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Alternanza scuola-lavoro: il modello tedesco è un successo. Importiamolo anche in Italia

Chi protesta contro la “Buona scuola” concentrando tutta l’attenzione sul presunto potere dei presidi rischia di dimenticare che l’obiettivo della scuola non è solo istruire ma facilitare la ricerca di un lavoro: il successo del modello tedesco dell’alternanza scuola-lavoro dovrebbe far riflettere anche noi e meriterebbe di essere importato in Italia.

Alternanza scuola-lavoro: il modello tedesco è un successo. Importiamolo anche in Italia

I dati sulla disoccupazione giovanile pubblicati dall’Istat per il mese di marzo sono allarmanti. In Italia, un giovane su due non trova lavoro, ossia il 43,1 per cento (in crescita dello 0,3 per cento rispetto a febbraio) di coloro che sono attivi nella ricerca di un’occupazione. Il dato desta ancora più preoccupazione se si considera che negli ultimi otto anni, il tasso dei disoccupati tra i 15 e i 24 anni è quasi raddoppiato, passando dal 20,4 per cento del 2007 al 42,7 per cento del 2014. In Germania, invece, è diminuito, nonostante la crisi, passando dal 11,8 per cento al 7,7 per cento.

I motivi della performance tedesca sono molteplici. Tra questi, ha giocato un ruolo di prim’ordine il modo in cui è organizzata la formazione dei giovani. E, in particolare, il sistema di alternanza scuola-lavoro – ben sviluppato da ormai molti anni -, che prevede che gli studenti passino due giorni di formazione a scuola e 3 o 4 giorni in azienda.

Alla base del successo di questo percorso, – scelto da oltre due terzi dei giovani tedeschi -, vi è il riconoscimento da parte della collettività del suo valore educativo e formativo (anche il cancelliere Schröder, ad esempio, ha frequentato una formazione professionale, a dimostrazione che non si tratta di un percorso di serie B) e, soprattutto, la stretta collaborazione tra Stato, aziende, Camere di Commercio, sindacati e scuole. Ognuno di essi svolge un compito preciso e ha l’obbligo di coordinarsi con gli altri. Lo Stato, attraverso le regioni e i comuni, predispone i programmi e finanzia una parte della formazione. Le aziende mettono a disposizione laboratori, aule e insegnanti e offrono allo studente un regolare contratto di lavoro, con uno stipendio che aumenta nel tempo, fino a raggiungere un terzo di quello di un lavoratore qualificato. Le Camere di Commercio organizzano gli esami finale e certificano se il candidato ha acquisito le nozioni e le capacità per esercitare la professione.

Ad oggi, in Germania, si può scegliere tra una rosa di oltre 360 qualifiche riconosciute. Nella maggior parte dei casi, sono le aziende stesse che indicano ai sindacati e agli enti locali le figure professionali di cui necessitano. E, infatti, circa l’ottanta per cento dei ragazzi, una volta terminata la formazione, viene assunto all’interno dell’azienda. Lo stretto legame tra domanda e offerta di lavoro, inoltre, si è rivelato un’arma vincente durante la crisi perché ha consentito il ricorso a mano d’opera con le caratteristiche necessarie per far fronte ad un mercato in costante mutamento. Questo spiega perché il manifatturiero tedesco ha potuto svilupparsi in una fase in cui negli altri paesi – a cominciare dall’Italia -, questo settore mostrava una netta contrazione.

Ma, allora, se in Germania il modello di formazione duale funziona così bene, perché non importarlo in Italia? In realtà, nella riforma della scuola del governo Renzi, sono stati fatti alcuni passi in questa direzione. In primo luogo, perché sono previste 400 ore (circa 3 ore alla settimana) di alternanza scuola-lavoro da spalmare negli ultimi tre anni. Inoltre, perché, dagli attuali 11 milioni di euro di finanziamento l’anno, si dovrebbe passare a circa 100 milioni di euro.

La Germania investe oltre 2 miliardi di euro l’anno per misure di preparazione alle professioni del sistema duale. Si tratta di un cifra pari a 20 volte quella preventivata nella riforma. Questa discrepanza, per il governo dovrebbe servire da stimolo a fare di più, sia in termini di risorse che in termini di ore. Per chi ha scioperato, invece, dovrebbe servire a far capire che, concentrando la protesta quasi unicamente sull’eventuale super potere dei presidi, si rischia di perdere di vista che l’obiettivo della scuola, oltre a quello di istruire, è anche quello di mettere i giovani nelle condizioni di poter trovare un lavoro.

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