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Amazon e l’open source: il dilemma dei beni comuni

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AWS, mamma mia!, che servizio

Amazon Web Service (AWS) è la gallina dalle uova d’oro di Amazon. La piattaforma fornisce servizi di cloud computing avanzato a migliaia di aziende, comprese Netflix, Airbnb ed Expedia. E contribuisce in modo decisivo ai profitti del gigante di Seattle e alla sua capitalizzazione. Alcuni analisti pensano che, proprio per via di AWS, Amazon è il principale candidato a raggiungere i due trilioni di capitalizzazione in borsa, lasciandosi alle spalle Saudi Aramco, Apple, Microsoft e Alphabet che hanno già sfondato il tetto del trilione. Quando Trump ha voluto colpire Amazon, e in particolare il suo capo, Jeff Bezos, proprietario del giornale The Washington Post, che ogni giorno gli mette i sassolini nelle scarpe, prendendo di mira AWS. Amazon si è visto togliere, nottetempo, quasi per decreto presidenziale, la commessa più lucrosa della storia militare americana: quella di fornire il cloud computing al sistema di difesa del Paese. Il servizio è andato a Microsoft. Sotto la pacata direzione di Satya Nadella, Microsoft ha assunto un profilo politico molto basso, nonostante Gates non sia tenero con l’amministrazione in carica. Secondo Forbes, AWS contribuisce, solo negli Stati Uniti, al 40% della capitalizzazione di Amazon. Ha un margine operativo del 25%, contro il 2-3% degli altri servizi (e-commerce, marketplace ecc.). A livello internazionale, quest’ultimi sono in perdita.

AWS, quasi per caso

Finalmente Wall Street ha avuto quello che voleva da anni dal colosso di Seattle, cioè profitti a due cifre. Per questo continuerà a premiarlo. Uno strike per AWS, considerando che il servizio di cloud è responsabile di appena il 16% dei ricavi complessivi di Amazon. Eppure, AWS è nata quasi per caso, da un ribaltone concettuale di politica industriale di cui Bezos è stato l’officiante. Alle origini, AWS era un servizio interno ad Amazon. Doveva gestire le attività operative del gruppo e battere la concorrenza nell’esecuzione delle transazioni in termini di vantaggio competitivo. In puro stile amazzoniano, Bezos ha punteggiato la mappa del mondo di data center in cui AWS è stata installata sui server. Fin qui niente di inusuale. Poi è venuta l’intuizione disruptiva. Si sono detti: “Perché tenere solo per noi questo gioiello di tecnologia? Perché non vendere il servizio di cloud computing a chiunque lo richieda, concorrenti inclusi? In fin dei conti questo modo di operare, cioè competere aspramente con i concorrenti e servirli allo stesso tempo, è nel DNA di Amazon, sin da quando Bezos impacchettava i libri insieme alla moglie Tuttle MacKenzie.

AWS un servizio universale

Per esempio, il marketplace compete con l’e-commerce nativo di Amazon. Gli editori che distribuiscono su Amazon sono in gara sul Kindle Store con i libri pubblicati dalla stessa Amazon. Il colosso ha una linea pressoché infinita di prodotti a marchio proprio, dai pannolini alla gomma da masticare. Adesso ha anche un proprio sistema logistico, compresa una flotta di aerei da trasporto, che gareggia con Federal Reserve System, United Parcel Service e le poste americane. Ha il servizio di streaming Amazon Prime, che compete con Netflix, anche se quest’ultimo utilizza AWS per portare film e serie nelle case di oltre centocinquanta milioni di famiglie. Martin Sorrell, che non è certo secondo a nessuno quanto ad acume e vena eufemistica, ha definito Amazon un “frenemy” (dall’unione delle parole “friend” più “enemy”). Nel senso che fornisce un servizio di eccellenza ai partner e cerca di eroderne le quote di mercato con il migliore tra i servizi, in primo luogo in termini di prezzo. In genere è un’operazione che riesce perché tutti competono sulla stessa piattaforma: quella di Amazon, per l’appunto. Ed è Amazon che la controlla nei suoi vari aspetti, dalla tecnologia alla scontistica. Per questo Elizabeth Warren vorrebbe farne cinque aziende differenti, in caso del suo improbabile successo alle elezioni di novembre.

