Sotto i cieli della algo-finanza, un titolo azionario resta in mano ad un trader in media 22 secondi. Una pioggia di migliaia di micro-operazioni orchestate da 15 banche d’affari controlla il 70 per cento del volume di scambi della Borsa Usa. Il prezzo di un credit default swaps è il risultato di scambi privati, in busta chiusa, tra cinque intermediari che avvengono in piena opacità. Senza alcuna rispondenza con i valori economici o con il rating di un Paese, come dimostra il fatto che a pagella eguale possono corrispondere valori di cds anche doppi (come è avvenuto ad inizio estate tra Italia e Polonia). Il risultato? “La pressione sul debito sovrano – spiega Emilio Girino, docente del Cuoa di Vicenza – è il frutto dell’azione di speculatori pieni di cds ma che non hanno in tasca un solo Btp”.
Per non parlare delle agenzie di rating, libere di operare in una zona franca del diritto secondo modelli approssimativi, se non arbitrari. Il tutto in una cornice da grande casinò, sostanzialmente esente da controlli nonostante il proliferare di regolatori e di regole pletoriche (la legge americana Dodd-Franck consta di 2.100 pagine). In numeri, il dominio della finanza sull’economia reale si sintetizza così: 836mila miliardi di dollari contro 58mila miliardi di Pil. Ma le azioni o altri strumenti “tipici” sono ormai un’infima minoranza di quel che compare sugli scaffali dei supermercati della finanza: nel 2009 l’83% del mercato era composto da derivati, di cui l’87% erano strumenti “over the counter” sostanzialmente lontani da ogni controllo di sorta.
Questo è molto altro è emerso dal convegno “Finanza: la serva padrona?” organizzato dall’Aiaf, l’associazione italiana degli analisti finanziari. Atto d’accusa a 360 gradi sui vari aspetti della deriva dei mercati finanziari negli anni della crisi. Anzi da ben prima perché il “genio della finanza che è uscito dalla bottiglia”, immagine di Francesco Cesarini, è alla radice della crisi. “Un tempo – commenta Salvatore Bragantini – si sosteneva che il salario era una variabile indipendente dall’economia. Ora si pretende che la cosa valga per il profitto del capitale. Non ha funzionato, non funzionerà!”. Ma a pagare il prezzo, per ora, è l’economia reale, soprattutto quella di un Paese come l’Italia, potenza manifatturiera dove la Borsa, che in termini di capitalizzazione vale un quinto del Pil, non svolge più la funzione di canale di raccolta di capitale per le imprese, soprattutto per le pmi: oltre il 90 % degli scambi è concentrato sul paniere principale, l’Ftse/Mib, alle altre 170-180 spettano solo le briciole.
Non è certo la prima volta che la turbo-finanza finisce sul banco degli imputati. Ma è probabilmente la prima volta che in Italia un’assemblea di osservatori indipendenti di alto livello (Cesarini, Giacomo Vaciago, Bragantini, Donato Masciandaro, Michele Calzolari oltre ad Emilio Girino, Antonio Maria Rinaldi, Malcolm Duncam, Mario Bottazzi ed Alfonso Scarano) prende in esame i singoli aspetti di un processo degenerativo che ha ormai colpito portafogli e l’immaginario collettivo, come dimostra l’attenzione di massa per lo “spread” o altri simboli del disagio popolare.
GLI HIGH FREQUENCY TRADING
PADRONI POTENTI E SCONOSCIUTI
Prendiamo il caso degli HFT (High Frequency Trading) che, sei anni dopo la loro comparsa, possono essere considerati i “padroni sconosciuti” dei mercati finanziari.
Ecco come li descrive Giovanni Bottazzi, già colonna dell’ufficio statistica della vecchia Borsa italiana: “L’HFT è un operatore ipertecnologico, capace di sfruttare per sè il ritardo tecnico degli ordini immessi nel listino”. Ritardo per modo di dire, visto che il tempo di cui si parla si misura in nani secondi. “La mia proposta di limitare ad almeno un secondo la permanenza di un ordine – spiega Bragantini – non è stata nemmeno presa in considerazione. Eppure una Borsa che si consegna a questa logica tende inevitabilmente a concentrarsi su pochi titoli liquidi, i maggiori per capitalizzazione, con conseguenze rilevanti per la qualità del listino”.
Ma a che serve tanta rapidità? “Il principio – continua Bottazzi – è che in questo nano secondo l’HFT deve riuscire ad ispezionare il book un istante prima rispetto agli altri e prendere le decisioni conseguenti”. All’apparenza una tecnica innocua, affidata alla decisione “cieca” di programmi automatici. “Non è così – è l’obiezione – la giustificazione etica del guadagno di Borsa sta nel rischio assunto dall’investitore”. Ma in questo caso il rischio non c’è perchè l’operazione si apre e si chiude, in media, in 22 secondi.
Ma come fa i soldi l’HFT? “La tecnica più frequente è quella del market making. L’operatore si pone come venditore o come compratore per una quantità minima, in modo da assicurarsi l’esistenza di una controparte. Una volta che la proposta di acquisto o vendita va a buon fine (e ci sono mercati privati che remunerano le proposte per stimolare la liquidità) l’operazione viene ripetuta enne volte. E, naturalmente, sarà incrociata in vendita o in acquisto per un numero rilevante di volte di modo che il guadagno unitario minimo verrà moltiplicato fino ad avere una certa dimensione”.
Altre tecniche più complicate permettono all’HFT di “ripulire” il mercato e di posizionarsi per vendere, a condizioni per loro migliori, partite di titoli a compratori importanti, come un fondo di investimento il cui gestore, magari, non è estraneo al gioco. Naturalmente un gioco spietato dove gli HFT, non più di 15 i più grandi del mercato, cercano di annullarsi a vicenda con tecniche di acciecamento (o snuffing) inondando i book di proposte per rallentare l’azione del concorrenti.
Il fenomeno è cresciuto in maniera esponenziale dal 2007, grazie alla proliferazione delle piattaforme operative (oggi circa 150) in Europa. Il risultato? Pochi operatori di High Frequency Traders, non più del 3% della platea degli attori di Wall Street, controllano oltre il 70% dei volumi trattati dalle Borse Usa. E l’Europa si sta avvicinando agli stessi livelli. “Gli operatori HFT sono simili a grandi predatori, invisibili tra le erbe alte della tecnologia millisecondo – si lascia andare Bottazzi – ma non amano solo le grandi prede, semmai le piccole che messe assieme fanno volume: più formichieri che leopardi”. Ma formichieri dai mezzi illimitati: è in cantiere la posa di un cavo di fibre ottiche sulle due rive dell’Atlantico dedicato esclusivamente a questa attività.