Ne vediamo e ne leggiamo di ogni tipo, perché da un lato c’è chi vuole rispettare l’ambiente, dall’altro chi specula. Di fatto il greenwashing -il falso ambientalismo, artefatto- esiste e si diffonde. L’Europa politica se n’è resa conto e il 6 marzo è stata pubblicata sulla Gazzetta ufficiale Ue una nuova direttiva che indica le pratiche commerciali scorrette.
Il documento precisa i requisiti di sostenibilità venduti dalle aziende insieme ai prodotti. Le pubblicità ingannevoli, purtroppo, sono una costante del mondo globalizzato e tutti hanno capito che senza il marketing ecologico non si fanno buoni affari. Con gli artifici della pubblicità le aziende danno l’impressione che acquistando i loro prodotti i consumatori contribuiscano a un’economia a basse emissioni di carbonio. Non importa se il caffè, la farina, lo yogurt, la libreria, sono stati ottenuti con lavoro mal pagato, operai non tutelati, in un’area del mondo soggiogata. Basta avere un marchio green, NO CO2 e il commercio va.
L’Università di Pisa studia il fenomeno
Ma vogliamo fare i conti anche con la coscienza dei cittadini ? Certo, “perché il greenwashing influisce negativamente sugli affari, ma l’effetto è mitigato dalla presenza femminile. Quando, cioè, nei consigli di amministrazione delle aziende c’è una sostanziale parità di genere” dice Giuliana Birindelli, docente all’Università di Pisa, autrice insieme ad altri colleghi di uno studio molto particolare, quasi rivoluzionario.
Intanto, cosa ha stabilito la Commissione Europea ? Che entro marzo 2026 gli Stati membri adottino la direttiva per applicarla da settembre dello stesso anno. L’efficacia si misurerà sulla black list che qualifica le condotte delle aziende. È vietato, per esempio, esibire un marchio di sostenibilità non basato su un sistema di certificazione o non stabilito da autorità pubbliche. I consumatori vanno protetti e questo va bene. “È essenziale che possano prendere decisioni di acquisto se informati e contribuire in tal modo a modelli di consumo più sostenibili “. Gli operatori economici- così la direttiva- si assumano la responsabilità di fornire informazioni chiare, pertinenti e affidabili. Prima di esibire un marchio di sostenibilità, bisogna preoccuparsi di trasparenza e credibilità con controlli effettuati da terzi. Tanto poi paga l’acquirente.
Le Banche nel mirino
A questo punto cosa dice lo studio dell’Università di Pisa di così straordinario ? È stato pubblicato su Research in International Business and Finance. Gli autori, oltre alla professoressa Birindelli, sono Helen Chiappini dell’Università di Chieti-Pescara e Raja Nabeel-Ud-Din Jalal dell’Università Cattolica. Hanno esaminato un campione di 77 banche europee quotate in borsa (15 italiane) dal 2013 al 2020. Perché le banche ? “ Perché sono imprese sulle quali l’attenzione della comunità è molto alta – dice Birindelli. Quando il greenwashing viene scoperto o anche solo percepito, scatta la punizione degli investitori e dei clienti”. Il mercato reagisce con rabbia al tradimento della fiducia, i clienti diventano scettici.
Nemmeno a pensarlo. Che le banche, sustainable, senza più carta, con pochi sportelli, ti raggirino ? “Eh si, nel sistema bancario gli esempi di ambientalismo di facciata sono molti” aggiunge la Prof. Poche settimane fa la BCE ha pubblicato un report dal quale emerge che le banche che si dichiarano più attente all’ambiente, in realtà hanno concesso ingenti prestiti alle aziende inquinanti. Ma come si arriva all’influenza delle donne ? “Il nostro studio dimostra che questi effetti negativi si riducono quando nei CdA ci sono donne”. Sono le più sensibili alle tematiche ambientali e più orientate alla trasparenza informativa. “Questi aspetti giocano un ruolo importante nel mitigare una pratica scorretta come il greenwahing, ampiamente diffusa nel settore bancario, attenuando gli impatti negativi in termini di performance finanziarie”.
L’ambientalismo praticato dalle donne-manager batte, dunque, la concorrenza maschile. I dati di base dello studio di Pisa sulla divulgazione ambientale arrivano da Bloomberg e i dati sul prodotto interno lordo del paese, provengono dalla Banca Mondiale. Ha fatto bene la Commissione europea a mettere un freno a un fenomeno-trappola del nostro tempo. Chi crede nella tutela dell’ambiente, senza ideologismi e in una crescita sostenibile per le prossime generazioni, deve augurarsi che si aprano più porte alle donne nei CdA, oltre a quanto già prescrivono alcune leggi. Prima del 2026 e non solo nelle banche.
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Era ora che qualcuno se ne iniziasse a rendere conto!