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Alla ricerca della banca perduta, un libro di Onado di grande attualità

La vecchia banca era meglio di quella di oggi? E’ l’interrogativo che solleva il libro di Marco Onado che evidenzia come la “nuova banca” si colloca sempre “al centro della finanza, ma con un enorme conflitto d’interesse” e con l’insostenibile culto della grande dimensione e dell’infallibilità dei mercati – Anche le banche centrali hanno le loro responsabilità

“Alla ricerca della banca perduta” di Marco Onado, edito da il  Mulino, è un libro molto bello, molto ben scritto, comprensibile al largo pubblico e piacevole da leggere. L’Autore ci propone la sua analisi con una sorta di caccia al tesoro nella quale fa da guida. Posto che abbiamo perduto la banca di una volta, è possibile ritrovarla, dove e in che modo?

Ho l’impressione che Onado faccia di tutto per renderci odiosa la “nuova banca”, quella nata dalla deregolamentazione, dal neoliberismo di fede americana, ma sposata dai circoli bancari europei (intrisi di interessi particulari), coltivati – c’è da giurare – da robuste azioni lobbistiche.  La “nuova banca” (à la Lehman) è quella che ci ha regalato la crisi nella quale noi italiani ancora ci dibattiamo. “Nuova intermediazione” contro “vecchia intermediazione”. Non più depositi per fare prestiti, ma per cartolarizzare; per fabbricare nuovi complessi e opachi strumenti finanziari da destinare agli investitori: li comperano le famiglie e gli investitori istituzionali (dai quali dipendono i redditi futuri delle stesse famiglie). Investitori istituzionali che dovrebbero guardare al lungo periodo, ma che al contrario sono pervasi di short-termism e fame di trading (i fondi italiani, ad esempio, secondo Mediobanca ruotano tutto il patrimonio ogni 11 mesi). Un trading sul quale le “nuove” banche guadagnano commissioni massimizzando i loro profitti. Investitori istituzionali ai quali l’Ufficio Studi di Mediobanca dedica da anni un’indagine che ne ha sempre messo in evidenza la bassa efficienza e le ormai fisiologiche distruzioni di ricchezza (vedi su http://www.mbres.it/it/publications/dati-di-fondi-e-sicav-italiani).

La “nuova banca” si colloca sempre al centro della finanza, ma con un enorme conflitto d’interessi: essa massimizza il proprio valore a beneficio non di tutti gli stakeholders, ma dei soli azionisti ai quali, come edere, si avvinghiano i manager giustificando le stock options che si riservano. Questi ultimi sono, per dirla con Enrico Cuccia, i veri “compari del pupo”. Beninteso, con il pieno supporto del “mercato”. Un mercato del quale non viene mai specificata la natura, comunque oligopolistica e propensa agli abusi: si vedano le manipolazioni dei tassi di cambio e del Libor ad opera di Citi, Deutsche Bank e HSBC ree confesse, appena multate per 132 milioni di dollari (Il Sole24Ore 14/10/2017). Il pretesto della massimizzazione del valore consente ai manager di ritagliarsi compensi stellari. Ma la loro è vera virtù? E con quale efficacia temporale?

All’inizio del libro Onado ci spiega che le banche non si possono abolire perché soddisfano una pubblica utilità: raccolgono la finanza che si forma nella comunità e la ricollocano nelle imprese e famiglie che contribuiscono a quella stessa comunità. Ma se questo passaggio si interrompe allora la banca si mette a giocare con i risparmi che raccoglie, apparentemente per tutt’altri scopi. Perché mai – vien da chiedersi – dovremmo concedergli la stessa licenza di una volta? Meglio: perché mai dovremmo concedergli una licenza tout-court? Tanto più dopo la lunga serie di errori, scandali, malversazioni e via proseguendo?

Marco Onado ci porta a braccetto nei gironi di un inferno dantesco di deviazioni dalla retta via mostrandoci i peccatori (quasi mai …dannati), anche con nome e cognome. Questo fa del libro un prezioso riferimento non solo per gli studenti della Bocconi (allievi dell’Autore), ma per chiunque si occupi di finanza. Ma ne fa anche un motivo di forte indignazione verso le autorità che non hanno sinora voluto rimettere a posto questo vero e proprio “sistema deviato”.

