Petroliferi: si riparte dall’Iran
Il settore petrolifero è senza dubbio quello che presenta maggiori complessità di lettura essendo influenzato da molteplici variabili macro e geopolitiche scarsamente prevedibili. Una di queste è stata la negoziazione durata 21 mesi con il governo iraniano riguardo alle ambizioni del paese nel campo nucleare, ambizioni che hanno portato ad un embargo da parte dei paesi occidentali a partire dal 2012. L’Iran è quarto tra paesi con le maggiori riserve di petrolio, ca. 158 miliardi di barili (YE2014, BP Statistical Review). Il greggio leggero e pesante iraniano sono le due specialità di esportazione principali. Il greggio iraniano è simile a quello di altri paesi del Golfo come l’Arabia Saudita, il Kuwait o l’Iraq. L’Iran ha esportato principalmente greggio leggero verso l’Europa fino all’embargo del 2012, essendo le tipologie più pesanti dirottate sull’Asia. Un ritorno di barili iraniani in Europa potrebbe sostituire forniture dall’Arabia Saudita e dalla Nigeria, ma sarebbe anche in competizione con gli Urali. Analizziamo nell’editoriale di questa settimana le conseguenze di questo accordo storico che consentirà nei dovuti tempi il ritorno del petrolio iraniano al mercato mondiale.
Focus della settimana
Possibili conseguenze del ritorno del petrolio iraniano
I prezzi del petrolio sono risaliti del 40% circa, dopo aver toccato un minimo di USD 46 al barile sul Brent e di USD 43 per quanto riguarda il WTI. Dopo una discesa che aveva raggiunto i 70USD al barile da giugno 2014 a gennaio 2015, determinata dall‘eccesso di offerta di 1.0 Mb/d nel 2014 e di 2.0 Mb/d nel Q1 2015 da shale statunitense, i prezzi Brent sono in risalita e sembrano aver trovato supporto tecnico in prossimità ai USD 60 al barile. Se potessimo tornare indietro nel tempo a gennaio troveremmo infatti un sentiment di mercato molto diverso. In quel momento non vi era nessuna indicazione chiara riguardo a dove individuare il livello di prezzo minimo per il petrolio, con stime anche di USD 20 al barile sul breve termine. Tuttavia una combinazione di domanda rafforzata (supportata anche dallo sviluppo della riserva strategica di petrolio da parte della Cina), con un calo nel numero di trivelle nei giacimenti di shale statunitensi, shock dell’offerta (Libia) e il basso prezzo del petrolio in sé (a livelli mai visti dalla prima metà del 2009) hanno iniziato a ripristinare l’umore del mercato e hanno aperto le porte ad un recupero dei prezzi. Denaro speculativo si è riversato sui contratti immediati e sugli ETF scommettendo su prezzi al rialzo. Quindi ci ritroviamo con un mercato fisico ancora con offerta in eccesso, ma che incorpora delle prospettive più favorevoli per il 2015 e oltre. Non vi è dubbio che i guadagni in termini di efficienza dei produttori statunitensi non convenzionali e gli sforzi di estrazione concentrati sui principali giacimenti abbiano contribuito ad abbattere i costi di produzione. Questo insieme a un fracklog in crescita in Texas e nel Nord Dakota sono state forse le ragioni principali per cui i prezzi del petrolio sembrano limitati al rialzo per il breve termine. Con i prezzi in crescita i produttori di shale statunitensi inizierebbero a completare i pozzi aggiungendo volumi al surplus di offerta già presente, accelerando il ribasso nei prezzi.
Alla fine è arrivato anche l’Iran! Dopo più di dieci anni di tentativi diplomatici per gestire il programma nucleare iraniano, la Repubblica Islamica e le controparti del P5+1 (Stati Uniti, Russia, Cina, Francia, Regno Unito e Germania) hanno finalmente raggiunto un accordo a Vienna che consente la rimozione delle sanzioni occidentali. Per quanto riguarda i prezzi del petrolio, la notizia è negativa in quanto comporta più barili in arrivo in un mercato già in surplus di offerta. Tuttavia, la sospensione delle sanzioni dovrebbe essere implementata non prima della prima metà del 2016, il che cancella alcune delle paure riguardo ad una depressione dei prezzi causata da un’inondazione del mercato di petrolio iraniano tenuto in deposito. Come abbiamo detto, all’Iran manca la capacità di aumentare significativamente la produzione e le esportazioni a causa di anni di scarsi investimenti sulle infrastrutture di produzione. Vi è tuttavia la questione dei 30-40 milioni di barili che si ritiene siano tenuti in deposito (la maggior parte in delle cisterne) che potrebbe arrivare sul mercato. Nonostante ciò, non annegare il mercato con questi barili al fine di non abbassare oltre i prezzi è anche nell’interesse dell’Iran, fatto che ci induce a credere che il rilascio del greggio in deposito possa essere graduale (sono riserve vendibili solo dopo la fine delle sanzioni). Vi è un effetto collaterale che è già visibile in relazione alla risposta delle altre nazioni del Golfo rispetto al ritorno dell’Iran sul mercato. È difficile credere che i sauditi possano lasciare spazio in termini di quote OPEC per adattarsi alla produzione iraniana, il che rende lo scenario che prevede un aumento della produzione OPEC nel 2016 il più probabile, alle spese dei produttori non OPEC, quindi le shale statunitensi.
