Thomas sviluppa altre fotografie, ingrandisce alcuni particolari e allora, tra il fogliame, al di sopra di una staccionata, ecco apparire una mano armata di rivoltella. In un’altra fotografia si intravede anche l’assassino. Infine, in una terza appare la testa dell’uomo anziano, disteso morto in terra, ai piedi di un albero. Dunque non si trattava di un incontro d’amore bensì di un agguato criminale, dunque la donna aveva trascinato il compagno nel parco per farlo uccidere da un suo complice. Thomas è sconvolto da questa scoperta; sale in macchina, corre al parco e infatti, sotto il cespuglio, trova il morto che senza vederlo né saperlo aveva fotografato. Thomas corre di nuovo a casa, nuova sorpresa: in sua assenza qualcuno è entrato, ha buttato ogni cosa per aria, si è portato via tutte le fotografie del delitto. Thomas allora si mette alla ricerca della donna; ma anche lei è svanita; gli sembra di vederla per strada, la rincorre ma poi la perde. Thomas va in una casa di amici, ci trova il suo socio Ron, cerca di fargli capire quello che è successo, non ci riesce: Ron è drogato, intontito, irresponsabile. Thomas si addormenta su un letto, si sveglia all’alba, esce, prende la macchina e torna al parco. Ma questa volta anche il morto è scomparso, come le fotografie, come la ragazza. In quel momento un gruppo di studenti mascherati e coi volti dipinti di bianco irrompe nel parco. C’è un campo di tennis, gli studenti fingono di giocare una partita senza palle e senza racchette, soltanto coi gesti. Thomas assiste a questa partita spettrale e alla fine si capisce che rinunzia a indagare sul delitto. Il quale è come se non fosse mai avvenuto in quanto per esso non c’è posto né nella vita di Thomas né nella società di Thomas. Senza rapporti con Thomas e con il mondo di Thomas, il delitto ricade nell’irrealtà delle cose che pur essendo accadute non riguardano veramente nessuno.
L’esempio di Gadda
Questa è la storia del film; ho voluto raccontarla per sottolinearne un aspetto importante. E cioè: si tratta di una storia come si dice, gialla; ma gialla fino a un certo punto. Tu ci hai messo tutto quello che di solito caratterizza simili storie: il delitto, il mistero circa l’autore del delitto, la ricerca del criminale, perfino un inizio di contrasto tra il criminale e l’inquisitore, tutto fuorché la scoperta del colpevole e la sua finale punizione. Ora tutto questo potrebbe benissimo essere la materia di un film, poniamo, di Hitchcock. Ma improvvisamente, il tuo film prende una direzione del tutto diversa, la direzione cioè del delitto che rimane impunito, il cui colpevole non viene trovato, il cui mistero non viene chiarito. Thomas non trova nulla; non sapremo mai perché la donna ha fatto uccidere il suo compagno né chi era il suo complice o chi era lei stessa. Non lo sapremo mai, ma mentre in un film di Hitchcock questa ignoranza ci lascerebbe profondamente insoddisfatti, nel tuo film essa non soltanto non ci disturba ma ci piace e ci sembra coerente e naturale. Perché questo? Evidentemente perché il vero argomento del film non è il delitto, come nei film gialli, bensì qualche altra cosa. Ora lo stesso avviene nella letteratura. I romanzi e i racconti di delitti che spiegano il delitto hanno per argomento il delitto: ma i romanzi e i racconti di delitti che non spiegano il delitto hanno per argomento qualche altra cosa. In queste ultime narrazioni, il rifiuto, da parte dello scrittore, di spiegare il delitto equivale alla censura che, secondo la psicanalisi, fa sì che l’argomento apparente dei sogni non sia l’argomento reale; in altri termini il rifiuto a spiegare il delitto, rende immediatamente simbolica tutta la vicenda. Nella letteratura vi sono almeno due esempi molto noti di questo rifiuto e di questa trasformazione della vicenda in simbolo. Il mistero di Maria Roget di Edgar Allan Poe, e il Pasticciaccio di Carlo Emilio Gadda. Ambedue questi scrittori dopo averci presentato il delitto, si rifiutano di darcene la chiave. Di rimbalzo noi sentiamo subito che questo rifiuto sposta la nostra attenzione dal delitto a qualche altra cosa, di cui il delitto è il simbolo. Che cosa? Nel caso di Poe il significato reale del racconto mi pare che sia la dimostrazione e illustrazione lucidissima di un metodo di ricerca conoscitiva; nel caso di Gadda, il recupero della realtà, diciamo così, materica nella quale è immerso il delitto attraverso una operazione stilistica e linguistica di straordinaria complessità e aderenza. Ora anche nel tuo film c’è il rifiuto della vicenda naturalistica, il rinvio a un significato di secondo grado. Ma quale? Che cosa hai voluto dire in realtà?
Antonioni: A dire il vero, neppure io saprei precisarlo. Mentre preparavo il film, certe notti mi svegliavo e ci pensavo e ogni volta trovavo un significato diverso.
Moravia: Può darsi. Ma sta di fatto che alla fine il film l’hai fatto tu. Sei stato tu a decidere che il protagonista non doveva trovare il colpevole, non doveva rivedere la ragazza, non doveva ricorrere alla polizia e alla fine doveva rinunziare a capire quello che gli era successo. Tu e nessun altro. Così mi sembra giusto domandarti perché hai deciso in questo modo e non in un altro; perché hai fatto questa scelta.
Antonioni: Posso soltanto dire che per me il delitto aveva la funzione di qualche cosa di forte, di molto forte, che ciononostante sfugge. E per giunta sfugge proprio a qualcuno, come il mio fotografo, che ha fatto dell’attenzione alla realtà un mestiere addirittura.
Moravia: E un po’ il tema del mio ultimo romanzo che si chiama appunto L’attenzione. Anche nel mio romanzo il protagonista è un professionista dell’attenzione cioè un giornalista; e anche a lui sfuggono cose che purtuttavia gli avvengono sotto il naso.
Antonioni: Sì, è vero. Il tema del tuo libro rassomiglia a quello del mio film, almeno per quanto riguarda l’attenzione alla realtà. Era un tema che era nell’aria, voglio dire nell’aria intorno a me.
Moravia: Già, ma nel mio romanzo il personaggio era direttamente implicato nel delitto; nel tuo non lo è, ne è soltanto il testimone. Da questo forse deriva che il tuo personaggio è più leggero, più innocente, più svagato. Tuttavia in quest’idea del fotografo che viene preso di contropiede dalla realtà, c’è implicita una critica a una determinata condizione umana o sociale. Come se tu avessi voluto dire: ecco come è cieco, alienato l’uomo. Oppure: ecco come è cieca e alienata la società di cui fa parte quest’uomo.
Antonioni: Perché questa cecità e questa alienazione, per un momento, non provi a vederle come delle virtù, delle qualità?
Moravia: Potrebbero esserlo non dico di no; ma nel film non risultano tali.
Antonioni: Tuttavia non ho voluto descriverle come qualche cosa di negativo.
Per qualcosa che verrà
Moravia: Anche questo è vero. Stringiamo allora: tu hai raccontato la storia di un delitto che rimane però senza spiegazione e senza punizione. Al tempo stesso ci hai dato una descrizione della Londra di oggi, della Londra della rivoluzione “beat”. Il delitto non ha molto a che fare con l’Inghilterra del 1966; ma il fatto che il delitto rimanga senza spiegazione e senza punizione, questo sì. In altre parole il nesso tra il delitto e la Swinging London sta nel modo di comportarsi del protagonista. Il quale, pur non essendo affatto privo di sensibilità morale, non vuole né capire né approfondire né spiegare né ideologizzare la realtà e mettere l’accento soprattutto sul fatto di essere attivo, inventivo, creativo, sempre imprevedibile e sempre disponibile. Semplificando parecchio, si potrebbe dire che tu hai voluto mostrarci come in una circostanza eccezionale il disimpegno nasca, si formi, prenda consistenza di atteggiamento, si sviluppi, diventi un vero e proprio modo di condotta. Tutto questo sullo sfondo di una società nuova e giovanile in fase di radicale cambiamento e rivoluzione.
Antonioni: E una rivoluzione che sta avvenendo a diversi livelli, in diversi strati sociali. Quello dei fotografi è il caso più vistoso ed esemplare; per questo ho scelto un fotografo come protagonista. Ma tutti in Inghilterra chi più chi meno sembrano essere trascinati nella direzione di questa rivoluzione.
Moravia: Secondo te quale sarebbe lo scopo di questa rivoluzione? Tutte le rivoluzioni hanno una partenza diciamo così libertaria. Ma nella rivoluzione beat di cosa ci si vuole liberare?
Antonioni: Della morale. Magari dello spirito religioso. Ma non devi fraintendermi. Secondo me essi vogliono liberarsi di tutto il vecchiume e rendersi disponibili per qualche cosa di nuovo che ancora non sanno bene cosa sarà. Non vogliono essere colti impreparati. Il mio fotografo, per esempio, rifiuta di impegnarsi, eppure non è un amorale, un insensibile e io lo guardo con simpatia; rifiuta di impegnarsi perché si vuole tenere disponibile per qualche cosa che verrà, che ancora non c’è.
Moravia: E verissimo che lo guardi con simpatia. Dirò di più, il personaggio riesce simpatico agli spettatori perché è simpatico prima di tutto a te. E cercando di definire questa simpatia, vorrei dire che è una simpatia molto curiosa: mischiata, si direbbe, di invidia ammirativa o se preferisci di ammirazione invidiosa. Si sente che tu vorresti essere il tuo personaggio, trovarti nelle circostanze in cui lui si trova, comportarsi come lui. Vorresti avere la sua età, la sua apparenza fisica, la sua libertà, la sua disponibilità. In altri termini, pur creando un personaggio tipico del disimpegno, hai anche creato quello che un tempo si chiamava eroe. Cioè un tipo ideale, un modello.
Antonioni: Sì; ma senza farne un eroe. Cioè senza nulla di eroico.
Moravia: È un eroe perché tu hai simpatia per lui non perché è eroico. D’altra parte è un personaggio, come dire, autobiografico anche per un’altra ragione: perché fa il fotografo. E cioè: si sente che attraverso il mestiere di quest’uomo, così vicino e simile al tuo, attraverso la rappresentazione dei processi tecnici di questo mestiere tu hai voluto esprimere una riflessione critica e dubbiosa sul tuo proprio mestiere, sulla tua propria capacità di afferrare gli aspetti del reale. Si tratterebbe, insomma, di un film che occuperebbe nella tua opera il posto che occupa nell’opera di Federico Fellini Otto e mezzo. Qui c’è un film in un film, cioè l’argomento del film è la difficoltà di fare un film. Nel tuo film c’è un fotografo visto da un fotografo e l’argomento del film è la difficoltà di vedere. Siamo usciti dall’Ottocento
Antonioni: Scherzosamente, parafrasando il monologo di Amleto, si potrebbe dire per il mio personaggio: “to see or not to see, that is the question”.
Moravia: Tu, dunque, hai voluto oggettivare, nella vicenda del film, una riflessione critica che riguarda la tua stessa professione, i tuoi stessi mezzi espressivi. E infatti tutto quello che nel film ha diretto rapporto con il mestiere del fotografo è sempre di prim’ordine, visto ed espresso con tensione drammatica, con evidenza assoluta. Alludo soprattutto a due sequenze, la prima in cui descrivi Thomas nel parco in atto di riprendere la coppia misteriosa; la seconda nella quale ci mostri Thomas al lavoro, in casa sua, mentre sviluppa le fotografie, e poi le scruta e vi scopre il delitto. E adesso dimmi un’altra cosa: tu hai introdotto a un certo punto una sequenza diciamo erotica: due ragazze irrompono in casa di Thomas, gli chiedono di fotografarle; Thomas finisce per spogliarle e per fare l’amore con tutte e due, in terra, nel disordine dello studio sconvolto dalla rincorsa e dalla lotta. Questa sequenza, secondo le convenzioni della morale corrente italiana, è assai ardita. Tuttavia il critico deve riconoscere che la scena è del tutto casta sia perché girata con grande distacco grazia ed eleganza, sia perché, appunto, le due attrici che l’interpretano sono anche loro, nelle nudità come negli atteggiamenti, caste. Tuttavia vorrei sapere perché hai introdotto questa sequenza che senza dubbio ti procurerà delle noie.
Antonioni: Ho voluto illustrare un erotismo per così dire casuale, cioè festoso, allegro, spensierato, leggero, stravagante. La sessualità di solito ha un volto cupo, ossessivo. Qui invece ho voluto mostrarla come qualche cosa di poco importante, di poco insistito, che può anche essere trascurato, non so se mi spiego.
Moravia: Ti spieghi benissimo. Ancora il disimpegno. Non soltanto dalle ideologie e dai sentimenti ma anche dal sesso. Da tutto insomma.
Antonioni: È il modo di vedere le cose che è proprio di questo secolo. Ci abbiamo messo un bel po’ di tempo a uscire dall’Ottocento: circa sessant’anni. Ma alla fine ne siamo usciti.
Moravia: Adesso dimmi una cosa: Carlo Ponti mi ha detto che è fiero di essere stato il produttore di questo film perché secondo lui Blow-Up è uno dei pochissimi film girati in piena libertà, senza le remore e le pressioni di tipo controriformistico che sono proprie dell’Italia di oggi. È vero questo secondo te? Voglio dire: è vero che il fatto di aver girato il film fuori dall’Italia ha avuto tanta importanza?
Antonioni: In un certo senso, sì.
Moravia: E perché?
Antonioni: Non so. Il genere di vita che si vive a Londra è più eccitante, almeno per me, di quello che si vive in Italia.
Moravia: In Italia la vita era eccitante, come tu dici, nel dopoguerra.
Antonioni: Sì, perché c’era il caos.
Moravia: In Italia adesso non c’è affatto il caos, al contrario.
Antonioni: Non c’è il caos neppure in Inghilterra. Ma c’è una cosa che in Italia non c’è.
Moravia: E qual è?
Antonioni: La libertà mentale.
Da L’Espresso, 22 gennaio 1967
Gian Luigi Rondi
Un’opera di pensiero. Un’opera di poesia. Ma anche, in senso elevato e nobilissimo, spettacolo e poi, in primo luogo e soprattutto, cinema, cinema nuovo, purissimo, Anche un film difficile, comunque. Per raccontarvelo debbo fare quello che non si dovrebbe mai fare con un’opera d’arte, dividerlo, cioè, in sezioni: il racconto, i significati e lo stile con cui e l’uno e gli altri, sono stati espressi in immagini.
Al centro del film un giovanotto di professione fotografo. Non un “paparazzo” all’italiana e nemmeno un fotografo del tipo di quello che Fellini mise a protagonista della Dolce vita, ma un esponente tipico della nuova gioventù inglese, totalmente disimpegnato, alla ricerca (per istinto, non per calcolo intellettuale) di una felicità considerata come lo scopo principale della vita, una felicità da conquistarsi con tutti i mezzi possibili, alcuni facilissimi (il sesso, la droga), altri più difficili come il lavoro, ad esempio, e non un lavoro ricercato solo come un mezzo di sostentamento, ma anche (e soprattutto) come strumento per soddisfare le proprie inquietudini.
