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Ambiente, Pasini (Cnr): “Mobilitarsi come per il Covid”

Imagoeconomica

Nel 2022 saranno 50 anni dalla Conferenza sull’Ambiente di Stoccolma del 1972. Mezzo secolo durante il quale il pianeta si è ammalato progressivamente e i rimedi sono stati spesso tardivi e poco efficaci. A Stoccolma, in quella occasione, l’Onu tracciò il primo programma per l’ambiente e istituì il 5 giugno come Giornata mondiale dell’Ambiente. In tutto il mondo si stanno preparando dibattiti, iniziative e mobilitazioni, ma «i veri effetti di tutto ciò che stiamo facendo si vedranno tra 10, 20, 30 anni» dice Antonello Pasini, fisico, climatologo del Cnr e tra i maggiori esperti europei. Lo abbiamo intervistato.

Professor Pasini, quanto è diffusa nel mondo la consapevolezza della necessità di una battaglia per l’ambiente?

«Anche se la situazione può apparire variegata, la consapevolezza ambientale sta crescendo ovunque, come dimostra la nascita di movimenti che mirano a un nostro rapporto più armonioso con la natura. La natura viene percepita correttamente come la base imprescindibile della nostra esistenza e del nostro benessere sulla Terra. Ci sono, però, ancora ostacoli alla diffusione di questa visione di mutua e profonda interrelazione».

Per esempio?

«Nei Paesi industrializzati, dove generalmente la scienza fa parte della base culturale delle persone, determinati interessi e visioni della crescita economica portano a sottovalutare o addirittura a distorcere i risultati della scienza del clima. Nei Paesi in via di sviluppo, dove si risente degli effetti più gravi dell’inquinamento e dei cambiamenti climatici, spesso le vere cause di queste situazioni non vengono percepite dalla gente comune».

Il 2020 è stato un anno da dimenticare. La pandemia ha colpito dappertutto, sconvolto le nostre vite, l’organizzazione sociale. A questo punto gli obiettivi Onu sul clima al 2030 e al 2050 sono ancora validi o vanno rivisti?

«Assolutamente sono ancora validi. Anzi, la pandemia dovrebbe averci fatto capire che la ripresa del dopo-Covid deve essere improntata proprio alla soluzione dei nostri problemi di disequilibrio con l’ambiente. Ci sono cause comuni che guidano i cambiamenti climatici e l’aumento di probabilità dello spillover, cioè il passaggio di virus o altri patogeni da animali selvatici all’uomo».

Cosa succede in pratica?

«Succede che quando andiamo a deforestare in un Paese tropicale per fare una monocoltura o un allevamento intensivo, o estendiamo una megalopoli nella foresta, da un lato facciamo del male al clima perché togliamo di mezzo assorbitori di anidride carbonica (gli alberi), ma dall’altro lato rendiamo più facile lo spillover».

Cambiamento climatico e pandemia sembrano due dinamiche parallele su scala mondiale. Dobbiamo imparare a gestirle?

«Si, come ho mostrato in un mio articolo recente, la dinamica della pandemia è molto simile a quella del cambiamento climatico. Sono fenomeni a crescita rapida, non lineari, che mostrano un’inerzia e dei tempi di ritardo tra quando agiamo per risolverli e quando vediamo i risultati delle nostre azioni».

Ma per il Covid i Paesi si sono mobilitati. Per il clima e l’ambiente cosa ci aspetta?

«Prendendo lezione dalla mobilitazione mondiale per porre un freno a quest’ultima emergenza, dovrebbe essere più chiaro che occorre agire prontamente e in maniera decisa per fermare il riscaldamento globale».

Guardiamo all’Europa. Sul clima l’Unione europea vuole raggiungere obiettivi ambiziosi, magari prima degli altri. Tuttavia, si ha la sensazione che il suo Green New Deal non stia procedendo come ci si aspettava, e non solo a causa della pandemia. Sono in ballo molti miliardi, ma veri effetti sul clima non si vedono. Che ne pensa?

«Gli effetti sul clima si vedranno tra 10, 20, 30 anni solo se agiamo decisamente adesso, perché il sistema clima ha una grande inerzia. Il Next Generation EU è lo strumento per innescare questo cambiamento, con un forte impulso iniziale e la pianificazione di cambiamenti strutturali che soli potranno condurci ad avere successo in questa battaglia climatica».

L’Italia vuole fare la sua parte. Con la transizione energetica ha tracciato un percorso ambizioso. I soldi che dovrebbero arrivare dall’Ue sono proporzionati per una vera transizione climatica? E il 2026 non è troppo ravvicinato?

«Si tratta di una quantità di denaro cospicua ma che, come già accennato, serve solo ad innescare il rinnovamento, che dovrà poi continuare con una cascata di altri cambiamenti».

I prezzi, per esempio…

«Esatto. Quando il prezzo dell’energia da fonti rinnovabili diventerà molto più conveniente di quello da combustibili fossili, o quando la parità tra i prezzi di un’auto elettrica e di una a combustione interna sarà raggiunta. In generale, credo che l’importanza di questo denaro sia quello di dare una “spallata” ad un certo modo di produrre energia fino a che il cambiamento non possa procedere da solo».

Ma l’Italia deve crescere anche dal punto di vista di una maggiore conoscenza. Un tempo si parlava di educazione ambientale nei programmi scolastici. Qual è il suo giudizio?

«Io, che faccio ricerca scientifica da un lato e divulgazione dall’altro, dico sempre che c’è un anello mancante nel trasferimento delle conoscenze: la didattica. Per affrontare consapevolmente ed efficacemente i problemi climatici ed ambientali occorre un’alfabetizzazione sui sistemi complessi, e questa può darla solo la scuola. Noi, infatti, siamo abituati a considerare sempre sistemi semplici, in cui una causa crea un determinato effetto e tutto finisce lì».

Invece dobbiamo allargare gli orizzonti in diversi campi.

«I sistemi come il clima sono altamente interconnessi e un cambiamento, per esempio apportato dalle nostre azioni, produce una cascata di effetti che si propagano nel sistema. In questo contesto, non possiamo continuare ad agire in maniera meccanicistica o, come direbbe Papa Francesco, tecnocratica. In un sistema semplice se abbiamo un buco e lo tappiamo abbiamo risolto il nostro problema; in un sistema complesso come il clima se tappiamo un buco qui può aprirsi una voragine altrove. Dobbiamo considerare tutte le conseguenze delle nostre azioni e non cercare di risolvere un unico problema perché questo potrebbe andare a scapito di altri».

Professor Pasini, in definitiva anche lo Stato deve attrezzarsi meglio per affrontare questioni epocali e complesse. Mettere insieme più rischi.

«Bisogna cercare strategie che siano vincenti su più fronti, ad esempio, che limitino i cambiamenti climatici e i rischi di pandemia, o che agiscano insieme sui cambiamenti climatici e sulla povertà. Ma per far questo dobbiamo essere consapevoli di come funzionano i sistemi complessi: ecco l’importanza della didattica».

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