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Amazon, Apple: la new economy scopre il sindacato. Inflazione e pieno impiego mettono alla prova i nuovi padroni

FIRSTonline

Stanotte, quando i due giganti dell’economia digitale, Apple ed Amazon, annunceranno i conti del trimestre, ad esaminare i dati con attenzione non saranno solo gli analisti finanziari o gli azionisti, non pochi, che legano il loro reddito alle fortune di Jeff Bezos o di Tim Cook. A guardare ai profitti della Mela o del re dell’e-commerce saranno anche i dipendenti di uno degli stores più frequentati di Apple, nel cuore della Grande Mela: il negozio della Grand Central Station di New York, tra l’altro meta del pellegrinaggio di folle di turisti. 

Amazon, Apple e il tabù del sindacato

“E’ un punto di vendita straordinario che impone la massima professionalità dei dipendenti. Per questo occorrono stipendi decenti, adeguati ad un tenore di vita onorevole”. Insomma: un buy back in meno per Warren Buffett o i fondi di Wall Street e qualcosa in più ai lavoratori. E’ quel che si legge nel volantino che lo scorso 17 aprile ha annunciato la nascita del Fruit Stand Workers United, ovvero il primo tentativo nella storia di dar vita ad un sindacato dentro le mura della società dell’iPhone, la più ricca del pianeta. Ma che, a detta dei ribelli della Grand Station, ai lavoratori non ha riservato nemmeno le briciole. “Sono tempi difficili per noi – si legge sul volantino – prima la pandemia, ora un’inflazione che non si vedeva da una generazione”. Di qui una serie di richieste: protocolli più severi per la tutela della salute, più giorni di vacanza ed un minimo garantito di 30 dollari l’ora per tutti i dipendenti. 

Una richiesta che ha il sapore di un miraggio per le operaie, quasi tutte di colore, di Bessemer, Alabama, che guadagnano solo 7,25 dollari l’ora nel deposito locale di Amazon, il secondo datore di lavoro negli States (1,1 milioni di buste paga), che nel 2021 ha impiegato ogni mezzo, compresi più di 4 milioni di dollari di contributi in pubbliche relazioni, per scongiurare la prospettiva della nascita di un sindacato dentro l’azienda.

Non ce n’è alcun bisogno, hanno ripetuto per mesi i luogotenenti di Bezos, perché noi siamo in grado di provvedere meglio degli altri ai nostri dipendenti. Ma il muro di Amazon si è incrinato il primo aprile, quando i dipendenti del deposito JFK 8 di Staten Island, un immenso deposito alle spalle dell’aeroporto, hanno detto sì alla nascita di una Union dopo una battaglia storica: 2.654 a favore, 2.131 contro in un impianto che occupa 8.300 dipendenti.

Amazon e il trionfo di Chris Small, 29 anni

Un trionfo per Chris Small, un giovanotto di 29 anni che l’anno prima, in piena pandemia, aveva chiesto alla direzione di chiudere un reparto per fermare l’epidemia e di fronte al no, aveva organizzato un corteo di protesta. Per tutta risposta era stato licenziato per avere infranto la quarantena all’interno di Amazon. Anche per questo l’esito del referendum è un pesante smacco per Jeff Bezos che, dal 1995 in poi si è sempre battuto con successo contro l’ingresso del sindacato in azienda, al punto da rinunciare ad aprire nel 2019 la seconda sede del gruppo nel Queens, il municipio di New York che è la roccaforte elettorale di Alexandria Ocasio-Cortez, la leader della sinistra democratica.

L’inflazione sale, il virus del sindacato si espande 

Ma, complice l’inflazione, il virus del sindacato si sta espandendo negli Stati Uniti, invertendo una tendenza che ha attraversato tutta la stagione dell’egemonia del neoliberismo, espressione dominante nella stagione dl boom del digitale. Oggi, se si esclude un’area ristretta della vecchia economia fordista, Michigan e dintorni, il sindacato è tabù negli Stati Uniti. Il risultato è che solo il 10 per cento della forza lavoro Usa è iscritto ad un sindacato. La cifra è drogata dai dipendenti pubblici dove la percentuale sale al 33%. Tra i privati solo il 6 % dei lavoratori appartiene ad una Union, una frazione rispetto agli anni di Kennedy o Johnson.

Ma le cose potrebbero cambiare nella stagione della gig-economy segnata da un forte aumento del costo della vita ma anche dal boom del mercato del lavoro. A farne le spese, per ora, è stata soprattutto Starbucks. Il colosso dei bar, ove è proibito usare il temine “dipendente” (siamo tutti “soci”, proclama il fondatore Howard Shultz), è il più colpito dalla voglia di sindacato, compresa la mitica Roastery di New York che, 46 sì contro 36 no, ha detto sì alla commissione interna insieme ad altre 9 caffetterie, avanguardia di un movimento che sta già interessando altri 148 locali in 27 Stati. Al punto che, per affrontare la marea montante, è tornato al lavoro Howard Schultz, 68 anni, l’uomo che ha fondato l’impero con i 33 mila bar e i 388.000 dipendenti nel mondo. 

Starbucks corre ai ripari, Elon Musk twitta

La sua mossa? Cancellare il buyback per l’acquisto di azioni per 20 miliardi già votato dal board. Questi soldi, ha detto, mi servono per migliorare il servizio e la vita dei dipendenti, gli azionisti si facciano da parte. Ma anche Schultz non intende cedere sul sindacato: al bar, è il suo mantra, non si contratta sulle regole anche se gli analisti avvertono che, così facendo, Il rischio è di perdere i dipendenti migliori, in una situazione di pieno impiego.

Una situazione che, agli occhi del solito Elon Musk, ha i suoi vantaggi: “Perché – ha twittato – un mio dipendente deve perder tempo a chiedere la nascita di un sindacato? Se vuole andarsene da Tesla, in dieci minuti trova un altro impiego, magari pagato meglio…”

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