Si tratti, comunque, di felicità facili, o di felicità difficili, quello che conta, per questo giovane (e per tutti i giovani come lui) è che siano felicità concrete, e concrete fin quasi al materialismo. La realtà è quella che si vede e si tocca ed è questa che li soddisfa; e che soddisfa tanto più quel giovanotto, abituato a fermarla, a fissarla addirittura con una macchina (la sua macchina fotografica) e sempre in grado, così, di verificarla, di dimostrarla agli altri e a se stesso; credendovi, perciò, con distesa e quasi svagata immediatezza.
Questo giovanotto, un giorno, gironzolando come fa sempre per strade e giardini alla ricerca di immagini da strappare alla vita quotidiana (e con cui, tra l’altro, intende fare un libro d’arte, tutto di fotografie), fissa sulla sua pellicola una brevissima sequenza sentimentale che ha come sfondo un parco di Londra: una ragazza e un uomo dai capelli brizzolati camminano su un prato tenendosi per mano, poi si abbracciano e si baciano sotto un albero.
La sua presenza, però, non passa a lungo inosservata. La ragazza lo vede, lo insegue e con voce concitata, quasi spaurita, pretende i negativi di quelle foto appena scattate, l’altro rifiuta, anche abbastanza divertito dallo spavento che a poco a poco vede disegnarsi sul viso della ragazza. Il piccolo incidente ha un seguito; il fotografo, infatti, mentre rientra a casa, è raggiunto dalla ragazza che, evidentemente, lo ha seguito e la scena si ripete anche con maggior veemenza di prima. La ragazza è bella, il fotografo non vede perché non debba profittare della situazione e così, vedendo che l’altra, per riavere le foto, è anche disposta a darglisi, sta subito al gioco. Barando, però. Quando l’altra se ne va, infatti, anziché darle i negativi, le dà un rotolino qualsiasi, quindi corre a sviluppare le foto tanto contese: foto abbastanza normali, che molto tranquillamente sembrano ritrarre una normale scenetta sentimentale.
Una certa espressione nei visi dei due amanti, però, e una strana occhiata che la donna, in una foto, lancia alle proprie spalle, incuriosiscono il fotografo che, per capire dove la donna stia guardando, si dà a ingrandire (blow-up vuol dire “ingrandimento”) alcuni dettagli delle altre foto. La scoperta è inattesa; e sorprendente. Tra il fogliame del parco sembra intravedersi qualcuno, un volto, una mano; e forse addirittura una pistola in quella mano. I due erano dunque osservati e spiati? Tra le foglie c’era qualcuno che voleva ucciderli o uccidere uno dei due? E la donna, che nelle foto sembra guardare con attenzione, ma con espressione enigmatica, era lì come vittima o come complice di un agguato? L’intervento del fotografo, insomma, aveva sventato un omicidio o anche un sordido tranello?
Non aveva sventato nulla. Il fotografo, infatti, preso da un violentissimo sospetto, torna a notte alta nel parco e sotto l’albero trova, cadavere, l’uomo dai capelli brizzolati. Della donna non sa nulla, non sa il nome, non sa il recapito, così, persa di colpo la sua tranquilla indifferenza nei confronti della vita (la morte può produrre di queste scosse anche in un disimpegnato), eccolo frugare Londra alla ricerca della sconosciuta, seguendo una falsa pista che lo conduce attraverso quegli ambienti beat che, in parte, sono anche i suoi. In quel mondo variopinto e pieno di fermenti, anche negativi, conosce persone che possono ascoltarlo, consigliarlo, ma si tratta pur sempre di un mondo che, avendo finito per tenersi troppo alla evidenza delle cose, nella costante ricerca di quelle concrete forme di felicità cui appena poche ore prima anche il nostro fotografo aspirava, non riesce ad andare in profondità e non ha quasi nessuna possibilità di ascoltare, di rispondere, di “comunicare”; soprattutto se molti dei suoi esponenti questa felicità concreta e terrestre, non riuscendo a trovarla nella realtà tangibile, la ricercano in quella artificiale e fumosa della droga.
Le poche ore, comunque, trascorse in quell’inutile inseguimento e in quell’affannosa quanto vana ricerca di possibili aiuti, consentono a qualcuno di sottrarre dallo studio del fotografo le fotografie e i negativi e di far scomparire, nel parco, anche il misterioso cadavere. Senza più le foto, e senza più neanche la prova concreta di quel cadavere che, non foss’altro, adesso gli consentirebbe di rivolgersi alla polizia, il fotografo perde di colpo tutti i legami che lo tenevano unito a quelle solide, terrestri realtà cui fino a quel momento si era appoggiato. La morte, quel morto, gli avevano acceso in cuore un senso di angoscia, ma la crisi viene adesso, quando la realtà evidente risulta facilmente sostituibile da altre realtà, meno giustificabili, meno spiegabili, per nulla chiare. È la fine? È il principio di un modo nuovo di aderire ad una evidenza diversa, e nuova, delle cose?
Sconcertato, perplesso, dubbioso, il fotografo si imbatte adesso in uno di quei “carnevali” di studenti che hanno, in Inghilterra, un po’ l’aspetto della nostra “festa delle matricole”, con la differenza che esplodono tutto l’anno, senza bisogno di spunti e di occasioni: mascherate in apparenza senza senso che consentono agli studenti di dare libero sfogo ai loro istinti sconsacratori o burloni, petulanti o rissosi. Questi in cui si imbatte il fotografo, con le facce dipinte, costumi strani, trucchi allucinati, stanno giocando a tennis, non sul serio, ma mimando una partita giocata senza palla. Il fotografo li guarda, ne studia i gesti, segue soprattutto quelle mani che, impugnando invisibili racchette, si palleggiano una palla che non c’è e quando la palla — inesistente e invisibile — gli cade davanti, lui la raccoglie e la tira. Sta al gioco, insomma. Forse quella realtà non evidente, cui, però, si può dar corpo idealmente, vale la pena di essere vissuta. Basta accettarne le regole.
Meno pessimismo di una volta, perciò. La crisi di questo ultimo personaggio di Antonioni è più salutare, infatti, di quelle dei suoi precedenti. Gli altri prendevano atto della fine dei sentimenti e riconoscevano che la vita, così com’è, non la si può vivere; questo, colto nel vivo di una sua solida adesione a una realtà solo terrestre (simile, per certi versi, a quella di cui — in anni diversi — partecipava, pago e soddisfatto, ma opaco e chiuso, il personaggio maschile dell’Eclisse), si distacca da questa realtà, ma ne accetta un’altra, certamente più profonda; quella che, proprio nel suo mutare, nel suo evolversi sembra contenere le possibilità di essere vissuta. Antonioni, insomma, respingendo l’idea di una realtà statica, fissa, immobile, sempre dimostrabile, accoglie, come dato positivo, quella di una realtà dinamica, in perpetuo movimento, di una realtà che trova proprio nel dinamismo la sua energia vitale.
Non spaventiamoci, sembra dire Antonioni. L’angoscia che nasceva in noi quando qualche elemento fuor dall’ordinario veniva a smentirci la fondatezza delle realtà tangibili e delle certezze assolute, può cedere il posto ad una virile accettazione della vita se ammettiamo la positività di questi continui movimenti del reale attorno a noi, di questo continuo mutare ed evolversi delle cose.
Antonioni, però, anche se è un pensatore, è, per prima cosa, un uomo di cinema, e per esprimerci, perciò, queste sue nuove acquisizioni filosofiche, non ci ha certo proposto un saggio dottrinale; come neL’Avventura, come ne L’eclisse, ma, qui con poesia anche più alta e compiuta, ci ha invece proposto un racconto cinematografico tutto acceso da splendide incandescenze visive, sostenuto da un clima psicologico particolarmente raccolto e riservato, anche là dove sembrava dover lasciare esplodere l’emozione, affidato ad una tecnica insolita, ed anzi nuovissima, ricca di fervide invenzioni.
A un dramma moderno, intanto, ha dato, per prima cosa immagini moderne. La pittura astratta, per un verso, e la nuova moda inglese per l’altro verso, gli hanno consentito di conferire ad ogni sua inquadratura un rilievo figurativo tutto particolare. Il film è a colori, come già Il deserto rosso, ma i colori dominanti, qui, soprattutto nello studio del fotografo che è una delle cornici cui più l’azione si affida, sono quelli che si impongono oggi a Carnaby Street, che ci propongono gli astrattisti e i pittori op e pop: i verdi, i viola, i gialli, i turchini, composti secondo linee, segni, contrasti di effetto rigorosamente pittorico; in contraddizione voluta con i colori realistici dei parchi e dei giardini e con quelli della coloratissima Londra di Chelsea, con le sue case laccate di bianco o verniciate di rosso e di azzurro.
Al centro di queste immagini (composte a volte con meticolosa esattezza, ricche, altre volte, di preziosi, singolari, barocchismi suggeriti dai drappeggi, dai pannelli, dalle piume, dalle attrezzature tecniche che furoreggiano nello studio del fotografò) si svolge il dramma del protagonista: studiato dall’interno, espresso sempre con severa misura, cadenzato da uno studio psicologico che, con procedimento che vorrei definire cechoviano, se il termine, anche al cinema, non fosse ormai abusato, si fa sostenere solo da indicazioni indirette, spesso addirittura implicite, in un clima drammatico che trova la sua forza emotiva soprattutto nel succedersi e nel variare degli stati d’animo. È, naturalmente, nel ritmo narrativo che Antonioni ha meticolosamente studiato anche con accorgimenti tecnici precisi.
Un ritmo, a differenza di quanto accadeva negli altri suoi film, straordinariamente veloce, addirittura precipite, essenziale e stringato, quasi ad esprimere, specie agli inizi, l’affannoso ritmo di vita del protagonista; un ritmo che per essere anche più diretto e immediato, sorvola (con il montaggio) su tutte le spiegazioni inutili, prescinde totalmente e polemicamente dal tempo reale cinematografico e di una stessa scena propone solo i momenti essenziali, tagliando asintatticamente quelli di passaggio, ricorrendo, in altri punti, ad un variare di immagini e di campi visivi che, prescindendo quasi totalmente dai mezzi normalmente usati fin qui dal cinema (ad esempio le “carrellate”) mette immediatamente e puntualmente lo spettatore di fronte alle immagini e ai dettagli che in quel momento gli servono per capire l’azione, per vederne le reazioni sui volti dei protagonisti, per conoscere l’evoluzione attraverso i loro gesti, portati abilmente, e al momento giusto, in primo piano.
In contrasto, invece, con quanto accade al momento in cui il blow-up svela, attraverso i vari dettagli fotografici, il mistero del parco: qui, allora, il ritmo si fa lentissimo, addirittura solenne, grave di alti silenzi nella colonna sonora; le fotografie ingrandite, appuntate ad una parete, si alternano con il volto sempre più teso del protagonista con una sommessa cadenza visiva che frena l’agitato discorso narrativo fin qui condotto, spalancando di colpo nel film il primo squarcio di mistero, il sospetto segreto della poesia, Una poesia che si ritrova più in là, quando gli interrogativi cominciano a pesare in cuore al protagonista, e una poesia — calda nel suo rigore, incandescente nella sua austera severità — che domina comunque tutto il film, sia nelle pagine intime e sospese, sia in quelle aperte e turbinose (fra queste ultime, val la pena di ricordare l’orgia erotica cui si abbandona il protagonista nello studio, con due ragazzine beat, tra sapientissimi fondali di carta viola).
Un’opera, insomma, di meditato vigore, sofferta, macerata, ma limpidamente risolta con una lingua cinematografica che, ad ogni istante, si impone con lo splendore del più nobile stile; un’opera avvincente, affascinante, tra le migliori (lo ammetto molto di rado) che possa accadere di vedersi al cinema. Rappresenterà a Cannes tra qualche giorno il cinema inglese. Non vedo chi potrebbe contenderle la Palma d’Oro.
Da Il Tempo, 14 aprile 1967
Giovanni Grazzini
Blow-Up, presentato stasera al festival di Cannes sotto bandiera inglese, e accolto con grandi applausi, non è il miglior film di Antonioni, e Dio vi guardi dal dar retta a chi lo considera il più bel film di tutti i tempi. Ma c’interessa come un forte contravveleno espresso dal seno stesso della civiltà dell’immagine.
L’idea-guida del film, se si possono chiedere idee ad Antonioni, anziché sensazioni e atmosfere, ha qualche secolo: le cose che vediamo con gli occhi sono davvero tutta la realtà, oppure ciò che colpisce il nervo ottico (e, per delega, l’obiettivo fotografico) è soltanto un aspetto del reale? È chiaro che Antonioni non ha la presunzione di rispondere a questi antichi interrogativi.
Blow-Up si contenta di dirci che oggi essi si ripresentano con urgenza perché c’è tutta una zona della società che tende a identificare la realtà col segno concreto da essa lasciato; e fa l’esempio di un delitto, che può anche sembrare non avvenuto se non restano prove. Chi credesse d’esserne stato testimone involontario, e d’averlo fotografato, potrebbe convincersi che è stata un’illusione ottica, se poi gli fossero sottratte le prove fotografiche e scomparisse il corpo del reato. Costui, allora, sarebbe il simbolo dell’uomo contemporaneo, che di fronte alla difficoltà di conoscere il vero filigranato dentro il visibile accoglie il gioco della vita come una finzione e annulla nell’automatismo dei gesti (come il fotografo negli scatti frenetici delle sue macchine) l’angoscia per l’inconoscibile problematicità del reale.
Per dare evidenza a una metafora in cui si esprime, ambiguamente, lo sdegno e l’attrazione che Antonioni prova nei confronti della civiltà moderna, Blow-Up è ambientato fra quei fotografi alla moda che con gli isterici clic dei loro obiettivi credono di sopperire alla propria passività sentimentale, e in quell’happening che è la Swinging London, la Londra dei giovani che tentano di vincere la noia con la marijuana e gli allucinogeni, scatenati nei balli, nei riti pop e op, anime vuote e sessi interscambiabili. Thomas, il protagonista, è appunto uno di loro: un fotografo di successo, specializzato in istantanee di cronaca e in ritratti di cover-girls, sempre affamato di soldi, benché possa già permettersi la Rolls Royce, e tanto concitato nel lavoro, di modi bruschi con le sue modelle, quanto privo d’autentica energia spirituale.
Gli accade, seguendo una coppia in un parco, di fotografare un abbraccio. La donna se ne accorge, e più tardi lo rincorre nello studio implorandolo di darle il rotolino: offre se stessa, pur di riaverlo. Thomas finge di accettare; le consegna un rotolino simile a quello incriminato, e si disporrebbe, senza entusiasmo, a godersi la ragazza, se in quel momento non suonassero alla porta: è in arrivo un’elica di aereo, che Thomas ha acquistato da un antiquario per dare un tocco bizzarro all’arredamento del suo studio.
Partita la donna, ingrandisce le fotografie prese al parco (blow up vuoi dire appunto ingrandimento), e s’accorge che quanto non avevano visto i suoi occhi è stato registrato dalla macchina: sulla pellicola, ingrandendo progressivamente i particolari, appaiono infatti un volto nascosto nei cespugli, un’arma e un corpo riverso. Tutto fa pensare che la donna abbia attirato la vittima in un trabocchetto.
Thomas comincia a chiedersi cosa fare quando arrivano due grulline che già in mattinata gli avevano bussato alla porta, nella speranza di essere assunte come modelle. In altri tempi sarebbero state due esempi di adolescenza traviata: ora rappresentano la gioventù londinese attratta dai facili successi. Scherzando, si spogliano a vicenda: è una distrazione accolta da Thomas con allegria, in un fracasso che cancella ogni piacere erotico.