Il paradosso di AWS

Come tutte le cose della nuova economia, il successo di AWS si basa su un paradosso. AWS non è stata creata dai tecnologi di Amazon. Il suo fondamento, infatti, risiede nella tecnologia open source. Succede, dunque, che un software creato dalla comunità open source motorizza i profitti di Amazon, in un modo che i missionari dell’Open Source Foundation non avrebbero mai avuto l’ardire di immaginare. AWS è l’esempio più puro di piggybacking, cioè l’azione di mettersi a cavalluccio di qualcun altro. Per usare una metafora calcistica, è come se il centravanti si facesse portare su dal terzino per colpire la palla con la testa, lasciando il terzino con un palmo di naso. Stile i famosi gol di rapina di Paolo Rossi. Il software open source ha pochi paralleli nel mondo del business. È un bar che regala un caffè nella speranza che l’avventore acquisti il latte, lo zucchero o un croissant.

L’open source e il mercato

L’open source è un modello sperimentato ed efficiente, che l’industria del software ha coltivato per far arrivare rapidamente la tecnologia ai clienti. IBM e Microsoft, che l’hanno deriso e avversato per lungo tempo, adesso ne sono degli entusiasti utilizzatori. Si tratta di software aperto il cui sorgente è aperto, modificabile e condivisibile, creato da una comunità immensa di sviluppatori stimata da GitHub sui 40 milioni di utenti. I membri migliorano continuamente i programmi, e cercano di mostrare al mondo il contributo dell’open source in termini di costi e valenza sociale. Molti considerano l’open source alla stregua di un bene comune. Succede anche che le aziende più avvedute, che operano nell’ambito dell’open source, guadagnano dai molti servizi collaterali che la tecnologia richiede per funzionare al meglio in un mercato fortemente competitivo. Primi fra tutti l’assistenza, la consulenza e il software ancillare.

Sempre più “strip mining”

Il database di AWS, un successo immenso, non è stato creato da Amazon. L’azienda si è, invece, affidata a programmi di pubblico dominio, sviluppati dalla comunità open source e liberamente condivisi. Inizialmente la cosa non ha destato particolari clamori. Ma quando Amazon, nel 2015, ha ripetuto l’operazione integrando in AWS la funzione di ricerca sviluppata dalla start up Elastic, la comunità open source ha iniziato a reagire. Todd Persen, capo di Elastic, ha dichiarato a Daisuke Wakabayashi del New York Times: “C’è un’azienda, la mia, che ha costruito un business intorno a un prodotto open source che piace alla gente e, da un giorno all’altro, c’è un concorrente (Amazon) che usa contro di noi quello stesso prodotto. Siamo stati azzerati”. Sempre di più l’industria del software open-source è diventata una miniera da cui Amazon estrae materia prima. Quando ha prelevato e integrato in AWS Elasticsearch, non ha avuto bisogno di chiedere il permesso, di pagare delle royalty alla start up o di acquisirla. Non ce n’è stato assolutamente bisogno perché l’open source si fonda sul principio etico non di business. Inutile dire che qui ritorna il dilemma sui beni comuni innescato da una riflessione di Garrett Hardin, nel 1969, sulla tragedia dei commons di fronte ai free rider. Ma ci sono anche altri modi di fare le cose nel mondo delle grandi corporation. IBM, che sa essere un’azienda spietata e assertiva al pari di Amazon, per esempio non ha bellamente clonato il software open source di Red Hat, ma ha acquisito l’azienda, mantenendo la sua autonomia, con un investimento mica da niente, ben 34 miliardi di dollari. I soldi che mancano a Macron per la riforma delle pensioni dei francesi.

Nuove regole per l’open source

L’atteggiamento di Amazon è diverso e lascia poche opzioni a molte start up dell’open source sul cui servizio posa lo sguardo. Ciò muterà la natura stessa dell’open source. Alcune start up hanno già deciso di cambiare le regole sull’utilizzo dei loro prodotti, barrando Amazon e altre aziende dallo sviluppare il free riding, cioè dall’appropriarsi del loro software, dal trasformarlo in un servizio a pagamento e dal mandarli in bancarotta. Nel giro di un anno, Amazon ha ricavato più soldi da Elasticsearch che Elastic stessa. Così, a metà dell’anno scorso, Elastic ha aggiunto alcune funzionalità premium cercando di evitare il totale risucchio della propria clientela. Ma Amazon ha comunque duplicato molte di queste nuove funzionalità e le ha aggiunte, gratuitamente, alla piattaforma cloud di AWS. A questo punto Elastic ha deciso di ricorrere alle vie legali. A settembre ha fatto causa ad Amazon per violazione del marchio. Stupidamente, Amazon ha infatti denominato il proprio prodotto con lo stesso nome: Elasticsearch. Il caso è pendente presso il tribunale federale della California.

