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Alberto Pera: “Riformare l’art. 41 della Costituzione è un colpo di teatro: non si liberalizza così”

L’idea di porre alla base della manovra di stabilizzazione dei conti e rilancio dell’economia la riforma dell’Art. 41 della Costituzione genererà certamente dibattiti accesissimi in Parlamento e fuori: ma servirà a qualcosa? Da un punto di vista del merito, l’iniziativa non sembra cambiare molto. L’attuale articolo 41 prevede che “1. L’iniziativa economica privata è libera. 2. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla libertà, alla sicurezza o alla dignità umana. 3. La legge stabilisce i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica privata e pubblica possa essere indirizzata a fini sociali”.

Il terzo comma, che rappresentò in Assemblea Costituente un compromesso tra le posizioni pianificatrici della sinistra e quelle liberiste, e che pure ha il merito di riservare solo alla legge la possibilità di stabilire programmi e controlli, è quello che può apparire in contrasto con una visione dell’iniziativa economica orientata al mercato: perché non si può pensare che, anche per il più convinto liberista, l’iniziativa economica possa essere esercitata a dispetto dei valori tutelati dal secondo comma.

Sostanzialmente la proposta del Governo, oltre a aggiungere alcune qualificazioni un po’ barocche (come “è libero tutto ciò che non è vietato dalla legge”), consiste nell’abolirlo. Forse è una buona idea: senonché, oltre venti anni fa, un costituzionalista liberale, Giuseppe Bognetti, osservava che il terzo comma era già stato implicitamente abolito con l’ingresso dell’Italia nella Comunità, poi Unione, Europea, e l’affermarsi delle previsioni comunitarie che, come riconosciuto dalla Corte Costituzionale, prevalgono sulle stesse norme costituzionali.

Le quattro libertà, di movimento dei beni, dei servizi, delle persone e dei capitali, previste dai Trattati europei, cone pure la libertà di concorrenza, sono incompatibili con i programmi e i controlli, e di fatto hanno dato luogo all’abrogazione del terzo comma (oltre che all’ingresso nella nostra costituzione economica di concetti che ancora non sono entrati nella testa di molti politici, come la concorrenza e il mercato).

Certo, da un punto di vista di metodo, prenderne atto, pur se inutile, potrebbe avere un significato politico importante: qui c’è un governo che vuole liberalizzare sul serio! E questo significato poteva avere infatti nel 1994, quando per la prima volta Berlusconi andò al governo, sulla base di un programma di rinnovamento liberale. Senonchè, nel frattempo, la maggioranza ha cambiato programma: dal 2001 ha abbandonato il tema delle privatizzazioni e liberalizzazioni, predicando anzi la prevalenza della politica sul mercato, per favorire i campioni nazionali e sottrarli dalla concorrenza, specie estera.

E’ lecito allora il dubbio che la resipiscenza rappresenti piuttosto un “coup de theatre” per evitare di affrontare i problemi. Perché quello di cui il governo deve convincerci oggi non è che è disposto a abrogare formalmente ciò che è già stato abrogato di fatto, ma che è veramente intenzionato a rimuovere i vincoli all’iniziativa economica. In sostanza, piuttosto che pensare a generare dibattiti epocali in Parlamento sui limiti all’iniziativa economica privata, il governo farebbe meglio a mostrare un’effettiva volontà di affrontare i veri vincoli all’iniziativa: da quelli fiscali e del costo del lavoro, a quelli di “governance”, rilanciando privatizzazioni a livello nazionale e locale e intraprendendo misure di stimolo alla concorrenza; infine affrontando seriamente il problema della semplificazione.

Se, secondo l’IFC, il braccio della Banca Mondiale che cerca di sviluppare l’iniziativa privata, l’ambiente istituzionale italiano è molto meno favorevole di quello della Colombia e del Ghana (e poco più favorevole di quello dell’Egitto) all’iniziativa economica privata, e lo è divenuto sempre meno in questi anni (siamo scivolati quest’anno dal settantaseiesimo all’ottantesimo posto nella classifica complessiva) la ragione non può essere nell’art. 41: ma nella congerie di strettoie burocratiche e pluralità di livelli decisionali, tutti probabilmente giustificati da qualche legge, evidentemente sfuggita al rogo di Calderoli (altro gesto teatrale) che rendono l’avvio di un’attività in Italia estremamente difficoltosa. E su cui la riforma dell’art. 41 non avrà alcun effetto.

Il governo, e tutte le forze politiche, dovrebbero riflettere sugli eventi che hanno condotto alla decisione dell’Ikea di abbandonare, dopo anni di attesa, due grandi progetti di investimento: a Pisa e a Torino. Può essere opportuno ricordare che quello di Torino è affondato nonostante regione e Comune lo appoggiassero a ogni costo, perché la Provincia era contraria a cambiare la destinazione dei terreni. “Non è nostro compito trovare imprenditori” ha detto il presidente della Provincia. Forse neanche farli andare via: un altro costo, indiretto, ma non meno grave, dell’inutile ente provinciale.

In conclusione, liberare l’iniziativa privata nel nostro paese è un processo lungo che richiede ferma intenzione politica di porsi contro gli interessi pubblici e privati allo sviluppo dell’iniziativa privata, e nel contempo determinazione nel ridisegnare processi e istituzioni, compresi il numero dei decisori, aggregando su questi temi consenso politico e sociale: che pare ora esserci compatto ma che probabilmente rischia di sfaldarsi appena si dovessero identifichere interventi specifici (abolire le province e chiudere un bel po’ di enti inutili, come l’Aci, l’Enit e l’Unire, privatizzare i servizi pubblici locali tramite gara, mettere all’asta le frequenze televisive, abolire o ridurre riserve e numeri chiusi nelle professioni, solo per fare qualche esempio). Un dibattito epocale sui limiti all’iniziativa economica privata rischia di avere effetti concreti assai limitati e non sembra proprio lo strumento appropriato per facilitare il percorso di riforma.

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