C’è chi lo sostiene da sempre, chi ne fa un premeditato modus operandi sul luogo di lavoro, chi invece vorrebbe riuscire a comportarsi così ma poi si sente in colpa. Ormai è una certezza: lavorare poco (e magari pure male) conviene. Alla salute e alla felicità. Secondo uno studio della società di consulenza e di collocamento statunitense Leadership IQ i cosiddetti “low performer” sono gli impiegati di solito più soddisfatti all’interno di un’azienda.
La spiegazione è molto semplice, e in fondo ha poco di stupefacente: essendo valutati meno positivamente dai loro capi, dai dipendenti più “scarsi” si pretende generalmente meno e di conseguenza, partendo da un giudizio negativo o comunque mediocre, è per assurdo anche più facile che ricevano complimenti.
“Gli impiegati meno performanti – ha spiegato Mark Murphy, ad di Leaderhip IQ, al Wall Street Journal – finiscono spesso col vedersi assegnare i compiti più semplici, in quanto i manager si fidano meno di loro. Perciò sono meno sottoposti allo stress e più soddisfatti della loro vita lavorativa”.
Non solo: sono persino più motivati e propensi a raccomandare la loro azienda a clienti, consumatori o futuri colleghi. Già, perché l’oasi di felicità che si sono costruiti è in realtà inconsapevole, essendo al contrario convinti di lavorare bene ed essere apprezzati da tutti. Questo avviene, sempre secondo Leadership IQ, perché ricevono molte pacche sulle spalle dai loro superiori, a differenza di quanto accade ai dipendenti più devoti e capaci, che si sentono invece “stressati e sottovalutati”.
Il fenomeno, palesemente ingiusto ma in qualche modo divertente, assume invece secondo alcuni esperti un significato drammatico per la struttura e il futuro delle aziende, che così tendono a far scappare i migliori elementi, che si sentono poco valorizzati, a favore una marmaglia di mediocri che invece gongolano convinti della loro efficienza. C’è chi a tal proposito parla persino di “congiura degli imbecilli”, o di “teoria delle imprese stupide”, come il professore della scuola di Economia e Management dell’università svedese di Lund, Mats Alvedsson, che spiega come la stupidità giochi un ruolo ormai decisivo nel management delle società: “C’è ormai una stupidità strutturale, un’assenza completa di riflessione critica, per cui gli impiegati di un’organizzazione evitano di porre questioni sulle decisioni e le strategie”. Ma in fondo sono felici così…