E dopo l’uso le caccia: il pensiero dominante lo richiama verso il parco. Il sospetto era fondato: un cadavere è ancora sotto l’albero. Stordito, Thomas vorrebbe chiedere consiglio a un amico pittore, ma questi è occupato in intime faccende. Tornato a casa, nuova sorpresa: tutte le foto gli sono state rubate, meno una, la quale però, isolata dalle altre, più che costituire una prova assomiglia a una pittura astratta. Allora scende per strada. Intravede la donna del delitto, e rincorrendola s’intrufola in un night dove un chitarrista beat calpesta il proprio strumento e ne distribuisce gli avanzi alla platea urlante. La donna è scomparsa.
In cerca d’un amico, Thomas arriva ad un cocktail, che in altri tempi si sarebbe detto un’orgia di viziosi, ed ora rappresenta la «dolce vita» londinese. All’alba, torna nel parco per fotografare il cadavere, ma questo è scomparso. Privo ormai d’ogni prova, Thomas può dubitare d’essere rimasto vittima, lui stesso, di un’allucinazione. Quando arriva un gruppo di giovani mascherati da clowns, che fingono, senza palla e racchette, un incontro di tennis, sta al gioco: il dinamismo della partita mimata forse vince ogni dubbio dell’anima o del pensiero.
A rigore, il film non dice che la scena finale sia la presa di coscienza della necessità della finzione, con relativo autocommiserarsi: Blow-Up, più d’ogni altro film di Antonioni, non contiene una tesi. C’è chi interpreta Thomas come un esempio virtuoso di perenne disponibilità all’azione, e c’è chi lo considera, per questo, un emblema della solitudine cui può condurre il pallore dei sentimenti. Un fatto è certo: che Thomas, mostrando totale sfiducia nell’ordine civile in cui vive, non si rivolge subito alla polizia, né alla fine del film ha più motivi di pace interiore di quanti ne avesse all’inizio: semmai ne esce desolato, versione maschile di tante infelici eroine di Antonioni. È per questa strada che forse si può cogliere l’antica malinconia di Antonioni, il quale ha ormai superato anche l’angoscia, toccando la suprema solitudine. Ma quando impareremo a smettere di cercare, in Antonioni, la morale della favola?
Teniamoci al film. Un giudizio sia pur frettoloso dovrebbe cominciare col rilievo che Antonioni, per rappresentare la Londra di oggi, ha avviato il suo Thomas su un itinerario molto simile a quello che Fellini fece compiere al protagonista della Dolce vita per scoprire la Roma di ieri; né con frutti molto più nuovi di certi documentari sociologici. E questa non è l’unica eco di Fellini che dispiace in Blow-Up: è difficile che in un film possano apparire ancora dei clowns senza che si pensi almeno ad Otto e mezzo. La parentela, è ovvio, si ferma qui, ma non è senza significato che Antonioni difetti d’originalità nella struttura narrativa quando poi gli si accompagna quella rappresentazione piuttosto convenzionale del night e del cocktail.
Tipico di Antonioni è invece lo sforzo di puntare il grosso della scommessa sul personaggio di centro. E da dire che Thomas solo talvolta è a fuoco. Descritto con tinte efficaci finché è in movimento, tutto scatti nevrotici (in una bella scena iniziale esce stremato da una serie di convulse riprese fotografiche: il suo surrogato dell’amplesso), finché comanda a bacchetta le sue modelle e si sfrena nello scherzo, Thomas poi s’annebbia quando comincia a scervellarsi sulle foto del delitto, e passa ore a contemplarle, a confrontarle, ad appuntarle sulla parete. Non si sa bene cosa gli passi per la mente, di che ordine siano le sue sensazioni. È l’oggettivazione di un torpore che se nella prima parte è interrotto dalla precipite parentesi dei giochi amorosi alla lunga si riflette nel film, guidato da un ritmo lento che affloscia il suspense.Passato dal cinema intellettuale al thriller, Antonioni sembra aver portato con sé il vizio dei tempi lunghi, dei silenzi poco espressivi, il rifiuto di quel gusto per l’ellissi in cui invece si esprime il meglio del cinema moderno.
Ma all’interno d’una cornice un po’ annosa e opaca, Blow-Up ha dei gruppi di sequenze riuscite: sono, all’inizio, tutte quelle del rituale cui sono sottoposte le modelle fotografiche; le visite al negozio dell’antiquario; lo svogliato rapporto con la donna venuta a riprendere il rotolino; la liturgia della camera oscura; la zuffa giocosa con le ragazzine (una data nella storia del cinema: un nudo femminile non depilato, chissà se ce n’era bisogno) e l’enigmatico finale, sul quale il pubblico si scervellerà: tutte scene che confermano certe bravure di Antonioni, ma anche, inserite nel tessuto del film, la sua difficoltà di sciogliere in fluente, spontaneo racconto acute intuizioni. Ispirato a una novella dell’argentino Cortazar, il film ha del resto qualche imbarazzo già nella sceneggiatura, di Antonioni e Tonino Guerra; più volte si ha la sensazione che certi personaggi siano stati inventati per mettere sangue in una materia anemica anziché per vera necessità narrativa.
Considerando la vivace scenografia dello studio, i bei colori di Di Palma, le eleganti toilettes delle modelle, i globi oculari dell’interprete (nuovo arrivato) David Hemmings, veri obiettivi fotografici protesi sul mondo, e la partecipazione, però non determinante, di Vanessa Redgrave, di Sarah Miles e dell’indossatrice Veruschka, il film dà nell’insieme un’impressione di languore. Come di un fiore che non abbia avuto la forza di aprirsi, e tuttavia serbi un’ombra di profumo.
Da Corriere della Sera, 9 maggio 1967
Aggeo Savioli
Il film di Antonioni, figurativamente molto suggestivo, non rappresenta un nuovo approdo della ricerca tematica e stilistica dell’autore, ma piuttosto una sua riassuntiva e precisa messa a punto. Ottimi gli interpreti, tra cui spiccano David Hemmings, Vanessa Redgrave e Sarah Miles.
Pubblico strabocchevole e successo caldo, ma non entusiastico. per Blow-Up di Michelangelo Antonioni, presentato quest’oggi al Festival di Cannes, e tuttora in palio, più di tutti, per il gran premio della rassegna. Si è tanto detto, dagli Stati Uniti e dall’Inghilterra, della recente fatica del nostro regista, che forse vale la pena di cominciare dalla fine.
Blow-Up, dunque, non rappresenta — secondo noi — un nuoto approdo della ricerca tematica c stilistica dell’autore. ma una sua messa a punto, figurativamente suggestiva, magistrale per molti versi, e tuttavia affetta, nel suo insieme, da non poca pedanteria. Il concetto di fondo si sa: la realtà è inconoscibile, anche ai suoi livelli esistenziali elementari (nascita, copula, morte); il massimo di approssimazione ad essa coincide con il massimo d’ineffabilità della materia. Cosi il dettaglio di una fotografia. ingigantito (e Blow-Upvuol dire appunto «ingrandimento», in senso tecnico e metaforico), somiglierà spiccicato a un quadro astratto, i cui significati potranno essere dedotti solo n posteriori, e col beneficio d’inventario, e forse erroneamente.
Thomas e un giovane fotografo londinese: non è un personaggio, è una funzione: se riprende più volte la scena dell’incontro fra due amanti, nel verde parco silente, è per aggiungere un elemento distensivo alla sua crudele investigazione degli aspetti più degradati della città: barboni, sfrattati. mendicanti al dormitorio pubblico: che, dal loro canto, fanno bel contrasto con le sofisticate immagini delle indossatrici, alle quali, pure, Thomas dedica la sua attenzione professionale. Quasi allo stesso modo, il protagonista compra una enorme, inutile elica, che servirà a rompere il ritmo troppo lineare dell’arredamento del suo studio.
Ma la donna, sorpresa dal suo obiettivo in compagnia, chiede a Thomas la restituzione dei negativi, arriva ad offrirglisi per riaverli: lui la trae in inganno, lei gli dà un nome e un indirizzo falsi, sparisce. Svaniranno anche, dallo studio, le fotografie sviluppate, dopo che, sviscerandole scrupolosamente, Thomas vi avrà individuato una pistola brandita da un uomo e, forse, un cadavere abbandonato sull’erba. Più tardi, tornato sul luogo, Thomas vedrà (o crederà di vedere?) il corpo esanime della vittima. Cercherà di interessare altri al caso (non la polizia, almeno per il momento, perché c’è il «colpo» do fare), ma nessuno gli presterà orecchio, A una ulteriore ricognizione, la salma risulterà assente. Niente è successo, o è come se niente fosse accaduto.
Per chi non avesse ben capito, del resto, ecco il codicillo dell’apologo: un gruppo di ragazzi, abbigliati come pagliacci (e un tantino felliniani, se vogliamo) assistono alla partita di tennis che due di loro disputano, senza racchette né palla. Dopo averli guardati con sorridente diffidenza, Thomas entra anche lui nel gioco, e gli sembra persino di udire il rimbalzare della sfera, attraverso il campo.
Che tutto ciò (oltre a essere, com’è ovvio, argomento non di fede, ma di dibattito) sia stato già ampiamente affermato, e non solo da Antonioni, conterebbe peraltro non troppo, se non nel senso di fissare i limiti di Blow-Up nella carriera di uno degli artisti più ammirati e più discussi del cinema contemporaneo.
A noi sembra, però — e almeno a una prima «lettura» del film, necessariamente frettolosa — , che la coerenza, la dirittura del regista, il suo famoso puntiglio, lo stiano conducendo al rischio di atteggiamenti didascalici, quasi divulgativi: ad assumere motivi del mondo da lui osservato (la Londra beat, ad esempio) come puri e semplici tratti da collocare in un grafico già predisposto: e gli stessi problemi e rovelli ricorrenti nella sua opera (come quello del sesso) quali strutture portanti di un discorso già esaurientemente fatto.
Così, le scene erotiche, seppur girate a meraviglia e in sé preziose (ma la sequenza davvero splendida è quella del pedinamento nel parco) paiono quasi artifici meccanici, introdotti ad attenuare. e poi ad accrescere, una tensione di natura diversa; morale ed intellettuale.
Le qualità immediate di Blow-Up sono evidenti, e non si discutono: dalla cura posta nella fotografia a colori (di Carlo Di Palma) alla condotta della recitazione degli attori: l’efficace David Hemmings. Vanessa Redgrave, Sarah Miles (brave entrambe), gli altri. Ma da un maestro, quale Antonioni viene giustamente ritenuto, è eccessivo aspettarsi qualcosa di più che una stupenda padronanza del suo precipuo mezzo di espressione?
Da l’Unità, 9 maggio 1967
Mario Soldati
Ho visto già due volte Blow-Up, e credo non soltanto che sia un capolavoro, ma, almeno per adesso, il capolavoro di Antonioni: film che nessuno, onestamente, può proclamare inferiore a qualunque altro film di Antonioni, mentre ciascuno degli altri film di Antonioni può essere, secondo il gusto di chi giudica, proclamato inferiore a Blow-Up. Tuttavia, prima di questo film, Antonioni era in continuo progresso, e Blow-Up non mi ha sorpreso: dirò che me lo aspettavo e pubblicamente, a più riprese, addirittura l’ho preconizzato.
Blow-Up è opera personalissima di un regista unico e profondamente individualista come Antonioni. Parlato in inglese e girato interamente a Londra, con attori e collaboratori inglesi, non è un film italiano: è un film inglese, e che, a Cannes, rappresenta ufficialmente la Gran Bretagna.
Bene. Anche questo, secondo noi, è un punto a favore di Antonioni, il quale non è mai stato, nemmeno agli inizi della sua produzione, un artista provinciale, e nemmeno, se Dio vuole, nazionale, ma staccandosi dai nostri modi allora trionfanti nel neorealismo italiano o romanesco, dimostrò subito l’altezza, la tendenza fortemente lirica ed astrattiva della propria ispirazione, e, insomma, la propria natura modernissima e internazionale.
Se c’è una ragione (forse la sola) per cui penso che sia preferibile fare il regista di cinema e non lo scrittore, è proprio questa: che si parla a tutto il mondo: senza bisogno, o quasi, di essere tradotti: con la stessa facilità di comunicazione con tutti i popoli, o quasi, del musicista e del pittore. Quante volte ho pensato che Gozzano non ha la fama che si merita soltanto perché è un poeta, e, peggio ancora, un poeta italiano: mentre se fosse stato un musicista nessuno lo avrebbe giudicato inferiore a Puccini, cui tanto assomiglia, e mentre così, come poeta, tutti lo giudicano inferiore a uno che invece è inferiore a lui, a D’Annunzio, che acquistò fama nel mondo assai più con la vita che con le opere.
Vale dunque la pena di usare un mezzo meccanicamente internazionale come il cinema e, facendo il cinema, ostinarsi nel provincialismo della propria nazione? No, non vale la pena. Questo capì, fino dal principio, Antonioni. E, a scanso di equivoci, avverto che non parlo di contenuti, ma di forme: o, se più vi piace, di arte. Antonioni era internazionale anche con Il deserto rosso, e anche con Il grido: anche quando girava nei paesi suoi, e anche quando, faccio per dire, parlava «in dialetto». Figuriamoci adesso, che dal ferrarese è passato al cockney.
Una mattina di sole, nella buona stagione, sulla Genova-Serravalle, che ancora, pietosi di un passato lontanissimo sebbene recente, molti chiamano «l’autocamionale», fui sorpreso da uno spettacolo meraviglioso, affascinante, e indecifrabile. All’uscire dall’oscurità di una galleria in curva, vidi improvvisamente, cento metri innanzi, sfolgorare al sole un camion tutto carico e gonfio, tutto irto e ricciuto, tutto traboccante di un groviglio d’oro argento acciaio specchio, minutissimi mobili tremanti prismi di luce.
Soltanto all’ultimo momento, passandogli accanto e superandolo, capii di che cosa si trattava: era un camion carico di ritagli di lamiera, più precisamente mucchi o «nidi» di enormi fettuccine di stagnola.
Altra salita, altra galleria, altra curva: e altro camion come il primo. E un terzo, e un quarto. Quanti ne avrò contati prima di arrivare ai Giovi? Lo spettacolo era, ogni volta, inebriante. Quella materia ricciuta, lucente, traballante viveva, continuamente cangiava col continuo lento curvare della strada sotto il sole. Non mi sarei mai stancato di incontrare camion di stagnola. E prima che l’ultimo, o piuttosto il primo di loro, dato che stavo risalendo la carovana mi sfilasse accanto, avevo pensato a Michelangelo Antonioni.
Non può certo stupire, questo pensiero. Né io, allora, me ne stupii. Tanto più che l’associazione mi si era presentata nella forma più semplice e, direi, più rozza. Ecco, m’ero detto molto banalmente, ecco una bella idea per Michelangelo: come gli piacerebbero questi camion di stagnola nel sole! Bisogna che mi ricordi di dirglielo. O a lui o a Tonino Guerra, il suo sceneggiatore. Chissà che nel prossimo film non trovino modo di adoperare quest’idea… Interruppi, ricordo, il corso del mio pensiero: perché, mi dissi, ho battezzato come «idea» ciò che, normalmente, avrei sempre considerato soltanto come «oggetto»? Può essere un’idea, un camion di stagnola?
