In 172 opere la parabola artistica di uno dei protagonisti della storia artistica del ‘900, tra i più grandi rivoluzionari, del linguaggio artistico e culturale, di tutti i tempi: Andy Warhol il genio che ha cambiato per sempre i connotati non solo del mondo dell’arte ma anche della musica, del cinema e della moda, tracciando un percorso nuovo e originale che ha stravolto in maniera radicale qualunque definizione estetica precedente.
Il percorso della mostra parte dalle origini artistiche della Pop Art, con la celeberrima serie di serigrafie Campbell’s Soup, minestre in scatola del 1962 che Warhol prende dagli scaffali dei supermercati per consegnarli all’Olimpo dell’arte, un vero e proprio cazzotto nello stomaco negli ambienti artistici newyorchesi che reagiscono scompostamente alla geniale intuizione dell’artista. A seguire le serie su Elvis, su Marilyn, sulla Coca-Cola. A colpire Warhol sono quegli oggetti che abbattono il divario tra ricchi e poveri: come a dire che una Coca-Cola se la può permettere chiunque e, per quanto sia enorme il potere d’acquisto di un milionario, la sua Coca-Cola non sarà più buona di quella di chiunque altro. È in questi anni che comincia a dire che ognuno ha diritto a 15 minuti di celebrità, quella celebrità da cui è ossessionato da sempre e di cui nel percorso espositivo non mancano le testimonianze. Warhol diventa in quegli anni il centro catalizzatore della cultura newyorchese, frequenta i locali più ambiti del momento, come lo Studio 54 o il Max’s Kansas City dove si fa fotografare, tra gli altri, con Liza Minnelli, Debbie Harry, Paloma Picasso, Truman Capote. Nel ‘63 si trasferisce a lavorare sulla quarantasettesima est, etichettato in breve tempo “Silver Factory”, la fabbrica d’argento, per l’aspetto che Billy Name – fotografo e grande amico di Warhol – riuscì a darne riempiendo i muri di carta stagnola.
Come si evince dalle numerose opere a questo dedicate in mostra, i frequentatori della Factory erano moltissimi: Bob Dylan, Truman Capote, John Lennon, Mick Jagger, Jack Kerouac, Salvador Dalì, Tennessee Williams, Rudolf Nureyev, Montgomery Clift i cui ritratti spiccano sulle pareti del Vittoriano.
La mostra prosegue evidenziando e affrontando il tema dei legami con la moda, anche in ambito italiano con i ritratti di Giorgio Armani (1981) e Regina Schrecker (1983). Ampio e “sonoro” spazio è dedicato ai rapporti con il mondo musicale partendo dai ritratti di Mick Jagger (1977), Rats and Star (1983), Miguel Bosè (1983), Billy Squier (1982) sino alle copertine dei dischi, alcune con intuizioni figurative di intramontabile successo come la celebre “banana sbucciabile” di The Velvet Underground & Nico| del 1967 e i mitici “jeans incernierati” di Sticky Fingers dei Rolling Stones del 1971 che si affiancano a numerose altre indimenticate, sempre progettate dall’artista, come Love You Live by Rolling Stones del 1977, Milano Madrid Menlove Ave di John Lennon del 1986. Sono inoltre presenti in mostra le preziose polaroid dell’epoca che rappresentano anche il punto di partenza per la realizzazione dei ritratti serigrafici e i celebri self portrait: Grace Jones (1984), la principessa Carolina di Monaco (che finì sulla copertina di “Vogue” nel 1984), i ritratti di noti stilisti come Valentino |(1973) e cantanti come Paul Anka (1975), Stevie Wonder (1972) e Carly Simon(1979). Chiude l’ampia selezione un omaggio al mondo cinematografico celebrato in mostra attraverso i ritratti di Liz (1964), Judy Garland (1985), Silvester Stallone| (1980) e Arnold Schwarzenegger|(1977).
Come è capitato tante volte nella storia artistica e culturale del mondo anche Warhol, agli inizi della sua prodigiosa carriera – scrive in catalogo Andrea Bellenghi, curatore della mostra realizzata dal Gruppo Arthemisia in collaborazione con Eugenio Falcioni & Art Motors srl, “non gode di alcun privilegio di menzione se non quello di essere etichettato come “Andy lo straccione”, “il pubblicitario”, “il vetrinista”; inoltre, come testimoniato da lui stesso, l’aspetto fisico non è un suo alleato. tuttavia, a distanza di trentun anni, il nome di quel timido e pallido artista viene celebrato ancora come uno dei più importanti e influenti dell’intera storia dell’arte contemporanea, oggi divisibile paradossalmente in “before Warhol” e “after Warhol”. Sensibile alla tecnologia e all’innovazione come pochi, tanto da essere scelto come testimonial per il lancio del nuovo computer Commodore Amiga 1000 al Lincoln Center Theater nel luglio 1985, in cui si cimenta in disegni digitali ed elaborazioni grafiche di immagini, Warhol è l’artista del “why not” per antonomasia.
Nell’epoca dove il termine multitasking è entrato nella quotidianità di ognuno di noi rendendoci schiavi di una necessità non dittatoriale quanto obbligatoria, possiamo immaginarlo all’arzilla età di novant’anni con un suo smartphone a scattare innumerevoli foto condividendole su Facebook o lnstagram per i suoi probabili e improbabili follower, contornate dai like e commenti di amici come Mick Jagger o Christopher Makos, senza dimenticare quanto sarebbe divertente leggere le reazioni e i litigi sociaI con gli artisti di altre correnti e principi, ognuno di loro con il proprio diritto di accusa e di replica. Padre e figlio della Pop Art, non è azzardato sostenere che se Warhol fosse vivo oggi avremmo assaporato una ulteriore evoluzione del suo modus operandi, più istantaneo e immediato in rapporto ai frutti di una società ulteriormente globalizzata e veloce”.
A novant’anni dalla nascita dell’artista morto nel lontano 1987 per una banale operazione si può affermare che Warhol ha dato avvio a un manierismo pop che ci sovviene e tormenta senza tregua ancora oggi con rielaborazioni e interpretazioni. I suoi progetti, le sue opere, le sue creature hanno condizionato nel bene e nel male intere generazioni dalla fine degli anni Ottanta. E continueranno a farlo in futuro perché con Warhol i conti non si potranno mai chiudere.
Andy Warhol – Roma – Complesso del Vittoriano – Ala Brasini, dal 3 ottobre 2018 al 2 febbraio 2019.