Il conteggio delle trivelle operative nei tre grandi bacini shale negli Stati Uniti (Permian, Eagle Ford e Williston) si è ridotto visibilmente negli ultimi mesi, ma potrebbe aver già toccato il fondo. Questo risulta più evidente nei giacimenti di Permian, ma con i prezzi WTI sulla cinquantina per barile sembra che i posizionamenti shale principali statunitensi generino abbastanza redditività per mantenere il numero di trivelle e persino supportarne un aumento. Forse è altrettanto importante dare un occhio ai prezzi Weekly Equity 17 luglio 2015 Banca 3 Akros forward per vedere a che livelli i produttori di shale possano vendere a termine la propria produzione al fine di valutare il livello di redditività e quindi l’evoluzione nel numero di trivelle e nella produzione futura. Come già menzionato, la deflazione nei costi è stata la prima linea di difesa per i produttori di shale, ma i volumi crescenti in arrivo dall’OPEC e una solida produzione russa potrebbero impattare l’output di shale e ritardare la ripresa dei prezzi più di quanto precedentemente previsto. Stando a recenti sondaggi, il mercato ritiene che un incremento di 750mila barili al giorno possa giungere dall’Iran entro metà 2016.
Crediamo che i prezzi del greggio possano subire una pressione nel breve-medio termine a causa del patto iraniano anche se l’annuncio di una soluzione definitiva della crisi greca possa fungere da supporto alle quotazioni. Nonostante le nostre ipotesi di un lento ritorno a prezzi più alti, data l’eccedenza dei volumi iraniani dal 2016-17 in poi, manteniamo le nostre stima di un Brent a USD 60 al barile per il 2015, USD 70 per il 2017 e USD 80 per il 2018+. Come citato sopra, l’impatto della produzione e delle esportazioni addizionali dall’Iran risulterà visibile solo dal 2016 (e forse solo in maniera significativa nella seconda metà dell’anno), consentendo al mercato di ribilanciarsi e di assorbire una pressione al ribasso sui prezzi (attraverso la crescita nella domanda, offerta non-OPEC ridotta e l’aumento nella capacità di raffinamento dell’Arabia Saudita).
Scenario macroeconomico
Dopo la caduta sotto zero nei mesi invernali, che ha innescato il QE Bce sui titoli governativi, l’inflazione nell’area Euro sta risalendo, in modo graduale ma continuo. Il rischio deflazione non è scomparso dal mondo, anzi si sta rafforzando nel continente asiatico (ex-Giappone). Però in gran parte del G7 il processo di bottoming è evidente e dovrebbe proseguire. Un primo ed importante fattore è stato la stabilizzazione dei prezzi di energia e materie prime, ma negli ultimi mesi anche l’inflazione core ha iniziato a risalire, ed in questo caso la causa è soprattutto il miglioramento della congiuntura. Nell’Eurozona l’inflazione era scesa in modo graduale dall’1.6% del luglio 2013 (ultima lettura sopra l’1.5%) allo 0.3% nel novembre 2014, da lì accelerando drasticamente la discesa fino a un minimo a -0.6% A/A a gennaio (identico al precedente minimo ciclico del luglio 2009) da cui è gradualmente risalita per tornare allo 0.3% a maggio (0.2% A/A il preliminare di giugno).
L’inflazione core si è comportata in modo abbastanza diverso: dopo essere rimasta in range tra lo 0.7 e l’1.0% da settembre 2013 sino a fine 2014 è scesa ad un minimo storico allo 0.6% A/A (toccato a gennaio, marzo ed aprile) ma nell’ultima lettura è risalita allo 0.9% a maggio (0.8% la stima flash di giugno), rientrando nel range degli ultimi 2 anni. Negli Usa l’inflazione è più sensibile ai prezzi del petrolio, ed è scesa dal 2.1% (luglio 2014) sino a – 0.2% (aprile 2015), tornando a 0.0% a maggio. L’inflazione core, però, è in range fra 1.6% e 2.0% da quasi 3 anni e l’ultima lettura è all’1.7%. Nell’area Euro la situazione è abbastanza omogenea: in Spagna l’inflazione è appena tornata a zero (0.0% a giugno, era -1.5% a gennaio), in Italia è da due mesi (maggio e giugno) allo 0.2% A/A (minimo – 0.4%), in Francia a maggio era allo 0.3%. In Germania il Cpi armonizzato è salito da -0.5% (gennaio) fino allo 0.7% A/A (maggio), ma a giugno è ridisceso allo 0.1% (il dato di maggio è un chiaro outlier rispetto sia agli altri dati tedeschi che al resto di Europa). Per quanto riguarda l’inflazione core, in Italia è allo 0.8% (preliminare di giugno), la Francia è allo 0.6% (maggio) e la Spagna allo 0.5% (maggio). In Germania a maggio era balzata all’1.4% ma è probabile che a giugno sia scesa in misura simile al calo (6 decimi) del dato headline preliminare, assestandosi su livelli vicini a quelli italiani. Se a febbraio l’inflazione core italiana era scesa al di sotto di quella francese e tedesca per la prima volta nella storia, ora sembra che i dati si stiano di nuovo allineando.