Per uno scrittore no. Ma per un pittore, e per quel pittore-di-una-pittura-in-movimento che è il regista di cinema, quale mistero più ricco, quale più profonda sorgente d’ispirazione? Le fiamme d’un caminetto, le onde d’una mareggiata che s’infrangono sulla scogliera: uno può stare a guardarle all’infinito, senza stancarsi mai. Ebbene, il camion della stagnola offre lo stesso incanto delle fiamme e delle onde, e qualcosa di più: c’è l’industria, c’è l’opera dell’uomo, c’è il momento storico attuale, la macchina, la strada, il viaggio, l’andare delle creature sotto l’andare del sole, l’uno e l’altro apparenti e insieme reali, ingannevoli e insieme indubitabili.
L’incontro coi camion di stagnola accadde due o tre anni fa: ricordo che non avevo ancora visto Il deserto rosso, cioè il primo film a colori di Antonioni: e ricordo d’essermi detto che, in ogni caso, quell’effetto prismatico e luminoso era più facilmente realizzabile in bianconero.
In occasione del Festival di Cannes ho rivisto Blow-Up per la terza volta. Ho già detto che considero questo film, fino ad oggi, come il capolavoro di Antonioni. Aggiungerò che, alla terza proiezione, il film m’è parso, miracolosamente, ancora più rapido che non alla prima.
Quanto ai camion di stagnola, me ne ero sempre dimenticato di parlargliene, sia ad Antonioni sia a Guerra. M’ero, anzi, completamente dimenticato dei camion stessi. Me ne sono ricordato adesso, al primo e all’ultimo episodio di Blow-Up, con quella camionetta gremita e traboccante di hipsters imbiaccati, che compie evoluzioni nelle vie o nei viali di un parco, a Londra. E capisco che i camion di stagnola sono qualcosa di più che un oggetto, un soggetto, o anche un’idea per Antonioni: i camion di stagnola sono, da soli, un’immagine dell’arte di Antonioni: questo incanto, questa magia che ti afferra nella sua spirale luminosa e che ti appaga, prima ancora che tu te ne faccia un problema, prima che tu te ne chieda il significato.
Non c’è nessun dubbio, infatti, che Blow-Up sia un grande passo avanti, per Antonioni, perché rappresenta un deciso superamento della esperienza fenomenologica, una condanna, anche se inconsapevole e anche se involontaria, dell’estetismo. Tutto ciò che i critici hanno detto e continueranno a dire di questo film non corrisponde assolutamente al suo senso più semplice, che è quello di un’educazione sentimentale ed umana, definitiva ed irreversibile: al principio, il giovane fotografo Thomas considera la vita come un fenomeno puramente visivo e da essere interpretato dal di fuori, come spettacolo disimpegnato, divertente, folleggiante: al principio del film, dunque, il giovane fotografo Thomas è anche lui un hipster, un beat, come gli altri della camionetta, e come quelli che poi incontreremo nella sala da ballo dove si fracassa la chitarra elettrica, o nell’appartamento dove si fuma la marijuana.
Ma ecco, abbandonandosi al meccanismo stesso della sua professione di fotografo, Thomas scopre non tanto UN delitto, quanto IL delitto: prende, per la prima volta, coscienza con la realtà: che, oltre lo scherzo e oltre tutti gli scintilli, è impastata d’atrocità e di malvagità, e non senza scopo, forse, non senza speranza d’un lento miglioramento, d’una lenta e quasi inavvertibile espansione, se, nonostante tutto, proviamo qualche piacere a vivere, e se attraversiamo momenti di felicità nella contemplazione della bellezza.
In altre parole, la castità di Blow-Up è proprio il contrario di quello che si crede e si dice. E non importa se, tra coloro che lo dicono e lo credono, c’è anche Antonioni, e c’è anche Guerra. Quante volte gli autori più felicemente dotati non sanno quello che si fanno. Il fenomeno beat, questo dice Blow-Up, è un fenomeno recessivo, un vecchiume travestito di novità, un ultimo ripullulare dello estetismo. E la scuola filosofica della fenomenologia, che fin dal principio s’è riconosciuta nelle opere di Antonioni, è qui, da Blow-Up, finalmente, smascherata. «Blowing up», e cioè «ingrandendo» la realtà fenomenologica, Thomas e Antonioni scoprono che cosa c’è «dietro» quella facciata così bella e così insulsa. Scoprono che, nella vita, c’è «ben altro».
In principio, fotografando la realtà, Thomas dice, con un sorriso idillico e compiaciuto: «Non c’è altro, credetemi, amici, non c’è altro che la bellezza, non c’è altro che la superficie». Alla fine, fingendo di giocare coi finti giocatori di tennis, il sorriso di Thomas è diverso: è amaro, virile, tragico e ottimista insieme. Come se dicesse agli hipsters: «Sì, sì, poverelli grulli… continuate pure a credere che non esista se non l’apparenza! C’è ben altro, amici. Ben altro. E il delitto è veramente esistito proprio perché le prove ne sono scomparse, proprio perché c’è stato qualcuno che si è adoperato a farle scomparire».
Presa di contatto con la realtà tragica della vita. Rifiuto dell’estetismo. Che il succo, o per lo meno il pericolo della fenomenologia fosse proprio questo, l’estetismo?
Il segreto di Blotv-up è un ritorno alla tradizione: scopriamo tutta la secchezza, tutto il vecchiume dei beats: avvertiamo la vitalità di posizioni che molti credevano superate.
Com’erano belli, però, i camion di stagnola!
21 maggio 1967
Da Cinematografo, Sellerio Editore, Palermo, 2006
Filippo Sacchi
Blow-Up vuol dire esplodere, eventualmente anche enfiare poiché enfiandosi un corpo ingrandisce, in gergo fotografico è usato per “ingrandimento”. Subito dopo la ripresa dell’ingrandimento è la manipolazione tecnica professionalmente più importante, perché quella che permette di entrare nel tessuto stesso dell’immagine, di isolarne i dettagli, dopo di che soltanto il fotografo potrà decidere il taglio, il ritmo. È così che Thomas, aderentissimo, calibratissimo (David Hemmings), giovane fotografo londinese di gran successo, specializzato nei servizi di moda, nell’ingrandire certi rotoli scattati in un parco dell’East-End intravede confusamente qualcosa di impressionante. Lontano sul prato, un uomo e una donna erano impegnati in uno strano colloquio. Ebbene, da un cespuglio vicino appariva stesa a terra la forma che poteva essere un corpo inanimato, e accanto al corpo una pistola.
Se Antonioni pone al centro del suo racconto questo non giallo, non sarà per seguirlo nei suoi sviluppi e sino alla soluzione poliziesca. Ci porta, è vero, prima al sospetto (quando la ragazza del parco si precipita subito dopo a casa di Thomas per acquistarne il negativo) e poi, quando ignoti gli svaligiano lo studio asportando negativo e ingrandimenti, alla certezza del delitto. E, in effetti, vedremo Thomas correre sul posto e ritrovare sotto il cespuglio, nelle ombre della sera, il cadavere riverso. Però non sapremo mai chi uccise né chi fu ucciso. Perché, naturalmente, Thomas non avverte la polizia.
Non avverte perché vuole fotografare prima il cadavere. Quel delitto ancora ignorato in un parco pubblico della città può essere un formidabile scoop, un grande colpo professionale, e perciò va a chiedere la solidarietà del suo agente ed editore. Ma a casa di costui c’è, quella sera, uno sciagurato party, con fumeria di allucinogeni, e l’editore è già incretinito. Anche Thomas crede all’invito dell’ebbrezza, quando esce dal sopore è l’alba. Corre al parco, va al cespuglio. Il cadavere non c’è più. Ma quello che importa ad Antonioni non è il cadavere, né il delitto. È la spinta di rottura che quella fantomatica avventura ha sui nervi e sul personaggio di Thomas, preso come paradigma di una particolare esperienza e modo di vita.
È il mondo delle generazioni giovanissime che tentano l’affascinante esperienza di ripartire da zero, di bruciare in se stessi gli schemi, i pregiudizi, i tabù delle generazioni precedenti, nella confusa certezza che, sgombrati i detriti, emerga un costume umano più coraggioso, più libero e serio. Non importa se per abbattere i tabù si metteranno abiti strani e si comporteranno da primitivi: “è necessario che avvenga lo scandalo”. E non importa se, nei più vivi e intelligenti, quella negazione si manifesti spesso in un ricorso all’irrazionale e al sub-umano: non scordiamo che questa civiltà dell’atomo e dell’imponderabile è tutta voltata verso il profondo e gli abissi.
Thomas è un tipico prodotto di questa eversiva anarchia. È un grande fotografo alla moda. È un genio della fantasia gestuale. Ora atteggiate in acrobatici e disossati arabeschi, ora in una rigidità di idoli, modelle strane e meravigliose, che anticipano nella loro stilistica asessualità la femminilità del futuro, si fissano attraverso il suo infallibile obbiettivo in un mondo di favolosi manichini.
Eppure Thomas è già minato, è minato dal vuoto, dalla irrequietezza, dalla insoddisfazione che una civiltà ufficialmente così prospera, arrivata, rorida come le facce degli anziani che la governano, dà alla sua generazione, perché i giovani ne avvertono, anche se non li spiegano, gli assurdi incombenti: l’opulenza e la fame, la pace a parole e la guerra a fatti, il cristianesimo domenicale e la ferocia quotidiana.
Ebbene, quella strana avventura, quel mistero che lo ha sfiorato, che egli ha tenuto per un istante in mano, e che subito si è dileguato come un fiato, scatena la crisi. Il cadavere non c’è più. Eppure lo aveva visto. Ma c’era davvero? Il Thomas che a passi smarriti, nella luce tersa del primo mattino lascia il parco deserto, è un Thomas smarrito, sfiduciato, distrutto. È a questo punto che Antonioni con un colpo di sardonico, stupendo lirismo ha inserito la scena della finta partita a tennis, quella partita spettrale alla quale, improvvisamente ammutoliti, i nottambuli fracassoni della carnevalesca jeep assistono con movimenti da automi, divenuti spettri anch’essi.
E quando l’obbiettivo comincia ad allontanarsi scoprendo laggiù in mezzo al prato Thomas, sempre più piccino, sempre più vinto, sempre più solo, e di colpo nel terribile vuoto e silenzio dell’alba arriva il primo soffice tonfo della palla inesistente, è come se si spalancasse davanti a noi tutta la vacua irrealtà del visibile.
Non so se ho fatto capire che per me Blow-Up è il capolavoro del cinema nuovo e delle nuove tecniche visive. Se poi si può trovare qua e là qualche avanzo di maniera (l’orchestra beat), qualche superfluo incastro di perizia (Thomas che sorprende la sua donna con l’amico), e al solito qualche metro di passeggiata di troppo, non ha molta importanza.
15 ottobre 1967
Goffredo Fofi
Anche Antonioni intende portarci al centro di una situazione europea tipo, anzi avanzata e rinnovata, nella Londra colorita della “rivoluzione giovanile” del costume. Anche lui si propone di mostrarci in che modo viviamo. Lascia l’Italia provinciale e inguaribile, si direbbe dopo Il Deserto rosso; e cui pretese “industriali”, i cui discorsi, erano forse troppo sproporzionati alla Ravenna mostrata, spinti troppo oltre per amor di dimostrazione di una tesi. Londra può sostenere meglio le sue riflessioni, ora a livello più vasto si direbbe, colle sue dimostrazioni di come sia possibile vivere senza senso, senza proporsene la ricerca. Ma l’importante è nel modo in cui egli la vede e la narra.
De Il deserto rosso avevamo salvato proprio gli inizi di un discorso, tra tante scorie, sull’uomo d’oggi o del futuro, nella società industriale d’oggi o del futuro: il tentativo di analisi di una sottile e profondissima metamorfosi. Mal detto, goffo approssimativo, era pur sempre un tentativo degno di rispetto; dimostrava la presenza di un regista, inquieta e attenta perfino a volte spiritata o ingenua, ma comunque avanzata dilatata, suscettibile di seri sviluppi. Rispetto a essa Antonioni non sembra, con Blow-Up, essere andato molto oltre. Questo film è, almeno apparentemente, di stasi e riposo, a tratti perfino di gioco, ammirevolmente messo in scena, pieno di suspense, di immagini stupende.
La prima parte è indubbiamente la migliore, sostenuta com’è da una grande invenzione (di Cortazar) applicata con intelligenza, e con estrema sensibilità. Per la prima volta, forse, Antonioni è in qualche modo fuori dal film, non presenta in esso la “sua” realtà, ma un fotografo (e potrebbe essere un regista che potrebbe essere Antonioni) che osserva la realtà, e una “sua” realtà. Questo gioco d’obiettivi è narrato in modo nuovo. La scena del parco (quella fatidica dell’idillio dietro al quale la pellicola impressionata svelerà, non più vergine, l’assassinio) potrebbe essere, al limite, un brano di Cronaca di un amore quanto a soggetto. Ma il ritorno all’origine — riscontrabile anche nell’uso della convenzione “gialla” — è solo apparente: Antonioni si piega sulla realtà cercando di oggettivarla, e giungendo tuttavia a conclusioni sue tipiche: l’unica realtà che resista, che esista, è quella dell’artista, o della macchina che registra (e non fu lui a dirigere in teatro I am a camera di Isherwood, anni fa?), i due in sottile disidentificazione, in processo più spesso parallelo che congiunto.
Il cinema nel cinema, lo strumento e l’artista che se ne serve come soli approcci validi alla comprensione della realtà, tremendamente oggettiva o estremamente soggettiva, mai insomma l’apparente, l’immediato quotidiano. Si comprende come il film, da questo punto di vista, offra spunti di analisi degne di approfondimento in rapporto all’opera tutta del regista.
Ma il suo fotografo (che fa pensare, nell’uso “dannato” e micidiale della macchina, molto di più a quello del Peeping Tom di Michael Powell che non al frenetico ricercatore di particolari insignificanti di mutazioni nascoste di Muriel, che pure dal primo derivava) è portatore anche d’altro, di un discorso approssimato, generico, abbastanza fasullo nella sua cultura mediata, che apparenta tutta una parte del film alle sciocchezze che circolavano abbondanti ne Il deserto, ai riferimenti d’altri film, a certi dialoghi pesanti e mediocri.
Dove Antonioni lascia l’intuizione (o la biografia) si direbbe che abbia a suo sostegno solo idee vaghe e di seconda o terza mano, logorate, solo raramente rinvigorite dall’invenzione registica dalla pregnanza dell’istinto narrativo. È la parte più deleteria di Antonioni, proprio quella che dovrebbe e vorrebbe essere più adulta, che esplode in questo film come non mai.
Già lascia perplessi l’immiserimento operato da Antonioni e Guerra sul bel racconto di Cortazar da cui il film è tratto, l’esemplificazione e riduzione cui quello è stato sottoposto. In esso infatti il fotografo che riprendeva sui quais della Senna una signora piacente far sottili profferte a un adolescente, scopriva “ingrandendo”, in questo “mercato” anche tenero, leggermente e piacevolmente morboso, un “mercato” più sozzo: nella macchina accanto, un volto, uno sguardo avido di uomo che è colui per il quale la dama contratta… Idea troppo “fine” per sostenere un film, o troppo poco “evidente”? Antonioni ha scelto l’assassinio, un morto è qualcosa di più diretto, indubbiamente ha un peso, dice fin troppo chiaramente cosa egli sia. Altra soluzione di facilità mi sembra anche il trasferimento della vicenda a Londra, benché non vi veda nulla di disdicevole (come per il morto, d’altronde).
