Crollano i fatturati di tutti i comparti protagonisti del Made in Italy, dalla moda alle automobili fino all’arredamento. Ma l’unico che resiste è l’agroalimentare. Una analisi della Coldiretti sulla base di un’indagine di Mediobanca condotta tra 2.800 imprese manifatturiere familiari stima un calo medio del fatturato dell’11,1% per l’industria italiana.
Al contrario degli altri settori simbolo del Made in Italy, come moda e auto motive, che registrano cali di fatturato superiori al 20%, le imprese del comparto alimentare mettono a segno un aumento dei ricavi diventando la prima ricchezza del Paese con un valore di filiera che supera i 538 miliardi.
Quella agroalimentare è una realtà allargata dai campi agli scaffali che garantisce – evidenzia la Coldiretti – 3,6 milioni di posti di lavoro e vale il 25% del Pil grazie all’attività, tra gli altri, di 740mila aziende agricole, 70mila industrie alimentari, oltre 330mila realtà della ristorazione e 230mila punti vendita al dettaglio.
Una rete diffusa lungo tutto il territorio che viene quotidianamente rifornita dalle campagne italiane dove stalle, serre e aziende continuano a produrre nonostante le difficoltà legate alla pandemia.
Una filiera che nonostante le difficoltà ha registrato una continua crescita dell’export raggiungendo la cifra record di 44,6 miliardi di euro nel 2019 che evidenzia un segno positivo del +3% anche nei primi sette mesi del 2020.
“L’emergenza globale provocata dal coronavirus ha fatto emergere una consapevolezza diffusa sul valore strategico rappresentato dal cibo e sulle necessarie garanzie di qualità e sicurezza” afferma il Presidente della Coldiretti Ettore Prandini nel sottolineare che l’Italia può contare su una risorsa da primato mondiale ma deve investire per superare le fragilità presenti, difendere la sovranità alimentare e ridurre la dipendenza dall’estero per l’approvvigionamento in un momento di grandi tensioni internazionali”.
Un obiettivo di sicurezza nazionale per il quale un sostegno importante – precisa Prandini – può arrivare dai 209 miliardi messi a disposizione dal Recovery fund.
L’Italia puo’ contare, infatti, sulla leadership indiscussa nella Ue per la qualità alimentare con 310 specialità Dop/Igp/Stg, compresi grandi formaggi, salumi e prosciutti, riconosciute a livello comunitario e 415 vini Doc/Docg, 5155 prodotti tradizionali regionali censiti lungo la Penisola.
Non solo l’Italia ha anche la leadership nel biologico con oltre 60mila aziende agricole biologiche e il primato della sicurezza alimentare mondiale con il minor numero di prodotti agroalimentari con residui chimici irregolari.
E l’Italia è anche leader nella biodiversità. Sul territorio nazionale – spiega la Coldiretti – ci sono 504 varietà iscritte al registro viti contro le 278 dei cugini francesi e 533 varietà di olive contro le 70 spagnole.
Il Belpaese è il primo produttore UE di riso, grano duro e vino e di molte verdure e ortaggi tipici della dieta mediterranea come pomodori, melanzane, carciofi, cicoria fresca, indivie, sedano e finocchi. E anche per quanto riguarda la frutta primeggia in molte produzioni importanti: dalle mele e pere fresche, dalle ciliegie alle uve da tavola, dai kiwi alle nocciole fino alle castagne.
«Questo annus horribilis – ha sottolineato Francesco Sottile, di Slow Food Italia – ci sta restituendo una visione della produzione agricola estremamente fragile soprattutto nelle filiere locali del cibo. Da qui bisogna partire per capire come rafforzare un sistema di produzione che non può rimanere ai margini dell’interesse politico, ma deve conquistare sempre maggiore spazio e dare valore al proprio contributo a favore di una reale transizione ecologica. Abbiamo bisogno di politiche che volgano lo sguardo al mondo della piccola scala che non è chiamata così perché rappresenta una minoranza ma solo perché è costituita dalle migliaia e migliaia di piccole aziende agricole che insieme rappresentano tessere di un mosaico di valore inestimabile per il un ruolo importantissimo che giocano dal punto di vista, oltre che economico, anche agronomico, ecologico e culturale. Non si può condividere alcuna politica che dia maggiore forza al mondo agricolo industriale creando substrato fertile per un modello di produzione che non riesce a tenere in considerazione il valore della biodiversità, dell’uso delle risorse naturali. Se il settore agroalimentare in Italia e in Europa viaggiasse con regole e opportunità uguali per tutti allora si comincerebbe a parlare di mercato realmente libero e condizionato solo dalle capacità e dal saper fare».