Un sistema la cui “deviazione” si deve in buona misura al culto della grande dimensione misto all’ingenua accettazione delle virtù dei mercati perfetti: che non sono mai esistiti, ma che magicamente ci sono stati serviti dalla finanza internazionale; quella – io sostengo – delle banche d’investimento anglosassoni chiamate a gran voce dal nostro governo negli anni ’90 (…lo spirito di Maastricht); quelle che hanno causato l’ultima grande crisi. E’ dimostrato che nel settore bancario si hanno guadagni di efficienza solo passando dalla piccola dimensione a quella media, mentre si soffrono grandi diseconomie di scala quando si sale oltre.

All’indomani della crisi (marzo 2009) la Banca dei Regolamenti Internazionali così scrisse a pag. 134 del suo rapporto annuale:

“Le banche devono riprendere l’attività creditizia, ma devono altresì operare un aggiustamento divenendo più piccole, più semplici e più sicure”  … “agevolando la vendita di banche dissestate ad altri istituti … l’azione del governo crea società finanziarie così grandi e complesse che persino i loro amministratori possono non avere una chiara cognizione dell’esposizione di rischio”. Nulla è seguìto a questo monito. A me pare che invece sia stato costruito un diversivo; i fari sono stati accesi sul patrimonio, elemento di cui (in teoria) una banca guidata da persone attente e competenti potrebbe fare benissimo a meno. In questo modo, si è evitato di guardare la parte sinistra dello stato patrimoniale, quella degli impieghi dove mi permetto di integrare la lezione di Onado con qualche altro dato.

Qui, da tempo fa scuola la Germania dove il primo della classe (la Deutsche Bank) a fronte di 399 miliardi di euro di prestiti segna titoli speculativi per 674 miliardi: 43% del totale attivo e 11 volte il patrimonio netto al giugno scorso. Nei 674 miliardi sono compresi 396 miliardi di derivati. Una situazione troppo rischiosa? Personalmente dico di sì, ma le autorità dicono di no perché, …provvidenzialmente (per la DB), hanno accettato modelli interni in base ai quali ogni banca calcola il suo specifico bisogno di patrimonio. Il libro di Onado è esemplare nel chiarire come sono state inventate (e accettate) sofisticate elaborazioni statistiche le quali abbattono i fabbisogni di patrimonio a fronte degli attivi speculativi, quelli che costituiscono il grande punctum dolens di Deutsche Bank et similia. Nessuno ha obiettato che occorreva invece preservare la propensione a soddisfare la domanda di credito delle imprese, argomento di grande interesse per le banche italiane. Nessuno ha obiettato, oppure è stato in grado di capire per tempo quella che io giudico una vera scappatoia. Così i “duri e puri” tedeschi hanno potuto lanciare liberamente i loro strali contro i crediti scritti nei bilanci delle banche del Sud-Europa che si deterioravano a causa della crisi, lasciando perdere la montagna dei derivati che ingolfava (e ingolfa) i conti dei “nordici”. Basti pensare che i derivati in pancia alla sola maggiore banca tedesca hanno un valore di bilancio doppio dei crediti deteriorati di tutte le banche italiane, misurati correttamente dalle utilissime rilevazioni dell’Area Studi di Mediobanca. E v’è ancora da specificare che i crediti deteriorati italiani sono coperti da garanzie totali per il 74%. Ma la pubblica opinione si è vista bombardare da valori impropri, non depurati delle svalutazioni già contabilizzate e tanto meno delle garanzie: 360 miliardi di deteriorati lordi (dato 2015) si riducono a 198 miliardi al netto dei fondi rettificativi e a 52 miliardi al netto delle garanzie totali (e ancora meno scontando le garanzie parziali).

La complessità è un argomento ricordato anche da Onado. Il quale sembra tentato da un ritorno al passato, al passato delle banche specializzate e quindi più piccine e più gestibili; come tali meglio vigilabili. L’Autore non lo dice, ma abbiamo subìto il grande calo di efficienza della nostra banca centrale, la quale (è un fatto) non ha saputo vigilare a dovere né sulle grandi banche, né sulle piccole; arrivando persino a togliere di mezzo gli istituti più adatti a finanziare la nostra industria, che non è un’industria di grandi multinazionali che si approvvigionano collocando titoli sui mercati finanziari; ma un’industria basata sulle medie imprese del Quarto capitalismo e sulle piccole aziende che ne compongono le reti e le filiere.