Dopo lo splendido inizio, coito mascherato voyeuristico e disumanato, dopo tutte le scene del parco, dopo la bella presentazione del personaggio di Vanessa Redgrave, dopo l’orgetta ammirevole dalle immagini di un manierismo delicato e ossessivo nella franchezza e freschezza della scena, la necessità di “spiegare” investe Antonioni. “Il faut etre profond”, ed egli ce ne offre un tentativo insistito, volgarizzato, perfino penoso, ma soprattutto banale, per carenze culturali fiducia in se stesso e in idee d’accatto, ricerca del successo.
Il risultato è tanto più irritante quanto più interesse, stima e affetto si hanno per Antonioni, quanto di più ci si attendeva da questo film. Invece, così com’è, si capisce che incassi in America, più di Cleopatra (e non è il caso di dire: Antonioni, ben ti sta!, visto che il regista se ne è pubblicamente gloriato). Un’azione di “volgarizzazione” non è di per sé condannabile, se idee altrove banali vengono espresse con originalità e convinzione, rivissute in profondo.
Quel che stupisce è in definitiva che Antonioni, per “far profondo”, non abbia trovato di meglio che ricorrere a un simbolismo (rifugio degli incapaci, come è noto) degno del peggior Fellini. E questa proprio non gliela perdoniamo proprio perché soluzione di comodo, sciocca, cui si è sinora rifiutato decisamente e rigorosamente.
La civiltà di consumo, il dominio dell’oggetto in quanto tale, la sua inutilità effettiva e feticistica? ed ecco un’elica immensa che il protagonista si compra senza saper che farne. La realtà e l’immaginazione, e dove finisce l’una e comincia l’altra? e Sarah Miles che esclama di fronte all’ingrandimento brulicante e incomprensibile del morto: sembra un quadro astratto. La fine dei sentimenti? Voyeurismo, sesso come allusione mortale e autosufficienza dell’eroe. La tragedia che cova sotto questo mondo? Un cadavere, un morto, cui nessuno crede che sparisce, di cui nessuno si occupa, che sia ben evidente, che lo spettatore (a meno che sia più tardo di Sadoul) non abbia dubbi. i giovani, la loro rivolta senza direzione? L’orrendo episodio della chitarra elettrica. La vita senza senso, la realtà di maniera in cui si è costretti a vivere, lontani dalla realtà vera, e dove comincia questa e finisce quella? Il didattismo stupido e facile, eccessivamente, straordinariamente, incredibilmente facile della scena finale.
Da Ombre rosse, n. 2, 1967
Tullio Kezich
Qualcuno dice che Blow Up, prodotto da Ponti con capitali americani, ci offre un Antonioni meno autentico, legato ai vezzi del grande giornalismo fotografico. In realtà il regista, che ha preso le mosse da un racconto dell’argentino Julio Cortàzar, stavolta è riuscito a inserire i suoi temi in una dimensione insolita che scavalca ogni residuo di provincialismo.
Blow Up è per la Londra dei nostri giorni ciò che La dolce vita fu per la Roma agli inizi degli anni sessanta: e come allora molti scrissero che la visione di Fellini non corrispondeva a una realtà verificabile, cosi oggi c’è chi afferma che la città di Antonioni ha poco in comune con la Swinging Town.
Può anche darsi, sul piano della stretta verosimiglianza; tanto più che la seconda parte del film, nel descrivere i vagabondaggi del personaggio attraverso diversi ambienti della città, è meno felice della prima. Antonioni ha trovato sul Tamigi una scenografia inedita entro la quale illustrare i suoi temi ricorrenti: l’alienazione (pensiamo a Hemmings che fotografa Verushka mimando un inesistente atto d’amore), l’infinita penetrabilità dell’immagine (c’è sempre un ingrandimento, un blow up teoricamente possibile, che scopre cose dove gli occhi non vedono), la solitudine dell’individuo (il fotografo assediato dalla silenziosa violenza della realtà che lo circonda).
Ma nei film non ci sono note crepuscolari né velleità suicide, l’obiettivo del protagonista si apre sull’infinita varietà dei fenomeni con un’aspettativa che nemmeno le più odiose esperienze riescono a distruggere.
Blow Up, in questo senso, è una dichiarazione di disponibilità, forse l’atto di nascita di un nuovo Antonioni. Tentando di fare un film oggettivo, il regista si è confessato più a fondo che altrove: impossibile non riconoscerlo in questo fotografo che incontriamo travestito da operaio all’uscita dì una fabbrica (un omaggio all’esperienza neorealista) e seguiamo da un incontro all’altro nelle sue curiosità per la donna, gli oggetti e soprattutto le immagini.
Ermanno Comuzio
Blow-Up non è un film semplice, che si possa schematizzare facilmente: di qua il suo tema, di là la sua realizzazione, divisa in direzione degli attori, uso del colore, del montaggio, del sonoro o altro. I suoi significati sono sottili e molteplici, e vanno analizzati, ci sembra, non settorialmente, ma globalmente, poiché mai un film fu più fuso e ricondotto all’unità come questo (ed è già un preciso giudizio di merito): considereremo, dunque, il film nel suo aspetto di “cosa dice” e “come lo dice” secondo una successione tutta personale di quelli che ci sembrano i suoi motivi basilari, i quali si succedono e si riprendono come in una composizione musicale.
Perché, anzitutto, questa storia è ambientata a Londra? Non tanto per liberarsi dal provincialismo («si allargano gli orizzonti intellettuali, si impara a guardare il mondo con altri occhi» — ha detto Antonioni) quanto perché Londra è diventata in questi ultimi anni il centro della “modernità”, o di un determinato tipo di modernità, magari più appariscente che reale, ma indubbiamente significativo. Londra, nella sua vistosa spaccatura tra vecchio e nuovo, tra tradizione severa e originalità provocatoria, si è assunta una funzione di guida: le irrequietezze della sua gioventù, le arditezze del suo teatro, la spregiudicatezza del suo cinema, le novità della sua moda, la rivoluzione dei suoi costumi incidono profondamente sul gusto del nostro tempo.
La Londra nuova, quella di cemento e di vetro, apre il film. Ma subito, su questo sfondo, ecco la jeep carica di ragazzi mascherati e vocianti: è la generazione irrequieta che con il suo comportamento volutamente scomposto e provocatorio si oppone all’ordine codificato. A parte il senso di questa presenza (che suggella poi il finale del film) la carnevalata è ad un tempo realistica e simbolica, poiché se sta a suggerire subito questo tipo di esistenza nuova è anche una di quelle manifestazioni goliardiche, con la questua per le strade in favore delle iniziative scolastiche, come si praticano in Inghilterra.
Il dualismo fra il mondo della conservazione e quello della ribellione è continuo. La Londra dell’ospizio dei poveri, dal quale esce Thomas nella luce del primo mattino,– è quella bruna e fuligginosa della vecchia periferia; quella di Chelsea e del quartiere in cui Thomas lavora è coloratissima: case rosse e azzurre, infissi bianchi su pareti nere, ostentatamente, dimostrativamente variopinte. Il negozio dell’antiquario, di classico mattonato primo novecento, e circondato da ogni parte dagli edifici modernissimi dell’East End. Così, vicino alla guardia reale in colbacco e giacca rossa che passeggia impettita su e giù per il marciapiede, ecco la coppia di capelloni “edoardiani”; dopo il vecchietto che infila la cartaccia sul bastone, i giovani della manifestazione di protesta.
L’accento cade comunque sul “nuovo”. La professione di Thomas, il protagonista, è tipica: fotografo di moda, nonché fotografo alla moda. Pubblicità, cosmopolitismo, l’immagine come veicolo numero uno, “mass-media”, le riviste, i cartelloni, gli spettacoli, la tecnologia, le modelle, le “hostess”, i capelloni, l’arte astratta, “pop” e “op”, la musica “beat”, le esperienze inconsuete, eccitanti, magari con l’aiuto degli allucinogeni: tutta una mitologia che agisce potentemente sugli animi dei giovani d’oggi, condizionandone non di rado l’esistenza, facendoli diventare, nell’Inghilterra di Mary Quant e dei Beatles, succubi delle mode.
Thomas è un ragazzo intelligente ed un professionista serio: sembra essere, lui, uno di quelli che determinano le mode, non che le subiscono. Antonioni ha scelto bene il suo tipo: David Hemmings, con quella sua faccia spenta, quei suoi furori subitanei, ma soprattutto con le sue ombre e le sue perplessità, è una perfetta incarnazione del personaggio. Il quale dispone di uno studio favoloso ed esercita una professione indubbiamente interessante, ma non si può certo dire che viva una vita piena, sua. È sempre in uno stato di eccitazione che si alterna a brevi pause di spossatezza; di notte non dorme per i “servizi”, di giorno non mangia, spinto da mille occasioni e da mille impegni. Beve, questo si. Quando lavora si toglie le scarpe ed ha continuo bisogno di musica, musica come stordimento, musica come compagnia. Anche quando si sposta in automobile, una Rolls-Royce, simbolo del successo, dotata di un radiotelefono che gli permette di tenersi sempre in comunicazione col suo studio: poiché Thomas è anche un uomo d’affari e ha fiuto. Proprio questo gli permette di tenersi at the top, in cima alla scala.
Ma il suo lavoro non lo soddisfa più che tanto. Le modelle che fotografa non sono donne vere, sono automi, astrazioni di donna. Nessuno dei personaggi del film e pienamente realizzato nella sua esistenza. Thomas è sempre in movimento, sempre alla ricerca di qualcosa che gli sfugge, insoddisfatto di sé, pur “giocando” continuamente. Non ne può più di Londra, lo dice egli stesso, e le sue stanchezze fisiche sono accese ogni tanto da scatti del tutto illusori, come quello della sala di musica, dove Thomas scatena una rissa per impadronirsi di un manico di chitarra — un feticcio della nostra epoca — che subito getta con disinteresse assoluto sul marciapiede.
Thomas dunque è un deluso e un incerto, sia sul piano professionale che su quello privato. Aggravato dai contatti con gli altri: la sua donna lo tradisce, il suo amico non lo ascolta quando egli ne ha bisogno, stordito dagli allucinogeni (ed egli stesso si lascia attrarre dal morbido rifugio del party in cui ci si abbandona ai paradisi artificiali). Eppure si rende conto che ci vorrebbe qualcos’altro. Ma cosa occorre, e come arrivarci? Uno scandalo, una rottura, ecco quello che ci vorrebbe, come la ragazza dell’antiquario che vuol piantare tutto, andare nel Nepal (o in Marocco…), come Jane, che è sull’orlo del disastro. «Un disastro e quello che ci vuole per veder chiaro le cose» — dice Thomas alla donna.
Ecco: veder chiaro nelle cose. Scoprire il loro vero significato, ascoltare il senso intimo della musica, non seguirne esternamente il ritmo (come invece fa Jane). Il “giallo” in cui Thomas si trova coinvolto, e che questi vorrebbe risolvere con gli strumenti della sua professione, è un avvenimento che potrebbe fungere da elemento catalizzatore in quest’altro “giallo”, quello vero, che e la ricerca della verità. In sé, la mano che impugna la pistola, l’ombra che si rivela un cadavere, il cadavere stesso e le fotografie che spariscono sono fatti imprecisati, e non necessaria è la soluzione del mistero.
Il senso del racconto sta altrove, poiché ben altro è il mistero, come il senso di L’avventura andava ben oltre la sparizione insoluta della ragazza: «Il racconto come intreccio — scrive Umberto Eco riferendosi proprio a L’avventura — non esiste proprio perché nel regista c’è la calcolata volontà di comunicare un senso di indeterminazione, una frustrazione degli istinti romanzeschi dello spettatore, affinché questi si introduca fattivamente al centro della finzione (che è già vita filtrata) per orientarsi attraverso una serie di giudizi intellettuali e morali».
Insomma Hitchcock, tirato in ballo da qualcuno, non c’entra proprio. È a questo punto che la professione del protagonista assume un rilievo preciso, ben al di là del dato esterno (è lo stesso Antonioni che avverte: «Ho l’impressione che l’essenziale sia di dare al film quasi un tono di allegoria»). Thomas, dunque, oltre che fotografo-tecnico e fotografo-uomo d’affari, è un fotografo-artista, un creatore, un intellettuale. La sua è la ricerca degli intellettuali del nostro tempo per i quali le condizioni di vita del mondo contemporaneo hanno acuito fino allo spasimo la opposizione arte-vita. Era anche il dramma di Sandro, l’architetto di L’avventura, e di Giovanni Pontano, lo scrittore di La notte. Thomas vorrebbe non creare discontinuità fra l’arte e la vita, ma in realtà fra queste due dimensioni c’è un abisso, in quanto in nessuna delle due egli trova quel che darebbe significato ad entrambe, la genuinità, l’autenticità. La verità, in una parola.
Thomas compie degli sforzi per catturare la realtà (le foto scattate nell’ospizio: uno sportello col vetro scheggiato, un materasso rivoltato, un vecchio nudo che ripone i suoi miseri effetti; quelle dell’album: una donna in età, un funerale, una manifestazione operaia, dei bambini poveri, un “barbone”), ma subito questi sforzi si indirizzano verso l’affare, la situazione da sfruttare nel senso professionalmente più banale. Egli strumentalizza, insomma, questa realtà. Ma ecco la rottura causata dalla scoperta occasionale del delitto, alla quale Thomas si aggrappa disperatamente, nel lungo pomeriggio in studio, quando interroga i “segni” della vita e crede di scoprirvi una realtà insospettata, negata ai suoi occhi. Antonioni qui raggiunge uno dei momenti più alti del suo cinema: dal confronto delle immagini, cioè dei “segni”, dall’uso intenso degli strumenti, dalla meditazione disperata nasce un qualcosa che sembra un trionfante risultato, ma che subito dopo svanisce nel nulla, e tutto ritorna alla primitiva incertezza. Sta di fatto che la verità è inafferrabile: neppure il cadavere, prima fotografato poi visto da Thomas, è vero.
Si rovescia, nel finale, il concetto: la verità sta addirittura nella finzione, purché sia accettata come verità. Ci riferiamo alla partita a tennis senza pallina, che è una pagina di squisita architettura e che a nostro parere rappresenta bene tutto il film, dove i concetti non sono certo più importanti della contemplazione estetica. La macchina da presa, ad esempio, che segue in carrellata l’ideale pallina uscita di campo, rallentando e fermandosi sull’erba — ad inquadrare l’erba, il prato vuoto — come se avesse seguito davvero la corsa di una pallina, e che poi ne segue la traiettoria quando la “pallina” viene rilanciata, oltre che suggellare il concetto della relatività della realtà crea momenti di vera suggestione poetica, fatta di un senso impalpabile di mistero, di partecipazione a qualcosa di fantastico, di magico.
L’esperienza sensibile, dunque, ci inganna, non c’è dubbio, e Antonioni non si limita ad illustrare gli inganni della vista e di quella sua “sublimazione” che è l’occhio vitreo della perfezionatissima Rolley, ma anche quelli dell’udito e dei suoi “tramiti meccanici”: l’amplificatore della sala da musica che fa i capricci, contro il quale si accanisce, per “punirlo”, il chitarrista, e per contro il rumore della pallina che non c’è, udibile non soltanto ai “giocatori” ma anche a Thomas ed allo spettatore.
