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American Primeval: la miniserie Netflix confuta alcuni miti sul West e forse lancia un monito per il presente

La miniserie “American Primeval” su Netflix smantella il mito romantico del West, dipingendo un quadro crudo di violenza, settarismo e lotte di potere tra mormoni, nativi e pionieri, mettendo in discussione le ideologie che hanno forgiato l’immaginario americano

American Primeval: la miniserie Netflix confuta alcuni miti sul West e forse lancia un monito per il presente

In uno dei suoi ultimi saggi (in traduzione italiana Una nazione bagnata di sangue, 2024), pubblicato per stigmatizzare la diffusione delle armi da fuoco nella società americana contemporanea, il poliedrico scrittore statunitense Paul Auster spiega l’odierna fascinazione dei suoi concittadini per pistole e fucili in base alla considerazione che gli Stati Uniti si sono storicamente fondati sulla violenza, in particolare quella compiuta da coloni e pionieri bianchi sui nativi americani per impadronirsi delle terre degli indigeni tra il Settecento e l’Ottocento. La miniserie televisiva American Primeval, sei episodi disponibili su Netflix dallo scorso 9 gennaio, offre una esemplificazione della denuncia di Auster, complicando ulteriormente il quadro di vittime e carnefici, attraverso la messa in scena di un susseguirsi di episodi di violenza esplicita e brutale in quello che un tempo sarebbe stato definito il selvaggio West americano.

Tra finzione e realtà

La vicenda principale narrata è pura fiction. Sono completamente inventate le peripezie della protagonista, Sara Holloway, alias Rowell, in fuga con il figlio Devin attraverso lo Utah verso Crooks Spings per sottrarsi a cacciatori di taglie che la ricercano per un omicidio che ha commesso a Filadelfia. È, invece, reale il contesto in cui si muovono i personaggi: la cosiddetta Guerra dello Utah, svoltasi tra il maggio del 1857 e il giugno del 1858, cioè gli scontri intermittenti tra l’esercito federale statunitense, il clan nativo degli Scioscioni, la Nauvoo Legion – la milizia territoriale della Chiesa di Gesù Cristo dei santi degli ultimi giorni, i cui fedeli sono generalmente conosciuti come mormoni – e i loro alleati Paiute, un’altra tribù indigena. 

Lo sfondo storico

Concepito da Joseph Smith nel 1830 e diffuso in Illinois, Missouri e Ohio, il culto della Chiesa di Gesù Cristo dei santi degli ultimi giorni fu oggetto di persecuzioni a causa dell’accettazione della poligamia e di una concezione protocomunista della società. Dopo il linciaggio di Smith, avvenuto a Carthage in Illinois nel 1844, il nuovo leader dei mormoni, Brigham Young, cercò rifugio con i suoi seguaci in Messico, nella zona del Grande Lago Salato, dove la lontananza da altri insediamenti avrebbe dovuto garantire ai mormoni la possibilità di praticare la loro fede in piena libertà. La regione, però, fu conquistata dagli Stati Uniti, al termine della guerra combattuta contro il Messico tra il 1846 e il 1848, e venne organizzata amministrativamente come territorio dello Utah nel 1850. I mormoni si ritrovarono così sotto la sovranità di quello stesso Paese dal quale si erano sentiti costretti a fuggire nel 1844. Non riconobbero l’autorità del governo statunitense e si proposero addirittura di trasformare lo Utah in uno Stato teocratico autonomo che chiamarono Deseret. Il presidente degli Stati Uniti James Buchanan, entrato in carica nel 1857, inviò 2.500 soldati nello Utah per deporre il governatore scelto dai mormoni, Young, e ripristinare il controllo dello Stato federale sul territorio. Ne derivò quello che oggi definiremmo un conflitto a bassa intensità, senza nessuna battaglia campale, conclusosi con un compromesso: il perdono presidenziale ai ribelli, l’accettazione da parte dei mormoni della giurisdizione federale sullo Utah e il passaggio di consegne da Young a un governatore designato da Buchanan, Alfred Cumming, anche se Young rimase presidente della Chiesa e continuò a condizionare la politica del territorio.

