Il primo weekend di aprile ha dato il via al massimo campionato di baseball. Ai nastri di partenza otto squadre, che si contenderanno i playoff entro luglio per tentare l’assalto finale in agosto. Ai nastri di partenza Nettuno, Rimini, Bologna, San Marino, Parma, Novara, Grosseto, Godo (Ravenna), rappresentano la crema di un movimento che negli ultimi anni, tra crisi economica e miopia delle società, non ha saputo crescere ai ritmi di altre discipline. Basta dare un’occhiata alla dislocazione geografica delle società di IBL (Italian baseball league, la massima serie), per rendersi conto che il baseball, in Italia, ai massimi livelli è poco più di un campionato regionale.
Durante la contrazione del ciclo economico, a partire dal 2008, il batti e corri italiano ha iniziato a subire dei colpi spesso insostenibili: la stragrande maggioranza delle società vive di sponsor e il calo degli utili aziendali ha ridotto anche la capacità delle imprese di finanziare le società sportive dilettantistiche. Il baseball italiano non è infatti disciplina professionistica, per diversi motivi: il campionato è stagionale (si gioca solo in primavera ed estate), le retribuzioni sono mediamente molto basse (un giocatore della massima serie difficilmente guadagna più di 2000-3000 euro al mese), gli atleti raramente scommettono la loro carriera su un’attività che paga uno stipendio per nemmeno metà dell’anno.
Gli unici che fanno del baseball il loro mezzo di sopravvivenza sono gli stranieri che vengono importati dalle società e pagati con i “capitali” messi a disposizione dagli sponsor. Ma non sono quasi mai figure di alto livello: spesso sono ex giocatori delle leghe statunitensi o centroamericane (Repubblica Dominicana, Venezuela, Colombia), vecchie promesse che, una volta tentata la via del professionismo a stelle e striscie, hanno continuato a fare del baseball il loro mestiere, nella vana ricerca di una seconda opportunità di sfondare ai massimi livelli o, molto più spesso, perchè non avevano altri mezzi di sopravvivenza. Passano gli anni migliori della loro vita in giro per il mondo, girovagando a seconda delle stagioni (quando in Europa è inverno giocano in campionati nell’altro emisfero e viceversa), non hanno contributi pensionistici o assicurazioni sul lavoro. La realtà umana del baseball italiano è quindi molto variegata: si va dal giovane americano che viene nel Belpaese per una lunga vacanza sportiva al dominicano senza certezze sul proprio futuro, con una famiglia e diversi figli da mantenere in terra natìa.
C’è poi la vecchia gloria delle Major League (sempre più rara da vedersi sui diamanti nostrani), che spende i suoi ultimi lanci o giri di mazza tra un piatto di lasagne e un allenamento pigro e distratto. Ci sono, poi, gli oriundi: i giocatori che di italiano hanno solo il passaporto. La nazionale ne è imbottita, mentre nei club le cose vanno diversamente: in base ai regolamenti federali in ogni squadra devono giocare un certo numero di “atleti di scuola italiana”, per far sì che il movimento riprenda a produrre talenti.
Il motivo del declino, nel baseball italiano degli ultimi trent’anni, è proprio questo: troppo spesso le società hanno investito le loro disponibilità in giocatori oriundi, americani o centroamericani dal passaporto italiano, per innalzare il livello tecnico della squadra nel breve termine a discapito dei giovani cresciuti localmente, relegati quindi alle serie minori senza possibilità di crescita. E’ curioso come, ad andare e venire, nel baseball italiano, siano sempre stati i giocatori, mentre presidenti ed allenatori delle società abbiano avuto sempre pochissima pressione dal lato della concorrenza straniera. Oggi si direbbe che c’è pochissima flessibilità in uscita, per quanto riguarda i piani alti dei club del baseball italiano.
Poco investimento sui talenti nostrani ha portato alla situazione attuale: un campionato di massima serie in cui gli stadi si riempiono solo durante le finali. Mediamente gli spalti ospitano cento-duecento persone in ogni trittico (si giocano tre partite distribuite nel weekend). Nonostante tutto, qualche novità positiva c’è: la Federbaseball ha aperto un’Accademia a Tirrenia (località marittima vicino Livorno), dove raccogliere i migliori talenti e dar loro l’opportunità di crescere ed allenarsi come fanno nei migliori college americani. Grazie a questa struttura alcuni atleti hanno avuto la possibilità di misurarsi ai massimi livelli. Solo uno di loro, Alex Liddi, ha avuto successo ed è ora regolarmente arruolato nella rosa dei Seattle Mariners.
Ma si tratta di un caso isolato. Il baseball italiano ha raggiunto il suo picco tra gli anni ’60 e gli anni ’80, con personaggi come Giulio Glorioso o “Toro” Rinaldi, ma ha poi imboccato una lunga strada di declino fatta di soldi spesi facilmente e poca strategia di sviluppo: investire in buoni allenatori per i vivai avrebbe comportato costi minori nell’immediato e più talenti nostrani nel lungo periodo, garantendo una crescita costante e a basso costo del movimento, oltre che maggiore radicamento nel tessuto sociale e, quindi, più spettatori. Un tentativo è stato fatto, negli ultimi anni, per risollevare le sorti del baseball italiano: quello di coinvolgere le leghe pro americane in una sorta di “piano Marshall” per il batti e corri dello stivale, ma è stato un tentativo pianificato dall’alto, di quelli che raramente riescono in assenza di una presa di coscienza collettiva da parte del movimento.
Si parlò di costruire un nuovo stadio a Roma dove ospitare le grandi del baseball americano, di sinergie con i grandi d’oltreoceano. A parte qualche sporadico risultato con la nazionale (in competizioni internazionali in cui non competono i migliori ma solo atleti di secondo livello), le buone intenzioni sono rimaste sulla carta. La recessione ha poi fatto il resto. Per la cronaca, la classifica vede San Marino e Bologna in testa, a seguire Rimini, Godo, Pama in zona playoff, mentre Nettuno, Grosseto e Novara chiudono la classifica con cinque e sei gare di distanza, rispettivamente, dalla capolista.