Un club di figli di papà? Troppo facile, troppo sbagliato. Fin da quando nascono, a cavallo tra gli anni 50 e 60, i Giovani Imprenditori vogliono portare lo “spirito del tempo” nella Confindustria e aprirsi alla società. E’ quanto sostiene Alberto Orioli, vicedirettore ed editorialista de “Il Sole 24 Ore” nel suo recente libro (“Figli di papà a chi?”, 377 pagine, 25 euro, Il Sole 24 Ore editore) sulla storia del movimento dei Giovani imprenditori aderenti a Confindustria.
I giovani industriali, secondo Orioli, sono puntigliosi fino alla pignoleria, ma vedono il domani prima di altri anche a costo di polemiche e scontri. Scommettono sulla partecipazione quando impera il conflitto; sulla globalizzazione anche se in pochi usano il passaporto; sulla legalità come valore civile ed economico mentre imperversano indifferenza e ipocrisia. Sognano la moneta dell’Europa quando la lira vive ancora di svalutazioni e guardano al Mediterraneo come al mare dell’incontro tra civiltà e della Primavera araba non c’è nemmeno l’ombra. Da sempre vogliono che la cultura d’impresa sia cultura davvero, capita e apprezzata. Ma non basta essere un imprenditore giovane per essere un Giovane Imprenditore. La differenza? La scoprirete leggendo le pagine di Alberto Orioli: ci sono 50 anni di storia a dimostrarlo.