Il massacro di Mountain Meadows

Uno degli episodi più sanguinosi della Guerra dello Utah fu l’eccidio di Mountain Meadows. Qui una unità della Nauvoo Legion, insieme a un gruppo di Paiute, massacrò almeno 120 pionieri, compresi donne e ragazzi, diretti dall’Arkansas alla California, probabilmente perché interpretò la loro presenza come la premessa dell’arrivo di truppe federali decise a spazzare via la Chiesa mormone. American Primeval ricostruisce questo evento, pur prendendosi alcune licenze per esigenze narrative. I pionieri opposero una strenue resistenza e si difesero per cinque giorni, dal 7 all’11 settembre 1857, prima di venire sopraffatti. Nella fiction, invece, vengono colti di sorpresa e tutto si svolge nell’arco di pochi minuti. La milizia risparmiò diciassette bambini sotto i sei anni che furono poi adottati da famiglie di mormoni. Di contro, in American Primeval, oltre a Sara Holloway e al figlio, si salvano temporaneamente alcune donne, date in pagamento ai Paiute e poi uccise tranne una da un gruppo di Scioscioni. In particolare, la miniserie televisiva presenta il governatore Young come il deus ex machina del massacro, sposando in modo acritico l’ipotesi di un suo coinvolgimento diretto nella strage. Si tratta di una tesi storiograficamente controversa. Alcuni studi, infatti, attribuiscono la responsabilità del massacro a una decisione autonoma dei comandanti locali della Nauvoo Legion e sostengono che Young avrebbe invece ingiunto ai suoi uomini di lasciar transitare i pionieri senza arrecare loro alcun danno, ma il testo della sua direttiva – ancorché mai ritrovato in originale – sarebbe arrivato troppo tardi ai destinatari perché portato da un messaggero a cavallo a causa dell’assenza di linee telegrafiche nello Utah. 

La figura di Young

Più in generale, American Primeval raffigura Young nelle vesti di un leader religioso carismatico, ma anche fanatico, intransigente e machiavellico, che pronuncia sermoni incendiari e rivela un’assoluta mancanza di scrupoli nell’attuare la missione provvidenziale che Dio avrebbe assegnato alla sua Chiesa. Da un lato, ordina di uccidere i testimoni non mormoni dell’eccidio, perché intende farne ricadere la colpa sugli Scioscioni. Dispone pure che venga annientato un drappello di truppe federali il cui comandante è giunto alla conclusione che il massacro è opera di membri della Nauvoo Legion. Questa seconda strage, però, è un altro frutto della fantasia della sceneggiatura, al pari della distruzione dell’accampamento degli Scioscioni, entrambe vicende mai avvenute. Dall’altro lato, Young sborsa una cifra rilevante per acquistare e poi dare alle fiamme un avamposto, Fort Bridger, in Wyoming, che l’esercito statunitense avrebbe potuto sfruttare come testa di ponte per penetrare nel territorio dei mormoni. Anche in questo caso, le forzature storiche abbondano, sebbene non siano particolarmente rilevanti: Fort Bridger, per esempio, fu acquistato dai mormoni nel 1855 e non dopo il massacro di Mountain Meadows; fu pagato in dollari d’oro e non con le due bisacce stracolme di banconote con cui arriva lo Young televisivo; il tentativo di incriminare Jim Bridger, il proprietario dell’avamposto, per aver venduto armi e alcolici ai nativi americani, parte della strategia di Young per impadronirsi di Fort Bridger, risaliva al 1853 e non al 1857. 

La voce dei marginali lungo la frontiera

Per essere una fiction televisiva non particolarmente empatica verso la Chiesa di Gesù Cristo dei santi degli ultimi giorni, American Primeval omette curiosamente qualsiasi riferimento al fatto che la schiavitù era ancora legale in Utah alla vigilia della guerra civile (1861-65). La miniserie cerca di fornire una prospettiva più articolata della complessità della frontiera americana, conferendo rilievo a esperienze generalmente lasciate ai margini delle vicende ambientate nel West: quella femminile, valorizzando la resilienza orgogliosa delle donne che si contrappongono alla brutalità maschile (per limitarsi alla figura più emblematica, Sara Holloway scappa nel West dopo aver ucciso un uomo violento e, una volta in Utah, non esita a massacrare un altro uomo che l’ha stuprata e i suoi complici), e quella delle nazioni autoctone, evidenziando che gli indigeni vorrebbero vivere in pace ma vedono la loro sopravvivenza messa a rischio per il solo fatto di essere stanziati in una terra su cui mormoni e pionieri hanno messo gli occhi. Il personaggio della giovane nativa Due Lune, che abbandona la tribù d’origine per unirsi a Holloway e a Devin dopo essersi sottratta a un tentativo di stupro e rafforza il suo desiderio di libertà uccidendo uno dei cacciatori di taglie, costituisce la sintesi dell’intento della miniserie di dare voce alla resistenza di donne e indigeni, un obiettivo della sceneggiatura esaltato dal riuscitissimo artificio narrativo per cui la ragazza è muta in quanto le è stata tagliata la lingua. Invece, non c’è nessuna rappresentazione degli afro-americani tenuti in schiavitù dai mormoni sebbene, mentre si combatteva la Guerra dello Utah, poco più a Est, nel territorio del Kansas, fosse in corso un conflitto armato molto più cruento tra abolizionisti e schiavisti che precorse la guerra civile.