Qual e la verità? Ecco il vero “giallo”, il vero mistero. Riuscire a dare un ordine e un significato al caos della vita è, per il pittore Bill, «come trovare la chiave in un libro giallo», solo che qui, in questa esistenza finita, qualcuno ha buttato via la chiave. Arte come “modificazione” del reale. Antonioni, come il Bergman di A proposito di tutte quelle signore e di Persona, nel pieno del suo discorso si ferma per interrogarsi, per confessarsi, per parlare di sé e del suo modo — dei modi possibili — di continuare il suo contatto con le cose e di esprimere questo contatto.
Non è solo questione di “fotografia” (anche se il bravo Di Palma seconda Antonioni con straordinaria sensibilità): il regista costruisce discorsi compiuti con l’osservazione “globale” delle cose, e dei gesti, dei fatti, dei comportamenti, come nella sequenza del blow up, retta da un silenzio altissimo, o come quella del parco visitato per la prima volta, con la presenza marginale del campo da tennis, la rincorsa dei piccioni, l’osservazione dei due amanti, la radura che rimane vuota, le stormire delle fronde nel silenzio.
Da Cineforum, 71, gennaio 1968, pp. 31–35
Georges Sadoul
Un fotografo alla moda (David Hemmings), nella Londra del ’67, scopre, ingrandendo una foto, che la scena d’amore in un parco da lui ripresa e di cui la protagonista (Vanessa Redgrave) ha tentato inutilmente di farsi dare il negativo, è in realtà una scena d’omicidio. Ma le tracce di questo sono scomparse, e nessuno s’interessa alla cosa.
Qual è il rapporto tra la realtà e l’astrazione, come immaginario e vissuto si colleghino in una società ormai indifferente alle tragedie altrui, come la “rivoluzione giovanile” del costume — particolarmente evidente nella “Londra post-vittoriana” dove Antonioni ha voluto girare il suo film — non sappia in che direzione muoversi: i temi in questo film di Antonioni (“che comporta pochi elementi biografici. Credo in questa storia, ma all’esterno”, egli ha detto) sono, almeno apparentemente, più chiari e immediati che non nella sua opera passata, ed è questa probabilmente la ragione del grande successo di pubblico di quest’opera, anche e soprattutto in America.
L’estrema perizia fotografica e alcune sequenze splendide (le foto nel parco, la casa del pittore, il primo incontro, all’inizio del film, con una banda di giovani dai volti mascherati, la piccola “orgia” colle due teenagers nello studio fotografico, tra colori d’un delicato manierismo, ecc.) non impediscono che il film abbia cadute imprevedibili.
Da Dizionario dei film, Firenze, Sansoni, 1968
Lino Miccichè
Blow-Up: cioè letteralmente “ingrandimento”. Non soltanto perché Thomas, il personaggio principale del film, è un fotografo; ma anche, e anzi soprattutto, perché vero protagonista del decimo lungometraggio di Antonioni non è uno dei consueti personaggi-simbolo il cui contrasto con il reale significhi i processi di estraniazione cui esso costringe gli individui, ma il reale stesso nella sua polivalente indifferenza: dove oggetti uomini cose fatti scivolano senza traccia, muti ed interscambiabili, con una realtà talmente priva di spessore e di incidenza che la loro esistenza è altrettanto priva di peso della loro inesistenza. In questa fenomenologia dell’assurdo, dove il discorso si sposta dunque dall’effetto (la alienazione) alla causa (la realtà alienante), Thomas ha la funzione di un agente catalizzatore che registra oggettivamente (fotografa) porzioni di realtà e le analizza (le ingrandisce). Come è noto, e varrà comunque la pena di ricordare, è appunto da una fotografia e da un ingrandimento che trae avvio il plot del film.
Una delle prime osservazioni che si possono fare sul piano tematico e narrativo di Blow-Up è che gli avvenimenti coinvolgono i personaggi solo esternamente: non li mutano, né sembrano poterli mutare. A differenza di tutti i protagonisti della tetralogia (anzi per meglio dire le protagoniste; e questo passaggio di sesso è già significativo; dopo la Giuliana di Il deserto rosso, sparisce la donna-salvezza, quasi a significare che non c’è più salvezza possibile), Thomas si lascia scivolare addosso la realtà, la vive con una partecipazione del tutto distaccata, non ne soffre in alcun modo.
Il suo accostarsi alle cose, la sua “curiosità” di conoscerle, non motivano una presa di posizione, un carattere, una problematica. Non un moto, un gesto, una affermazione, una contraddizione offrono appigli per dedurne un quadro psicologico, o anche solo un antinomico progetto esistenziale: la vita di Thomas e una impalcatura di oggetti (begli oggetti), di colori (bei colori), di parvenze umane (belle parvenze) che lo sfiorano e con cui si fonde o da cui si distacca con la stessa indifferenza. Se la presenza di una donna, Patricia, la compagna dell’amico pittore, può apparire un vago spiraglio di apertura umana, egli non sembra neppure accorgersene: l’unico “amore” che conosce è la gioia giocosa, senza un “prima” e senza un “dopo”, di un incontro a tre con due ragazzine che se ne vanno come sono venute, dall’ignoto verso l’ignoto.
Gioco e indifferenza sono le due varianti di una realtà ambigua. Ed e questa la seconda osservazione che si può fare sul film: l’ambiguità, cioè la indefinibilità, delle cose è il tema principale di questa sinfonia dell’indifferenza. Così al di là stesso del “fatto/non fatto” da cui prende spunto il film — il delitto indimostrabile, inspiegabile, forse mai accaduto, di fronte al quale, comunque, continuano a stormire gli alberi del parco — oggetti e persone sfuggono tendenzialmente a ogni identificazione: macchie di colore, ombre tenui, segni senza significato, messaggio senza codice di una realtà che parla una lingua incomprensibile.
Stilisticamente ciò si traduce in Blow-Up in una serie di mutamenti che innovano lo stile caratteristico di Antonioni fino a Il deserto rosso. Ci limiteremo, per comodità, a non citarne che due: il colore e il ritmo. In Il deserto rosso il colore aveva funzioni eminentemente psicologiche, di definizione soggettiva. Non a caso era stato chiamato il “colore dei sentimenti” e la definizione bene si addiceva all’uso che Antonioni ne aveva fatto: basti pensare ai fiori violetti, dapprima sfocati in primissimo piano e poi in campo lungo nettissimi quasi metallici, che aprivano e chiudevano la visita di Corrado e Giuliana alla casa di Mario, l’operaio nevrotico. In Blow-Up il colore ha funzioni per così dire ideologiche, di definizione oggettiva. Potrebbe essere chiamato il colore dell’inconoscibile poiché tende a connotare il duplice ordine di intercambiabilità e di atomizzazione della realtà: basti pensare al verde intenso del parco che diventa blu fondo nella notte.
Ma, come si è detto, anche le qualità ritmiche — componente fondamentale del “cinema di prosa” antonioniano — evidenziano in Blow-Up una diversa orchestrazione. La lentezza introspettiva de La notte o di Il deserto rosso, il sovraccarico espressivo di ogni inquadratura, l’intensità analitica del “campo” sono qui sostituiti da un periodo spezzato, fatto di bruschi sobbalzi, rapidi spostamenti, squarci folgoranti, illuminazioni improvvise: come a evitare ogni eccesso di focalizzazione, ogni concentrazione di interesse, ogni illusione che la realtà possa avere altra verità che la propria nuda, immediata evidenza.
In apparente contrasto con tale principio vi è un unico oggetto su cui l’attenzione del protagonista (e del regista) si sofferma: il parco con le sue multiple e surrogabili immagini. Ma la verità profonda che esso sembra offrire si rivela in ultimo come assolutamente inconoscibile, precaria, provvisoria: anche qui insomma, l’unica verità salda e duratura si identifica con l’apparenza. Dopo di che non resta che accettare di vivere come vera l’illusione: il gioco del tennis mimato, senza palla, cui Thomas si presta, mentre dalla colonna sonora viene improvvisamente il rumore di una palla da tennis, reale.
Blow-Up contrassegna la svolta della tematica antonioniana, dal motivo del tormentoso disadattamento alla realtà, a quello dell’inerte adattamento alla realtà, cioè all’integrazione: in un mondo di oggetti e di esseri umani reificati che ormai, oltre il tormento di Claudia (L’avventura), le angosce di Lidia (La notte), le domande di Vittoria (L’eclisse), la nevrosi di Giuliana (Il deserto rosso), si è acquietato nell’incomposta compostezza di un irreversibile sonno della ragione. Questo film, pensato e girato nel 1966, e con il quale Antonioni vince il Gran Prix di Cannes 1967, conferma più di ogni altro quanto inizialmente dicevamo a proposito della capacità del discorso antonioniano di mantenersi saldo attorno a un unico traliccio (in buona sostanza quello, già citato, del “sentimento della realtà”), aprendosi tuttavia progressivamente a successivi sviluppi che ne sottolineano la rischiosa, ma costantemente rinnovata modernità.
Pochi film, e non soltanto nel cinema italiano, riflettono come Blow-Up — sia pure attraverso tutta una serie di mediazioni e di riduzioni allegoriche — il disagio che in quelle due o tre stagioni centrali dello scorso decennio già presentiva l’esplosione del 1968, dopo la quale Antonioni imprimerà alla propria poetica una ulteriore svolta con Zabriskie Point. Un’opera come Blow-Up è al contempo testimonianza definitiva della dimensione “internazionale” (e ciò nonostante niente affatto “cosmopolita”) del discorso antonioniano, cioè del suo collocarsi — assieme al più estroso Rossellini ed al migliore Visconti — in una prospettiva non limitata (anche se genialmente, come nel caso di Fellini) da un entroterra culturale e umorale così specificamente (in qualche caso così provincialmente) italico quale è quello che sovente ha caratterizzato, nella storia del film italiano, le personalità anche più notevoli del nostro cinema.
Sotto certi aspetti non v’è dubbio che tale caratteristica legittimi, non del tutto immotivatamente, la sensazione che fra i grandi autori del nostro cinema Michelangelo Antonioni sia quello capace di un maggior distacco e di un meno immediato “impegno” concreto rispetto alla generale tradizione di militanza ideologico-politica dei cineasti romani. È tuttavia altrettanto indubbio che nel cinema italiano, non di rado, le vistose militanze servono da rumorosa copertura a clamorose sudditanze industriali: a una arrendevolezza espressiva mal mascherata da appariscenti rigori ideologistici, a una fiducia illimitata (davvero assai misteriosamente fondata) nella possibilità che dei “contenuti ideologici” progressivi possano essere veicolati, senza prezzo e senza perdite, da modelli formali regressivi. Tutto il cinema di Antonioni, e Blow-Up forse in modo particolare, testimonia il rifiuto di questo comodo alibi e la scelta positiva del primo impegno politico che bisogna chiedere ad un cineasta: quello di essere “politicamente” responsabile dei propri mezzi espressivi.
Da Il cinema italiano degli anni ’60, Venezia, Marsilio, 1975, pp. 239–242
Stefano Lo Verme
A Londra, un fotografo di moda crede di aver visto (e fotografato) un omicidio. Cerca di arrivare alla soluzione del mistero, ma non ci riesce. La realtà ha molte facce, persino l’evidenza, persino un’immagine impressionata su lastra possono essere negate. Il film parte come un “mistery” ma si rivela ben presto una fascinosa meditazione sul divario (ammesso che ci sia) fra realtà e fantasia. A differenza di altri film di Antonioni, Blow-Up è opera forse più tempista che valida. Capitò in un momento in cui il pubblico era interessato ai temi esistenziali, agli ermetismi di linguaggio, alle opere prive di trama. La portentosa fotografia di Carlo di Palma cattura gli scorci più suggestivi della Londra dei Beatles e di Carnaby Street e riprende (velocemente) le nudità della Redgrave.
Thomas, un giovane e brillante fotografo londinese, passeggiando per caso in un parco pubblico scatta delle foto ad una misteriosa ragazza che si trova in compagnia di un uomo; lei, però, quando se ne accorge lo segue fino a casa e fa di tutto per sottrargli il rullino. Incuriosito, Thomas sviluppa i negativi, e ingrandendo le immagini si rende conto di avere tra le mani le prove di un omicidio.
Realizzato nel 1966 e girato a Londra, Blow-Up è stata la prima pellicola in inglese diretta dal regista Michelangelo Antonioni, co-autore anche della sceneggiatura insieme a Tonino Guerra; prodotto da Carlo Ponti, il film ha riscosso a sorpresa un clamoroso successo internazionale e si è aggiudicato la Palma d’Oro al Festival di Cannes e la nomination all’Oscar per la miglior regia. Ispirato al racconto breve La bava del diavolo di Julio Cortàzar, Blow-Up è costruito attorno alle movimentate vicende nella giornata del protagonista, un rinomato fotografo di moda interpretato da David Hemmings, e prosegue il discorso sull’arte e sul cinema già avviato dal cineasta italiano nei suoi titoli precedenti.
Come di frequente accade nelle opere di Antonioni, la storia non segue una precisa struttura narrativa ma è tutta basata sull’ambiguità delle immagini. Nella prima parte il film ci illustra la Swinging London degli anni ’60, con i suoi ritmi frenetici, il suo carattere frivolo e le sue bizzarrie; poi, a un certo punto, la trama devia improvvisamente verso il thriller, con l’episodio nel parco che sarà il motore dell’ossessiva indagine del protagonista alla ricerca di una verità sfuggente quanto ineffabile. E infatti, la pellicola vuole essere proprio una riflessione sul carattere ingannevole della realtà, una realtà enigmatica ed incomprensibile filtrata attraverso l’obiettivo della macchina fotografica; a questo tema si aggiunge quello dell’illusorietà dello sguardo, in un atipico giallo in cui ciò che si vede non sempre corrisponde a ciò che è, e in cui non sembra esistere più nessuna certezza (il delitto è avvenuto oppure no?). Non a caso, alla fine, i dubbi dello spettatore sono destinati a rimanere irrisolti.
Rivisto oggi, Blow-Up continua a risultare di sicuro un film ermetico ed affascinante, sebbene non manchi qualche squilibrio narrativo e alcune sequenze possano apparire fini a se stesse. All’epoca, ha suscitato scandalo per l’esposizione di nudi femminili e per una certa trasgressività un po’ pretestuosa (come nella scena del ménage-à-trois); da ricordare comunque la silenziosa partita a tennis giocata dai mimi nel finale. È stato uno dei primi ruoli cinematografici dell’attrice inglese Vanessa Redgrave. Il titolo, Blow-Up, si riferisce all’operazione di ingrandimento delle fotografie.
Da MYmovies
Ugo Casiraghi
Ventiquattr’ore nell’esistenza di un fotografo londinese. Da un’alba all’insegna della Realtà (l’asilo notturno da cui il protagonista camuffato da barbone esce tra coloro che ha ripreso di nascosto) all’alba successiva di Realtà Virtuale (la partita a tennis mimata. senza palla e senza racchette da un gruppo hippie, alla quale assiste e partecipa lo stesso fotografo che ha perduto per strada appunto la realtà). Nel mezzo si distende il racconto di figure umane e oggetti, collocati come macchie di colore in una pittura astratta. La swinging London del 1966, oasi di gioventù rampante e di bellezze da copertina, come la coglie col suo obbiettivo un fotografo di moda perfettamente integrato. Sesso a portata di mano, musica rock e droga leggera: tutte le porte sono aperte e un senso di libertà diffusa aleggia sullo splendido quartiere. Ma “anche costui è libero?“chiede l’amico scrittore, che prepara con lui un libro d’arte, indicando al fotografo un primo piano angoscioso scattato al dormitorio.