Rispondere al quesito della copertina (ritrovare la banca perduta) è assai arduo. Onado ci presenta alcune riflessioni nient’affatto rassicuranti. Dalla sua analisi emergono due grandi problematiche:

Una problematica strutturale: come riordinare quella che chiama la nuova intermediazione e come curarne le tare (cioè i difetti di nascita). Una problematica contingente: come risolvere i problemi specifici delle “nostre” banche.
La prima problematica richiede azioni a livello quanto meno europeo. Onado cita l’approccio di Volcker: “mettere insieme l’attività bancaria che serve l’attività produttiva (utility banking) e quella puramente speculativa (casino banking) riduce la stabilità e l’efficienza di un sistema finanziario e dunque bisogna avere il coraggio di un taglio gordiano”. Personalmente condivido. Perché mai teniamo queste “non-banche”? Non certo perché esse giochino, grazie all’uso dei nostri risparmi, con i titoli strutturati che diffondono nella più totale opacità.

L’ultimo grido sulle cartolarizzazioni sembra ora essere l’invenzione dei PIR: ma perché non immaginiamo che una piccola impresa debba essere finanziata “in normalità” da un direttore di banca che guarda negli occhi, studia a fondo e segue il suo cliente, spesso un imprenditore molto volonteroso e pieno di creatività? Ricerche recenti hanno trovato che i crediti deteriorati originano principalmente non da cattiva congiuntura, ma da scarse capacità di valutare il merito di credito del cliente; per questo le tanto vituperate “banche di relazione” conseguono risultati migliori. A me pare che le banche debbano esistere per sostenere l’attività produttiva e quindi le produzioni dei beni che consumiamo e le innovazioni che fanno aumentare il nostro benessere.  Se questo argomento viene tolto dai tavoli della UE (soggetti come visto a lobby fortissime) e viene posto in un programma politico credo che raccoglierebbe fin troppi consensi in tutta l’Europa.

La seconda problematica è invece italiana (pur se non solo). Le nostre banche hanno carenza di capitale proprio, un eccesso strutturale di capacità produttiva, un eccesso di crediti deteriorati. Si tratta di carenze che emergeranno sempre più fortemente con gli inevitabili processi di ammodernamento tecnologico che restringeranno i mercati captive delle banche. Sono problemi ormai stabilmente in agenda, ma la loro soluzione richiederà una forte azione politica di condivisione tra le forze sociali. Speriamo che il governo che verrà dalle prossime elezioni abbia la competenza e la forza necessaria per sostenere questa nuova sfida.

Dunque, la banca non deve tornare alle origini, ma deve ritrovare i suoi veri fini, quelli in forza dei quali esiste. E deve operare in un sistema economico nel quale vengano eliminati i conflitti d’interesse: quei conflitti che mettono il bavaglio ai revisori contabili (che vengono pagati dalle stesse imprese di cui certificano i bilanci), quei conflitti che spingono le società di rating ad assegnare voti benevoli agli emittenti (spesso clienti delle stesse banche) che commissionano a pagamento i loro stessi esami, quei conflitti che coinvolgono gli analisti trasformati in veri e propri futurologi a sostegno del valore (presunto da stime assai fragili) dei titoli collocati.

In tutto questo, a mio parere, dobbiamo stare attenti a valutare la nostra specifica situazione curando l’ “interesse nazionale”. Onado attribuisce molte colpe agli incentivi a fare debito. Bene, l’Italia è il paese nel quale il debito delle famiglie è il più basso (solo il 21% delle nostre famiglie ha debiti contro il 47% delle francesi e il 45% delle tedesche – ultimi dati Bce); è anche il paese con un elevato debito pubblico (133% del PIL nel 2016) che però è detenuto da italiani per il 67% di cui  9/10 da istituzioni finanziarie (quindi no alle limitazioni ai titoli sovrani nei portafogli delle banche); la quota dei residenti è invece del 52% per la Germania e del 48% per la Francia). Il nostro debito lordo è 2.260 miliardi di euro, ma non dimentichiamo che Francia e Germania ci seguono a ruota con, rispettivamente, 2.210 e 2.114 miliardi. Il debito si misura in rapporto al PIL, ma i valori assoluti non vanno dimenticati perché servono a valutarne la possibilità di assorbimento dei mercati finanziari. E, a proposito delle solite, generiche, riforme strutturali che ci vengono chieste, dobbiamo sempre ricordare che all’agosto scorso avevamo 2,9 milioni di disoccupati “ufficiali” pari all’11,2% della forza lavoro. In questo mondo di “non-banche” nel quale la panna montata dalla finanza speculativa sovrasta le correnti dell’intraprendenza di keynesiana memoria, 15 milioni di disoccupati nell’intera eurozona all’agosto scorso non paiono turbare il sonno dei fonctionnaires di Bruxelles.

E adesso povero risparmiatore? Si chiede Onado a pag. 251. Personalmente, sono seriamente preoccupato.

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