L’Europa punta un chip sulla crescita. Mercoledì 17 novembre la Commissione presenta la sua proposta per alleggerire i vincoli sugli aiuti di Stato per i semiconduttori, la materia prima essenziale per l’industria che, data l’attuale penuria, sta mettendo in ginocchio l’industria dell’auto (e non solo). L’allarme creato dall’emergenza chips è così forte che le lobbies degli imprenditori italiani, tedeschi e francesi, a convegno a Parigi la scorsa settimana, sono riuscite a piegare le resistenze di Margrethe Vestager, commissaria europea alla Concorrenza, la radicale danese che guida senza compromessi la sua battaglia a difesa dei consumatori contro le concentrazioni.
Stavolta, a malincuore, la commissaria ha dovuto cedere sugli aiuti di Stato, consentendo più margini di finanziamento da parte dei governi a sostegno delle aziende europee produttrici di microchip. Non solo: saranno autorizzate più alleanze nel settore, anche a scapito della disciplina anti-monopoli e misure per proteggere catena di approvvigionamento dei preziosi semiconduttori. Per ora non se ne sa di più. Ma le lobbies degli industriali (riunite consapevoli che il diavolo sta nei dettagli), sono già all’opera per decifrare i segreti della proposta che deve conciliare, al solito, due esigenze in conflitto: adattare la politica di concorrenza alle nuove sfide ma, allo stesso tempo, garantire che le distorsioni alla concorrenza siano ridotte al minimo, senza discriminazioni tra i vari Paesi.
Ora, però, si tratta di passare dai principi all’azione. Cosa tutt’altro che facile perché, non solo sul fronte dei semiconduttori, l’Europa sta accumulando ritardi consistenti verso i colossi industriali Usa ed asiatici, come dimostra, tra l’altro, l’esplosione in Borsa delle auto elettriche, sia quelle americane (vedi Rivian, dopo Tesla) che cinesi (da Nio a Geely) che sta erodendo l’ultima leadership tecnologica del Vecchio Continente, quella delle quattro ruote. Per invertire la rotta, dopo la proposta di oggi, la comunità di Bruxelles ha già in cantiere un “Chips Act” che sarà svelato a metà del 2022 con un obiettivo molto ambizioso: raddoppiare la quota europea di mercato nei chip entro il 2030, raggiungendo il 20% su scala globale. Una sfida che lascia scettici gli addetti ai lavori, soprattutto a proposito di di sviluppare i chips di nuovissima generazione, oggi in pratica esclusiva dei Big di Taiwan e di Samsung. Ma, peraltro, l’Europa può contare in questo caso la sintonia con gli Stati Uniti, anche loro impegnati a contrastare l’egemonia asiatica.
Nei mesi scorsi i rappresentanti di Intel hanno fatto la spola tra le due rive dell’Atlantico per sondare la disponibilità dei vari Paesi della Comunità, trovando orecchie attente specie in Germania, Spagna e Francia. Ma anche in Italia dove il ministro dello Sviluppo Giancarlo Giorgetti ha lanciato la candidatura di Mirafiori, quale “sede ideale” della nuova fabbrica di semiconduttori. Non è detto, peraltro, che la scelta debba riguardare un solo sito perché potrebbe essere scelta una soluzione mista con più depositi e centri di ricerca. Ma prima, però, sarà necessario rispondere ad una domanda: quali e quanti aiuti di Stato potranno essere concessi alle nuove imprese? Ovvero, quali saranno o nuovi limiti della politica della concorrenza? Non è questione da poco. Si tratta di scegliere tra una politica di largo sostegno all’industria per creare “campioni europei” come chiedono Francia e Germania e la stessa Italia, coinvolta nelle discussioni sulla difesa e ormai a pieno titolo inserita nel ciclo franco-tedesco dell’auto. Ma così facendo, teme un gruppo di sei Paesi (Olanda in testa, Danimarca, Finlandia, Irlanda, Romania e Svezia) che la scorsa settimana hanno scritto una lettera alla commissaria Vestager, si rischia di allentare troppo le maglie degli aiuti di Stato, specie nel digitale, con il risultato di far pagare ai consumatori la creazione di nuovo monopoli. Certo, la crisi dei chips è reale, così come i ritardi dell’Europa nel 5 G o le difficoltà emerse durante la pandemia nell’industria del pharma, ma la medicina non sta nell’autosufficienza che, ammonisce la Verstagen, “è un’illusione” che potrebbe portare a “chip più cari e un impatto negativo su tutti i tipi di mercati” perché il pericolo è di incoraggiare i produttori di semiconduttori a mettere i governi “gli uni contro gli altri” per ottenere quanti più sussidi pubblici possibili. Secondo la vicepresidente della Commissione, al contrario, è meglio diversificare le catene di approvvigionamento facendo sforzi per risolvere vulnerabilità e penurie.
L’esatto opposto di quanto sostenuto dal Commissario al mercato interno, il francese Thierry Breton, in piena sintonia con Giorgetti. Parlando a Dresda, nel cuore della regione della Sassonia che più dipende dalle fabbriche di Bosch e di Infineon, l’ex grand commis dell’industria di Stato francese ha giudicato “naif” e di scarsa lungimiranza la pretesa
di poter mantenere il controllo della catena di approvvigionamento dell’industria basandosi sull’import. L’Europa, ha ripetuto, ha bisogno di regole che le permettano di avere una “piena capacità produttiva” nel settore dei semiconduttori. Tesi sposata dalla presidente Ursula Von der Leyen, tedesca in cerca di sostegno nel dopo Merkel.
Dalla battaglia dei chips, insomma, può emergere la nascita del modello “campione europeo”, gradito all’asse franco-tedesco ma anche al governo italiano che, tra l’altro, vede la soluzione come una garanzia per la politica della Bce post-Pepp. Restano le perplessità dei soci del Nord, ostili agli aiuti di Stato. Fino ad un certo punto perché di fronte alla prospettiva del trasferimento di Shell da Amsterdam alla sola Londra per evitare la tassa sui dividendi, il premier olandese Mark Rutte si è mosso subito per trovare una maggioranza in Parlamento per cancellare la tassa.
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