In effetti tale libertà produce sazietà e, con essa, un malessere strisciante da società in declino e senza valori stabili, una voglia neppur nascosta di evadere in altri lidi. E del resto, all’inizio e alla fine, quella carovana di beat travestiti da clown incornicia e sottintende la contestazione a un establishment che non appare, ma c’è. Un piccolo anticipo di ciò che accadrà nel Sessantotto.
Blow-Up (in linguaggio fotografico “ingrandimento”) è il cine-occhio di Michelangelo Antonioni. L’occhio umano del giovane protagonista onnipresente dalla prima all’ultima inquadratura, e l’occhio meccanico della Rolleyflex che non lo abbandona mai. Non si dimentichi il titolo lo sono una macchina fotografica di una commedia che il regista aveva diretto in teatro neI 1957. Fino a quando i due occhi coincidono? e quando divergono? Tali i problemi che il film pone.
Il protagonista (David Hemmings, allora pressoché sconosciuto) riveste la doppia pelle del professionista padrone del mestiere e del dilettante alla ricerca del nuovo. Al lavoro con le asettiche modelle, nell’asettico e immenso studio fornito di tecnologia sofisticata, egli possiede carnalmente la sua materia (la seduta con Verushka corrisponde a un atto sessuale). L’aspetto dilettantistico è invece l’indolente ma attento girovagare, lo stare all’erta per “rubare” la realtà, l’identificazione dell’ambiente e delle persone in una serie elegante di piani, scorci, dettagli.
Il giovanotto si sposta sulla Rolls-Royce aperta, provvista di radio-telefono (l’odierno telefonino). Quando ne scende, la sua lenta falcata ininappuntabili jeans bianchi prolunga l’effetto coloristico rasserenante dell’atélier. Ma il “giallo” è in agguato a partire dalla passeggiata nel parco, il cui idillico verde si muterà nel blu del mistero al calar della sera.
Che cosa sta facendo la strana coppia (una ragazza in minigonna e un anziano brizzolato) in piedi tra gli alberi? Si allaccia o si respinge? E perché lei sarà così ansiosa e pronta a tutto pur di riavere il rullino della scena? I globi oculari prominenti del fotografo e il cannoncino del suo teleobbiettivo hanno risucchiato come ventose un frammento di vita che nasconde più di un enigma. Lo sviluppo, e soprattutto l’ingrandimento e la scomposizione analitica, rivelano una realtà diversa dall’apparenza. È qui che i due occhi si dividono, quello meccanico avendo registrato ciò che quello umano non ha percepito. Oltre la realtà visibile ce n’è un’altra nascosta. SF, ma quale? Prima il ladro d’immagini crede di aver scongiurato, col suo casuale intervento, un delitto. Poi scopre che il delitto si è consumato e, tornato sul posto, vede il cadavere accanto a un cespuglio. Infine rullino e cadavere sono scomparsi e le fronde, là in alto, stormiscono quasi beffardamente.
Non solo, dunque, la realtà è di per sé ambigua, ma la sua immagine, invece di contribuire a decifrarla, la rende ancor più inafferrabile. Fotografia e giornalismo, cinema e televisione restituiscono la superficie delle cose, non la loro essenza. È un tema ricorrente nell’arte di Antonioni.
Come nella moda e nel costume si preannuncia lo sviluppo massificato che poi si è avuto, così Blow-Up prevede il progressivo deragliamento della realtà vitale in realtà virtuale. Oggi, a quasi trent’anni di distanza, della moda si dice «sotto il vestito niente» (che era un soggetto dello stesso Antonioni, realizzato purtroppo da altri). Oggi quella partita a tennis non è più una metafora, né un delirio dell’immaginazione e tanto meno, com’era allora, un gioco tra allegro e patetico. È diventata l’incubo ossessivo che ha invaso ogni campo, dalla pubblicità alla politica.
Blow-Up è anzitutto un film bellissimo da vedere, manovrato squisitamente su un sottile equilibrio dei colori e sulla forza visiva di immagini scelte con un rigore che incanta. Dopo i ritmi lenti della ‘tetralogia dei sentimenti’ (L’avventura, La notte, L’eclisse, Il deserto rosso) è anche un film che scorre con un montaggio incalzante. Non per nulla procurò al regista il suo primo completo successo di pubblico, specialmente negli Stati Uniti, aprendogli la possibilità di girarvi Zabriskie Point. Vedendolo allora, si aveva come la sensazione di uscire da una cappa provinciale che, grazie anche al suo regime politico, si era distesa sull’Italia, e di respirare un’aria nuova, continentale.
Il feeling tra Antonioni e il mondo inglese è indubitabile: d’altronde se n’era già avuto sentore quattordici anni prima, in quel magnifico episodio del trittico I vinti realizzato alla periferia di Londra. Nella primavera del 1967 Blow-Up vinse la Palma d’oro al festival di Cannes, applaudito dalla stessa platea che nella primavera del 1960 aveva fischiato il capolavoro L’avventura.
Tuttavia la bellezza del film non è quella dell’elica d’aereo che troneggia, bella ma inutile, nello studio del fotografo. Al centro c’è una problematica che inquieta. La civiltà dell’immagine distrugge i sentimenti, anche quel poco che sopravviveva nel deserto italiano. Le donne che più la rappresentano hanno la consistenza di manichini, le due ninfette aspiranti modelle entrano nell’orgia come in un gioco.
Perfino Vanessa Redgrave, nel suo personaggio tormentato, si atteggia a scatti, come un automa. E anche l’oggetto perde di senso appena sottratto al suo luogo di culto. Il pezzo di chitarra gettato in pasto ai fan nello scantinato del concerto è motivo di caccia all’interno, ma appena fuori nessuno lo vuole. Lo stesso protagonista subisce uno scacco professionale che non lo turba oltre un certo limite: anche lui si rassegna al gioco rimandando alla ragazza hippie la palla inesistente. Ma attenzione al finalissimo. In tre inquadrature in dissolvenza, Antonioni annulla il suo personaggio, come aveva fatto con la donna che svaniva ne L’avventura. Un “terzo occhio”, quello dell’autore, subentra agli altri due per dirci, prima della parola “Fine”, che la sempre più ardua battaglia culturale e artistica per l’identificazione del mondo in cui continuiamo a vivere, non può fermarsi.
Michelangelo Antonioni parla del film
Il mio problema per Blow-Up era quello di ricreare la realtà in una forma astratta. Io volevo mettere in discussione “il reale presente”: questo è un punto essenziale dell’aspetto visivo del film considerato che uno dei temi principali della pellicola è: vedere o non vedere il giusto valore delle cose.
Blow-Up è una recita senza epilogo, paragonabile a quelle storie degli anni venti dove Scott Fitzgerald manifestava il suo disgusto della vita. Speravo, durante la lavorazione, che nessuno potesse dire, vedendo il film terminato: Blow-Up è un lavoro tipicamente anglosassone. Ma, nello stesso tempo, desideravo che nessuno lo definisse un film italiano. Originariamente la storia di Blow-Up avrebbe dovuto essere ambientata in Italia, ma mi resi quasi subito conto che sarebbe stato impossibile localizzare in qualche città italiana la vicenda. Un personaggio come quello di Thomas non esiste realmente nel nostro paese. Al contrario, l’ambiente nel quale lavorano i grandi fotografi è tipico della Londra dell’epoca in cui si svolge la narrazione. Thomas, inoltre, si trova al centro di una serie di avvenimenti che e più facile ricollegare alla vita londinese che non a quella di Roma o di Milano. Egli ha optato per la nuova mentalità che si è creata con la rivoluzione della vita, del costume, della morale in Gran Bretagna, soprattutto tra i giovani artisti, pubblicisti, stilisti o tra i musicisti che fanno parte del movimento Pop. Thomas conduce un’esistenza regolata come un cerimoniale e non a caso afferma di non conoscere altra legge che non sia l’anarchia.
Prima della lavorazione del film, avevo soggiornato a Londra alcune settimane durante i “si gira” di Modesty Blaise diretto da Joseph Losey e interpretato da Monica Vitti. Mi ero accorto in quel periodo che Londra sarebbe stata un décor ideale per un racconto come quello che avevo in mente di realizzare. Non avevo mai avuto, tuttavia, l’idea di fare un film su Londra.
La stessa storia avrebbe potuto essere ambientata e sviluppata, senza alcun dubbio, a New York o a Parigi. Sapevo, tuttavia, di voler per il mio copione un cielo grigio, piuttosto che un orizzonte blu pastello. Cercavo tinte realiste e avevo già rinunciato nell’idea del film a certi effetti ottenuti per Il deserto rosso. Avevo allora molto lavorato per ottenere con il teleobiettivo prospettive appiattite, per comprimere caratteri e cose e porli in contraddizione gli uni con gli altri. Al contrario, in Blow-Up io ho allungato le prospettive, ho cercato di mettere aria, spazi, tra le persone e le cose. La sola volta in cui ho utilizzato il teleobiettivo nel film e stato quando le circostanze mi hanno obbligato: per esempio nella sequenza al centro della folla, dell’imbottigliamento.
La grande difficoltà con cui mi sono scontrato è stata quella di rendere la violenza della realtà. I colori abbelliti ed edulcorati spesso sono quelli che sembrano i più duri e aggressivi. In Blow-Up l’erotismo occupa un posto di prima linea, ma spesso, l’accento è messo su una sensualità fredda, calcolata. I tratti di esibizionismo e di voyeurismo sono particolarmente sottolineati: la giovane donna nel parco si spoglia e offre il suo corpo al fotografo in cambio dei negativi che desidera tanto recuperare.
Thomas è testimone di un abbraccio tra Patrizia e suo marito e la presenza di questo spettatore sembra raddoppiare l’eccitazione della giovane donna.
L’aspetto scabroso del film mi avrebbe reso la lavorazione in Italia pressoché impossibile. La censura non avrebbe mai tollerato alcune immagini. Sebbene, senza dubbio, essa sia diventata più tollerante in molti luoghi del mondo, il mio rimane il paese dove si trova la Santa Sede. Come ho scritto altre volte a proposito dei miei film, i miei racconti cinematografici sono documenti costruiti non su una suite di idee coerenti, ma su lampi, idee, che nascono ogni istante. Io rifiuto, dunque, di parlare delle intenzioni che ho messo nel film al quale consacro, di volta in volta, tutto il mio tempo. Mi è impossibile analizzare una delle mie opere prima che il lavoro sia completato. Io sono un creatore di film, un uomo che ha certe idee e che spera di esprimersi con sincerità e limpidezza. Racconto sempre una storia. Quanto a sapere se si tratta di una storia senza alcuna correlazione con il mondo in cui viviamo, io sono sempre incapace di decidere prima di averla raccontata.
Quando mi sono messo a pensare a questo film, sono rimasto spesso sveglio la notte, riflettendo e prendendo appunti. Presto, questa storia, le sue mille possibilità, mi hanno affascinato e ho tentato di capire dove potevano condurmi le sue mille implicazioni. Ma arrivato a un certo stadio, mi sono detto: cominciamo con il fare il film, vale a dire proviamo bene o male a raccontare il suo ordito e, poi… In questo stadio, io mi trovo ancora oggi, mentre la lavorazione di Blow-Up è in fase avanzata. Per essere franchi, non sono ancora del tutto sicuro di quello che sto facendo perché sono ancora nel “segreto” del film.
Io credo di lavorare in un modo al tempo stesso riflessivo e intuitivo. Per esempio, pochi minuti fa, io mi sono isolato per riflettere sulla scena seguente e ho tentato di mettermi al posto del personaggio principale, quando egli scopre il cadavere. Mi sono fermato nelle ombre del prato inglese, ho sostato nel parco, nella misteriosa chiarezza delle insegne luminose di Londra. Mi sono avvicinato a questo cadavere immaginario e mi sono totalmente identificato nel fotografo. Ho sentito con molta forza la sua eccitazione, la sua emozione, i sentimenti che facevano scattare mille sensazioni nel mio “eroe” per la scoperta del cadavere e il suo modo seguente di animarsi, pensare, reagire. Tutto ciò non è durato che pochi minuti, uno o due. Poi il resto della troupe mi ha raggiunto e la mia ispirazione, le mie sensazioni sono svanite.
Da Cinema Nuovo n. 277, giugno 1982, pp. 7–8
Emiliano Morreale su ‘Blow-Up’ restaurato
Anche Antonioni va all’estero, a girare per Carlo Ponti una storia vagamente ispirata a un racconto di Julio Cortázar. La storia è nota: un fotografo di moda, tentato anche dai reportage di realismo sociale, un giorno in un parco si accorge di aver fotografato per caso un omicidio. Uno spunto che, nel decennio successivo, ispirerà molti registi, specie in una New Hollywood tra postmoderno e teorie del complotto, fino a Blow out di De Palma. Agostinis aveva già dedicato
un paio d’anni fa un libro appassionante e informatissimo, Swinging City (Feltrinelli), al mondo che ruotava intorno al regista ferrarese durante la sua trasferta a Londra. E c’è di che far girare la testa. È una stagione che nasce dalle ceneri dei governi Tory, seppelliti dallo scandalo Profumo, ma già i laburisti deludono molti con le loro politiche economiche e l’appoggio alla guerra in Vietnam. Ma è partita la battaglia contro la censura teatrale, e nel ’64 Radio Caroline ha cominciato a trasmettere la nuova musica al largo dell’isola, su un vecchio traghetto danese. Carnaby Street è già diventata una trappola per turisti, ma la creatività si è spostata a Chelsea. Trasmissioni televisive innovative, negozi vintage (da nomi come Granny Takes a Trip), locali con o senza musica, per vip o non vip, studi di fotografi, redazioni di riviste e feste. Le scuole d’arte sfornano nuovi talenti e nuove sensibilità: “Tutto era colore. Portavamo colore in questa nazione nebbiosa”, ricorda nel documentario Clare Peploe.
Antonioni arriva a Londra nell’aprile del ’66, e si prende il suo tempo per esplorare la città, molto diversa dalla Londra in cui aveva ambientato un episodio de I vinti nel ’52. Mentre il regista batte i primi ciak i Beatles stanno registrando Eleanor Rigby, primo singolo di quello che sarà l’album Revolver. L’Inghilterra vince i campionati del mondo di calcio. Truffaut ha appena finito di girare negli studios inglesi Fahrenheit 451; è all’opera Roman Polanski, Kubrick è nel pieno delle riprese di 2001. In alcuni mesi Antonioni riesce a incontrare il meglio di una metropoli in effervescenza, e a coinvolgere nel progetto nomi di rilievo. Fiuta l’aria, trova subito i contatti giusti. Incontra tutti. Assolda il drammaturgo del momento, Edward Bond, per scrivere i dialoghi inglesi, e lo scenografo e la costumista di Non tutti ce l’hanno. Sottopone un questionario ai fotografi di moda per capirne le abitudini, gira le scene delle sessioni fotografiche nello studio di uno di loro, John Cowan (tra le modelle c’è Jane Birkin), ma usa anche i reportage “impegnati” del grande Don McCullin. Le musiche sono del jazzista Herbie Hancock; per la scena del concerto in un locale vengono contattati dapprima gli Who, e poi saranno scelti gli Yardbirds, in formazione con Jeff Beck e Jimmy Page. E si potrebbe continuare. Oggi, il versante “filosofico” del film, con le riflessioni sulla scomparsa della realtà, il punto di vista, i mimi che giocano a tennis con palline invisibili, può apparire datato. Anche se indubbiamente intercettava uno stato d’animo diffuso, una sfiducia nella realtà che era tanto più sentita in un regista che, in fondo, veniva dal neorealismo. E indubbiamente, l’elemento più affascinante è proprio quello dell’intreccio con il cuore di una città e di un’epoca: come se Blow Up fosse anzitutto un surreale documentario che coglie non la realtà ma il sogno di un’epoca.