In ottica prospettica, anche se il tasso di inflazione grezzo (headline) resta molto basso l’outlook sta diventando sempre meno negativo. La spinta deflattiva di fine 2014 era stata in larga parte acuita dal crollo dei prezzi energetici, che dopo un primo rimbalzo tecnico negli ultimi tre mesi si sono stabilizzati. A seguito del forte calo della disoccupazione la crescita dei salari si sta vivacizzando sia negli Usa che nel Regno Unito e in Germania. Negli Usa l’employment cost index (trimestrale) era rimasto tra l’1.5% ed il 2.0% per tutto il 2013 e la prima metà del 2014, ma negli ultimi trimestri è accelerato fino a toccare il 2.5% A/A nel 1T 2015. Il tutto mentre il tasso di disoccupazione statunitense si sta avvicinando al livello del 5.0%, tradizionalmente coerente con l’inizio di tensioni sull’inflazione salariale. Probabilmente siamo ancora lontani dal ritorno ad una normale curva di Phillips (relazione diretta tra disoccupazione e crescita salariale), a causa della presenza di un ampio output gap (molte misure del mercato del lavoro sono ben lontane dal pieno utilizzo delle risorse), ma il rischio deflazione è molto lontano.
Nell’area Euro la situazione cambia a seconda di dove si guarda: in molti paesi (fra cui Spagna e Italia) il tasso di disoccupazione è a ridosso dei massimi pluriennali ed i salari mostrano una crescita ancora bassa, per quanto superiore a quella dell’inflazione (nel primo trimestre 2015 Italia +1.1% A/A, Spagna +1.2% A/A e Francia +1.6% A/A). Ma in Germania il tasso di disoccupazione è sui minimi storici e le trattative salariali mostrano un chiaro risveglio delle richieste: la crescita dei salari è stata attorno al 2.0% tra il secondo ed il quarto trimestre 2014, balzando al 3.2% A/A nell’ultimo dato disponibile (1T 2015). Così, nell’Eurozona l’indice trimestrale sulla crescita dei salari nel 1T è tornato sopra il 2.0% (a +2.2% A/A) per la prima volta dal terzo trimestre 2012 (dopo aver toccato un minimo allo 0.7% nel primo trimestre 2014).
A livello di outlook sull’inflazione, nell’area Euro iniziamo anche a vedere gli effetti del QE, da molto tempo adottato in Usa, Uk e Giappone. L’impatto sul cambio è stato evidente (anche se difficile da misurare), quello sulla crescita più complesso. L’indebolimento dell’Euro agisce sull’inflazione sia attraverso un canale diretto (rendendo più cari i prodotti importanti) che in modo indiretto, favorendo la crescita. Ma il QE va oltre, e non può essere un caso che da inizio anno gli aggregati monetari sono in forte accelerazione, che si sta riflettendo in una maggiore crescita dei prestiti a famiglie ed imprese. Weekly Equity 17 luglio 2015 Banca 11 Akros Il credit crunch nell’area Euro sembra alle spalle (anche qui però la situazione è molto diversa tra Nord e Sud): la crescita di M3 è passata dall’1.1% A/A del maggio 2014 al 5.0% del maggio 2015; i prestiti alle famiglie nello stesso periodo sono passati da +0.5% a +1.4% mentre la crescita dei prestiti alle aziende (non finanziarie) a maggio è tornata positiva per la prima volta dall’inizio della crisi (da -2.6% A/A nel maggio 2014 a +0.1% nel maggio 2015). Sia la Fed che la Bce si aspettano che l’inflazione possa continuare a risalire gradualmente verso i target, pur restando al di sotto degli obiettivi nel futuro prevedibile. La Bce si aspetta la crescita dei prezzi allo 0.3% per il 2015, seguita da 1.5% nel 2016 e 1.8% nel 2017. La Fed si attende un’inflazione core all’1.3-1.4% nel 2015, in accelerazione a 1.6-1.9% nel 2016 e 1.9-2.0% nel 2016. Sulla base di queste attese, la Fed dovrebbe iniziare ad alzare i tassi nell’anno in corso e normalizzare molto gradualmente la politica monetaria nei prossimi anni, mentre la Bce continuerà il QE almeno fino a settembre 2016 e potrebbe iniziare ad aumentare i tassi nel 2017 (se tutto andrà bene).
Allegati: equity we 17lug2015.pdf