Oltre il genere western

Come ogni fiction sul West che si rispetti American Primeval è una celebrazione dell’individualismo che, come osservava lo storico Frederick Jackson Turner già alla fine dell’Ottocento, costituì una caratteristica precipuo della vita lungo la frontiera, un ambiente dove ognuno doveva badare a se stesso. La miniserie, però, stimola anche riflessioni che trascendono quelle derivanti dai contenuti abituali del genere western. La Nauvoo Legion che presidia lo Utah è uno dei numerosi esempi di vigilantismo che costellano la storia degli Stati Uniti, un fenomeno riemerso in anni più recenti con la formazione di milizie di privati cittadini, come i Minutemen dell’Arizona e della California, intenti a presidiare il confine meridionale per scongiurare l’arrivo di immigrati irregolari dal Messico. Il governatore Young, che fa di tutto perché gli Scioscioni siano ritenuti i perpetratori del massacro di Mountain Meadows, è un antesignano ottocentesco dei diffusori di fake news dei giorni nostri. L’opposizione armata dei mormoni al governo federale richiama l’ostilità che le minoranze desiderose di perseguire una proprio versione del “sogno americano” manifestano nei confronti della autorità di Washington, ritenute pronte a ordire cospirazioni per soffocare nel sangue le forme di dissenso, soprattutto quando l’anticonformismo è espressione di principi religiosi. Neppure in questo caso si tratta di un fenomeno circoscritto all’Ottocento. Lo attesta, ad esempio, la vicenda dei davidiani, un gruppo di avventisti che, nel 1993, si asserragliarono per cinquantuno giorni in un ranch a poche miglia da Waco, in Texas, per salvaguardare il loro diritto ad ammassare armi per difesa personale, fino a quando l’assedio posto dal Federal Bureau of Investigation degenerò in uno scontro a fuoco in cui restarono uccisi quattro agenti e oltre ottanta adepti del culto.

La rivisitazione del West

American Primeval decostruisce l’interpretazione romantica del West quale luogo delle opportunità per chiunque fosse mosso da un minimo di intraprendenza e determinazione, sostituendo questa lettura con la rappresentazione di una realtà brutale che non lascia spazio ad alcuna forma di idealismo e trasforma perfino gli apparentemente nobili valori dei mormoni in un settarismo intollerante e omicida. In particolare, la miniserie critica il concetto del “destino manifesto”. Infatti, la dialettica tra i modi contrastanti di vivere questo principio da parte delle fazioni che interagiscono in Utah – la volontà dei mormoni di edificare la Nuova Gerusalemme, l’intento del governo federale di diffondere le istituzioni laiche e repubblicane, la diffusione dello spirito del capitalismo emergente, simboleggiato dalle transazione commerciali che si svolgono all’ombra di Fort Bridger – produce solo morte e devastazione.

Un monito per il presente?

American Primeval ha cominciato a essere girata nel febbraio del 2023, in tempi relativamente lontani dalla resurrezione politica che ha riportato Donald Trump alla Casa Bianca nel novembre dell’anno successivo. Giunge, però, sugli schermi televisivi per puro caso quasi in coincidenza con la celebrazione dei pionieri, dello spirito della frontiera e del “destino manifesto” che Trump ha inserito nel suo secondo discorso di insediamento lo scorso 20 gennaio. Anche se chiaramente la produzione non può essersi posta questa finalità, lo scardinamento dei miti legati al West sembra servire da involontario monito metaforico di quello che potrebbe celarsi sotto l’instaurazione dell’“età dell’oro” promessa dal quarantasettesimo presidente ai suoi elettori.

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Stefano Luconi insegna Storia degli Stati Uniti d’America nel dipartimento di Scienze Storiche, Geografiche e dell’Antichità dell’Università di Padova. Le sue pubblicazioni comprendono La “nazione indispensabile”. Storia degli Stati Uniti dalle origini a Trump (2020), Le istituzioni statunitensi dalla stesura della Costituzione a Biden, 1787–2022 (2022), L’anima nera degli Stati Uniti. Gli afro-americani e il difficile cammino verso l’eguaglianza, 1619–2023 (2023). La corsa alla Casa Bianca 2024. L’elezione del presidente degli Stati Uniti dalle primarie a oltre il voto del 5 novembre (2024).

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