Repubblica.it, 15 maggio 2017
Jill Kennington fotografata da John Cowan
Philippe Garner sugli ingrandimenti di Blow-Up
La natura ambigua e talvolta ingannevole dell’immagine fotografica è analizzata da Michelangelo Antonioni in Blow-Up come un’efficace metafora visiva delle incommensurabili ambiguità della vita stessa.
Nucleo centrale del film è l’avvincente scena in cui Thomas, il protagonista, ingrandisce le foto che ha scattato nel parco, convinto che ci sia un mistero da risolvere. Eppure, nell’ingrandirle, quelle immagini sempre più sgranate invece di svelare la verità diventano ancora più illeggibili e i dettagli ingigantiti appaiono indecifrabili, enigmatici.
Nel suo film Antonioni rievoca, attraverso le ventiquattro ore che si dipanano davanti ai nostri occhi, i dubbi esistenziali del fotografo stesso. I Blow-Up che vanificano più che risolvere le sue indagini rispecchiano in modo efficacemente visivo la sua stessa ambivalenza. Tali artefatti contraddittori sollevano implicitamente questioni metafisiche che Antonioni, come suo solito, si guarda bene dal dirimere.
Antonioni aveva chiesto ad Arthur Evans, suo fotografo di scena, di realizzare alcune immagini di prova di una persona nascosta tra le foglie ed Evans chiese alla figlia di posare tra i cespugli per poi riprenderla su pellicola 6×6.
Tale richiesta era quanto meno insolita per un fotografo la cui carriera era sempre stata caratterizzata da un’elevata qualità tecnica, e questi primi tentativi si rivelarono troppo nitidi e definiti per soddisfare le esigenze e i propositi del regista.
Così Antonioni reclutò il fotografo Don McCullin, che si stava facendo un nome grazie ai crudi reportage realizzati soprattutto per The Sunday Times Magatine. Molto probabilmente i due si conobbero tramite il giornalista Francis Wyndham, il quale stava aiutando Antonioni come consulente per delineare l’ambiente e lo stile di vita della nuova generazione di fotografi rampanti che operavano a Londra. Ovviamente Wyndham e McCullin si conoscevano per la loro comune collaborazione con il Sunday Times.
Fu McCullin, alter ego di Thomas, a realizzare le foto in cui il protagonista del film riprende un incontro segreto tra due amanti a Maryon Park, a Woolwich, quartiere sudorientale di Londra.
Furono scattate con una 35mm su Kodak Tri-X, una pellicola versatile con una grana che sarebbe risultata ancora più evidente nel processo di ingrandimento, perfetta per ottenere quella disintegrazione dell’immagine che Antonioni aveva in mente. Le immagini e i relativi ingrandimenti erano tutti orizzontali e furono stampati in un formato 60×50 cm.
Per agevolare il processo di ingrandimento, vennero realizzati dei negativi di passaggio a partire da queste prime stampe e il film ci mostra Thomas intento in questo procedimento nella camera oscura. Le stampe finali assumono un ruolo fondamentale, ma silenzioso, all’interno del dramma dai toni pacati di Antonioni.
Quando le riprese terminarono, tuttavia, se ne persero le tracce per quasi trent’anni, finché nel 1996, durante un’asta a Londra, non spuntò una busta gialla della Kodak tutta spiegazzata che conteneva 21 di queste stampe originali. Delle annotazioni a matita sulla busta indicavano “INGRANDIMENTI APPESI + PORTFOLIO DI FOTO” (fronte) e “RISTORANTE + SEQ BLOW-UP — TENERE AL RIPARO” (retro).
Fortunatamente quest’ultima istruzione era stata rispettata, chissà se per caso o di proposito.
Col senno di poi, oggi comprendiamo chiaramente l’importanza di questi ingrandimenti, che non rappresentano solo degli espedienti scenici funzionali a un particolare progetto filmico, ma sono immagini che ricoprono un ruolo fondamentale nella storia della nostra analisi e comprensione del mezzo fotografico.
Antonioni, che a ragione può esserne considerato l’autore, anche se la loro realizzazione fu affidata a McCullin, già si interrogava sulla natura della fotografia, ne metteva in discussione il valore probante, minando la sua pretesa, generalmente riconosciuta, di innata veridicità, di autorevole scientificità.
Il regista era in buona compagnia. In quello stesso periodo anche gli artisti Richard Hamilton, Gerhard Richter e Andy Warhol decostruivano e rimaneggiavano immagini preesistenti, anche se in un clima di sostanziale rispetto per il concetto di verità fotografica.
Questa linea di ricerca anticipava la più ampia utilizzazione e indagine che si sarebbe affermata nel decennio successivo con le opere di una generazione di giovani artisti — tra cui Barbara Kruger, Sherrie Levine, Richard Prince e Cindy Sherman — che scavalcavano gli angusti confini della disciplina fotografica per avventurarsi nell’arte contemporanea.
L’intuizione di Antonioni colpì nel segno quando per Blow-Up il regista delineò la figura dell’artista come contraltare del suo fotografo. Il personaggio si ispirava all’artista britannico
Ian Stephenson, i cui dipinti puntinisti costituivano un parallelo rivelatore dei misteriosi ingrandimenti di Thomas: entrambi i mezzi espressivi sollevavano questioni relative alla percezione visiva, in cui la fisiologia faceva emergere interrogativi filosofici.
Da: Io sono il fotografo. Blow-Up e la fotografia, Contrasto, Roma, 2018, pp. 53–58
Walter Moser sulla fotografia di John Cowan e Don McCullin
In netto contrasto con il dettagliato ritratto di Thomas, la descrizione che Antonioni ci offre della fotografia di moda appare in qualche modo superficiale. Per essere un film incentrato su un fashionphotographer che contiene molte accurate raffigurazioni del gesto fotografico in sé, stranamente Blow-Up ci mostra poche fotografie di moda (Le immagini che si vedono nel film erano tratte dalla mostra “The Interpretation of Impact through Energy”).
Ne vediamo qualcuna alle pareti solo nelle scene girate all’interno dello studio di Cowan — tutte scattate dall’autore nei primi anni Sessanta e messe a disposizione di Antonioni.
Questo spiega perché Cowan sia il solo fotografo citato nei titoli di testa: anche se le sue foto compaiono in numerose scene del film, il regista non vi indirizza mai la macchina da presa, né le isola all’interno dell’inquadratura; il loro scopo è solo di caratterizzare in modo più autentico la figura del fotografo di moda, non di esplorare il genere in cui lavora — almeno non in modo approfondito. Nonostante questo, però, le foto di Cowan utilizzate nel film furono scelte con estrema cura.
Antonioni si sforza di connetterle ai servizi fotografici mostrati nel corso del film e per quanto le foto in questione siano tutte scattate all’aperto, per Blow-Up vengono scelte quelle che interagiscono con il tipo di lavoro e di fotografia mostrati nel film stesso.
La scena con Veruschka, per esempio, dove Thomas sgancia la macchina dal treppiede per poter girare intorno alla modella e scattare in modo più istintivo e meno ponderato, riproduce tutti i segni distintivi di un tipico servizio fotografico di Cowan.
Le sue due immagini che mostrano Jill Kennington vestita da paracadutista e da sub sono tra le foto di moda che si vedono meglio all’interno del film e presentano le stesse caratteristiche — istantaneità, dinamismo, spontaneità — evocate dalla sessione di Thomas. Difficile che si tratti di una coincidenza, è molto più probabile che Antonioni stesse esplicitamente copiando il linguaggio del corpo di Cowan per delineare il suo personaggio. Il gesto fotografico di Thomas e le immagini di Cowan, quindi, si corrispondono alla perfezione.
Ma se le foto di Cowan sono totalmente coerenti con Blow- Up, non si può dire lo stesso del reportage sociale di Don McCullin che pure Antonioni utilizza. Come già ricordato, Antonioni sceglie come protagonista un fotografo di moda attratto dal reportage sociale. Il regista descrive questo interesse proprio all’inizio del film, dove vediamo Thomas uscire da un ricovero per senzatetto.
Come si scoprirà in seguito, durante l’incontro con Ron, il suo editore, Thomas ha trascorso lì la notte per fotografare la condizione dei poveri. Il protagonista incontra Ron per mostrargli un menabò del libro che vorrebbe pubblicare, e l’editore lo sfoglia con attenzione.
Le foto mostrate sono tutte di Don McCullin, scattate nei primi anni Sessanta. McCullin era stato contattato prima dell’inizio delle riprese da un’agente di Antonioni, che gli aveva chiesto se fosse disposto a partecipare alla lavorazione del film.
Quando accettò, Antonioni gli commissionò — per 500 sterline — le immagini che in seguito sarebbero diventate gli ingrandimenti, i blow-up, del titolo. Gli scatti furono realizzati nel Maryon Park, a Londra, luogo in cui fu girata la sequenza di Thomas che di nascosto riprende una coppia di amanti.
Antonioni e McCullin parlarono anche di un reportage di quest’ultimo e ne selezionarono 24 foto per il film. Le foto in questione sono per lo più ritratti realizzati nei quartieri poveri di Londra, soprattutto nell’East End, in quegli anni zona nota per la povertà, gli slums, le agitazioni nelle fabbriche e le tensioni razziali.
McCullin sceglie i soggetti e li caratterizza a partire dalla loro professione — macellai, poliziotti, musicisti… — riuscendo così a presentare uno spaccato della Londra meno abbiente. Queste immagini, contrariamente a quanto avviene per quelle di Cowan, occupano quasi del tutto l’inquadratura, mentre i due uomini le osservano e le commentano.
Per Antonioni, gli scatti di McCullin erano un’occasione per riflettere sugli sconvolgimenti politici e sociali dell’epoca in Gran Bretagna e ci consentono di misurare quanto la società stesse cambiando negli anni Cinquanta e Sessanta. In una sequenza esemplare, Antonioni riprende Thomas mentre, in automobile, si imbatte in una delle tante marce di protesta per il disarmo nucleare e la pace, abituali in quegli anni.
Ma al di là dei riferimenti politici, le foto di McCullin permettono di identificare il protagonista come fotografo sia di moda, sia di documentazione sociale: un duplice orientamento non certo atipico all’epoca, come dimostrano le foto di David Bailey e Terence Donovan in cui i confini stilistici tra i due generi sono in realtà permeabili; basti pensare alla scelta di fotografare le modelle con una 35 mm in uno scenario cittadino, mutuato dal reportage sociale. Né era insolito vedere servizi di moda e reportage sociali sulle pagine della stessa rivista, come ad esempio Man about Town.
L’uso delle foto di McCullin in Blow-Up è interessante nella misura in cui entra in contrasto con l’originaria semantica delle immagini: McCullin era uno dei pochi fotografi che si concentravano esclusivamente sul fotogiornalismo e non si era mai avventurato nel mondo della fotografia di moda.
Le sue immagini sono state spesso considerate voyeuristiche nel contesto del film, un’interpretazione che deriva direttamente dal modo in cui Antonioni le presenta, come il frutto di scatti furtivi di Thomas nel dormitorio.
Non solo Thomas fotografa la coppia nel parco senza chiedere alcun permesso, ma proprio all’inizio del film Antonioni ce lo mostra mentre lascia il ricovero dove ha passato la notte per scattare di nascosto.
Lo spettatore viene così indotto a pensare che anche le fotografie scattate nel dormitorio — e realizzate ugualmente da McCullin — siano state scattate di soppiatto, senza l’autorizzazione dei soggetti come quelle, poi ingrandite, della coppia nel parco.
Ma per quanto tale deduzione possa sembrare plausibile, non si accorda con i fatti: i soggetti delle foto guardano in macchina e sono quindi consapevoli di essere fotografati e dal momento che nessuno di loro protesta, si nasconde o si ritrae, sembra improbabile che McCullin si sia imposto sui suoi soggetti come fa Thomas.
Il suo approccio conferma tale supposizione e del resto, McCullin ha dichiarato quanto ama avvicinarsi alle persone per fotografarle ma solo dopo aver chiesto loro il permesso. Le sue immagini, in altre parole, sono sempre il frutto di un dialogo tra il fotografo e il soggetto, non di uno sguardo voyeuristico e unilaterale — come il film lascia pensare.
Ovviamente il regista non si appropria delle immagini di McCullin per fare luce sulle sue intenzioni, ma per dare forma alla sua propria visione e le foto hanno lo scopo di farci capire che Thomas è sempre più stanco del mondo superficiale che ruota intorno alla fotografia di moda. Come dice al suo editore: “Vorrei avere un mucchio di soldi.
Allora sarei libero”, e in tutta risposta Ron gli indica uno dei ritratti — che nella sceneggiatura Antonioni descrive come “la fotografia di un uomo anziano in un luogo desolato — sporco, instupidito, un relitto umano — e gli chiede cinicamente “Libero come lui?”.
Le foto di McCullin, quindi, servono a rappresentare la differenza di classe e il conseguente squilibrio di potere tra fotografo e soggetto.
Le immagini che giocano un ruolo centrale in Blow-Up sono gli ingrandimenti cui il film deve il titolo. La storia della loro origine è ben nota: il protagonista fotografa di nascosto una coppia di amanti in un parco. Il fatto che la donna, Jane, interpretata da Vanessa Redgrave, sembri estremamente ansiosa di recuperare i negativi accende la curiosità del fotografo.
Così, dopo aver sviluppato la pellicola e realizzato delle stampe di piccolo formato (17×25 cm circa), decide di ingrandire alcune di esse. All’inizio nota un uomo appostato tra i cespugli con un revolver e poi quello che sembra un cadavere.
I negativi delle foto furono realizzati sul set da McCullin, cui Antonioni assegnò questo compito specifico. Utilizzando la stessa macchina usata dal protagonista del film, una Nikon F, McCullin doveva appostarsi negli stessi punti del parco e utilizzare le medesime angolazioni di Thomas. McCullin la ricorda come una situazione surreale e spiazzante: gli fu detto di seguire le indicazioni di Antonioni, ma nessuno gli spiegò mai le implicazioni contenutìstiche di quelle immagini, e quindi non sapeva nulla dell’uomo nascosto tra i cespugli al momento di scattare quella specifica foto.
Che la macchina fotografica riuscisse a vedere altro, rispetto al fotografo, non solo nel film, ma anche nella realtà è un dettaglio piacevolmente ironico. McCullin consegnò i negativi alla casa di produzione, che poi si preoccupò di ingrandirli per Antonioni.
Gli ingrandimenti sono le uniche foto del film di cui seguiamo il processo di produzione dall’inizio alla fine, ed è sicuramente per questo motivo che Antonioni fece di tutto perché il gesto fotografico e il suo risultato visivo corrispondessero il più possibile. Per fare in modo che il processo di produzione fosse più autentico possibile, McCullin si prestò anche a consigliare l’attore David Hemmings durante tutte le riprese nel parco. Fu lui a illustrargli come impugnare la macchina fotografica e il linguaggio del corpo che ne derivava.
Da: Io sono il fotografo. Blow-Up e la fotografia, Contrasto, Roma, 2018, pp. 154–163