L’Alto Mare, dove tutti rivendicano il diritto di fare ogni cosa, è finalmente zona protetta. L’accordo sulla protezione è stato raggiunto alla Conferenza intergovernativa sulla biodiversità marina dell’Onu a New York dopo 15 anni di trattative ed ora apre nuove prospettive per la pesca, lo sviluppo sostenibile, le specie marine. Stiamo parlando di un’area vastissima che occupa due terzi dell’oceano e della cui tutela si discute dal 2004. Cambia, dunque, il modo di pescare, navigare, fare ricerche nelle aree che non rientrano nelle competenze dei singoli Stati. Economia e ambiente in una nuova sintesi. «L’attuale convezione sul Diritto del Mare, datata 1982 (UNCLOS) ha diviso le aree marine in vari settori a seconda della distanza dalla costa – spiega a FIRSTonline Sandro Carniel, oceanologo, Dirigente di Ricerca dell’ Istituto di Scienze Polari del CNR, autore di oltre 250 pubblicazioni. «Per esempio entro le 200 miglia ogni Paese può decidere come sfruttare, ma anche come conservare e gestire le risorse naturali marine. Tutto quello che sta oltre queste aree venne considerato come bene comune, una sorta di eredità collettiva dell’umanità» Cosa vuol dire ? «Vuol dire che in teoria nei mari profondi che sono i 2 terzi, appunto, di tutte le acque oceaniche mondiali, tutti hanno diritto di pescare, di transitare, di fare ricerca scientifica». Questi erano nobili intenti «si, ma nei fatti la tecnologia ha reso i mari profondi zone di conquista selvaggia, senza vere regole. Immaginate le dispute internazionali, in zone che di fatto sono diventate di tutti quando c’è da guadagnare, ma di nessuno quando c’è da pulire», aggiunge Carniel. Dopo 40 anni solo circa l’1 percento di questi enormi spazi marini è stato protetto. Le attività vengono svolte sostanzialmente senza preoccuparsi di cosa c’è nei fondali. Non a caso con i ghiacciai che si sciolgono, nel Mare Glaciale Artico sono riprese le trivellazioni delle società a migliaia di chilometri di profondità alla ricerca di idrocarburi.
L’accordo sull’Alto Mare: cosa stabilisce
Gli effetti ambientali ed economici dell’accordo Onu hanno come primo obiettivo il 2030. Per questo si parla di “30×30”, ossia proteggere un terzo della biodiversità mondiale – terrestre e marina – entro il 2030. Quel che non manca in questi giorni è il compiacimento per il risultato raggiunto. “È una vittoria per il multilateralismo e per gli sforzi globali per contrastare le tendenze distruttive che affliggono la salute degli oceani, ora e per le generazioni a venire”, ha detto il Segretario generale dell’Onu Antonio Guterres. Per quindici giorni i rappresentanti dei governi hanno discusso su cosa li avrebbe vincolati. Alla fine ci sono riusciti anche se i tempi di reale applicazione del trattato non saranno brevi.
Positive le reazioni anche a Bruxelles con la Presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen che ha detto “ora c’è la protezione dell’oceano al di là delle giurisdizioni nazionali”. Per il Commissario all’ambiente Virginijus Sinkevicius “, è un accordo storico, un passo importante per raggiungere l’obbiettivo della COP15 sulla protezione degli oceani”. Tutti avranno il diritto di pescare, fare ricerca, ma con la contestuale responsabilità di proteggere il mare e assicurarsi una gestione sostenibile delle risorse. Da questo punto di vista l’accordo viene giudicato come un successo storico da Greenpeace, che ne è stato uno dei protagonisti, ed altre organizzazioni ambientaliste. Il WWF dice che il trattato permetterà di creare aree marine protette e colmerà le lacune nell’attuale mosaico di organismi di gestione. Ci sarà il miglioramento della cooperazione e un minore impatto cumulativo di attività come la navigazione, la pesca industriale e lo sfruttamento di altre risorse.
Ma, spente le luci sull’intesa politica, sarà effettivamente così? «Obiettivo di questo nuovo trattato è proteggere, sotto forma di Aree Marine Protette, il 30% dei mari profondi, per dare modo agli ecosistemi marini di riprendersi – risponde Carniel – perché in questi decenni sono stati minati dalla pesca eccessiva, dall’inquinamento, da un crescente sfruttamento delle risorse dei fondali, reso possibile anche grazie allo sviluppo della tecnologia marina, dai cambiamenti climatici».
Un accordo ambizioso, quali rischi vanno affrontati entro il 2030
Ma il 30 percento in pochi anni è fattibile Prof. Carniel? «Francamente sembra un valore molto ambizioso che rischia di rimanere sulla carta. Dipende, infatti, da cosa si intende davvero per Area Marina Protetta, da quale sarà il livello effettivo di protezione, da quanto in fretta i Paesi ratificheranno la convenzione per farla entrare in vigore, e soprattutto dipende da quante risorse economiche verranno effettivamente investite, da come verranno tra loro collegate le Aree Protette».
“Ciò che accade in Alto Mare, non sarà più lontano dagli occhi, lontano dal cuore” è stato anche detto. Ma l’altro punto qualificante e sottoposto a verifica è la correlazione tra economia blu globale e sviluppo sostenibile. “L’oceano è intrinsecamente legato a grandi questioni globali come il cambiamento climatico e la sicurezza alimentare, la salute umana e l’economia globale. – ha detto all’Ocean&Climate Village di Napoli Francesca Santoro, della Commissione Oceanografica Intergovernativa dell’UNESCO. “Comprenderne il valore può migliorare la protezione, la conservazione e l’uso sostenibile dell’oceano e delle sue risorse, oltre a contribuire al raggiungimento degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile”, gli stessi fissati dall’Onu. “Insomma, è un giorno storico sì – conclude Carriel – ma c’è anche il grosso rischio che sia solo un piccolo brodino caldo, che arriva troppo tardi”.