La strategia dell’open source di Amazon

A questo punto il gigante di Seattle ha deciso di uscire allo scoperto. In un articolato post sul blog AWS, Adrian Cockcroft, capo della strategia cloud computing di Amazon, ha delineato la strategia dell’azienda nei confronti dell’open source, lasciando poco spazio alla speranza di un qualche cambiamento di rotta. Si continuerà a impiegare il software di pubblico dominio in modo massiccio e nativo all’interno di AWS, escludendo ogni opzione di forking. Quest’ultima richiederebbe, a parere di Amazon, un inutile sforzo supplementare, causerebbe ritardi negli aggiornamenti ed escluderebbe la comunità open source dai progressi che AWS può portare a questa tecnologia. Amazon abbraccia totalmente la filosofia dell’Open Source Foundation. Dice Cockcroft: “L’open source ha prodotto alcune delle più importanti innovazioni nel campo dell’intelligenza artificiale grazie alla collaborazione tra imprese, istituzioni accademiche e appassionati… Pertanto Amazon incrementerà il proprio impegno in progetti open source”. La nota continua accusando alcuni contributori all’open source di voler “intorbidare le acque” tra il software open source e il codice proprietario che essi creano per monetizzarlo.

L’esempio di Java

Per primo, Cockcroft cita il significativo esempio di Java e la risposta di Amazon alla preoccupazione dei suoi clienti nei confronti dell’intenzione Oracle di non supportare più la versione di Java su cui i clienti fanno affidamento, o di cambiare i termini della licenza d’uso. A questa minaccia Amazon ha risposto con il progetto Corretto, distribuito senza costi e multipiattaforma, pronto per la produzione di un un OpenJDK di Amazon. Parallelamente continuerà a supportare direttamente l’OpenJDK di Oracle. Cockcroft esprime così la visione di Amazon rispetto a progetti simil Oracle: “Se il core software dell’open source è completamente aperto e chiunque può usarlo e contribuirvi, non c’è alcun problema nel fatto che un manutentore (e chiunque altro) possa svilupparci sopra un software o un’applicazione proprietaria per generare ricavi. Tuttavia, questa versione deve essere tenuta separata dalla distribuzione open source per non confondere gli utenti, per preservare la possibilità di chiunque di innovare sopra l’open source e per non creare ambiguità nella questione delle licenze del software o limitare l’accesso a specifiche classi di utenti”. Infine arriva al tema Elasticsearch, a cui dedica ampio spazio, ribadendo la ferma intenzione di Amazon di non procedere al forking del software, ma di utilizzarlo tal quale. A questo proposito menziona la soddisfazione di clienti di AWS come Expedia e Netflix nei confronti di Elasticsearch e la loro intenzione di contribuire al suo miglioramento e di condividere queste implementazioni con la comunità open source.

Le nozze rosse

Molti soggetti e start up che operano nell’ambito dell’open source contribuiscono ad AWS. In genere partecipano, anche, a uno dei maggiori eventi nell’ambito dell’industria del software: la conferenza degli sviluppatori di Amazon AWS che si tiene ogni anno a Seattle. In tanti hanno iniziato a equiparare questo evento alle celebri Nozze rosse della serie Il trono di Spade: alla fine dell’episodio Le piogge di Castamere, uno dei più efferati della serie, il re del Nord, la sua sposa e sua madre e la pleiade di oltre tremila fedeli alla dinastia Stark vengono crudelmente uccisi durante una festa nuziale. Corey Quinn, che aiuta le imprese a lavorare con AWS e ha una newsletter intitolata Last Week in AWS, ha riferito a Wakabayashi che “nessuno sa chi sarà la prossima vittima” di Amazon. Occorre però dire che non sempre Amazon risucchia il software o il servizio di cui necessita, azzerando l’impresa che l’ha sviluppato. Ci può essere un effetto, forse involontario, di rimbalzo. È quello che è avvenuto alla start up di Tel Aviv-Yafo, Redis Lab: Amazon ha clonato la soluzione sviluppata dalla start up, sì, ma ha continuato a supportare il software creato da Redis. Il che ha permesso a Redis di raccogliere 150 milioni di capitale di rischio dal mercato, nonostante Amazon abbia cercato in ogni modo di impossessarsi della sua tecnologia e del suo personale. È questo un caso emblematico del rapporto di odio-amore tra Amazon e le imprese che si relazionano con AWS. Una relazione che Wakabayashi etichetta con una colorita espressione, che lascio in lingua originale: “Can’t-live-with-can’t-live-without relationship”. Frenemy, per l’appunto.

Le informazioni contenute in questo poste sono tratte da Daisuke Wakabayashi, Prime Leverage: How Amazon Wields Power in the Technology World, The New York Times.

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