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Agroalimentare: i ricavi crollano (-25%), da Bei 1,6 miliardi

Photo by Markus Spiske on Unsplash

Come riporta Euler Hermes, già prima dello scoppio della pandemia le insolvenze erano in aumento a livello globale nel settore agroalimentare. Dal 2017, il comparto ha registrato in media più di 30 insolvenze l’anno, e il fatturato combinato delle imprese insolventi è salito da 6,4 miliardi di dollari nel 2018 a 20 miliardi nel 2019.

Le imprese si trovano ad affrontare cinque nuove sfide:

  • un cambiamento nelle abitudini alimentari, soprattutto in Occidente, con i consumatori che cercano alimenti più sani;
  • la necessità di ridurre la CO2 della produzione alimentare;
  • controversie commerciali che costringono le imprese a diversificare i canali di approvvigionamento;
  • la pressione al rialzo sui salari, che rappresentano l’11% dei costi operativi nel settore;
  • l’incapacità delle imprese trasformatrici di trasferire i costi di input più elevati ai clienti a causa della mancanza di potere di determinazione dei prezzi.

Cosa significano questi nuovi rischi per le imprese? Al netto dell’effetto coronavirus, gli analisti prevedono un ulteriore deterioramento del tasso di margine operativo dell’intero settore, fino al 9% nel 2020 dal 10,2% nel 2018. Complessivamente, i costi operativi espressi in percentuale sui ricavi aumenteranno di 1,4 punti percentuali, attenendosi al 21,8% nel 2020, rispetto al 20,4% del 2015. A questo proposito, Coface sottolinea inoltre come il comparto sia non solo al centro delle tensioni protezionistiche, ma anche vulnerabile a rischi climatici e biologici. Gli analisti prevedono che i principali fattori di rischio sperimentati nel 2019 continueranno nel corso di quest’anno: le tensioni commerciali tra USA e Cina hanno contribuito all’elevata volatilità dei prezzi delle materie prime agricole, esercitando una pressione al ribasso sui prezzi della soia. Allo stesso tempo, anche gli accordi di libero scambio conferiscono a questo settore un ruolo di primo piano, dal momento che nella maggior parte dei casi le disposizioni includono il commercio di prodotti agricoli. Questo è stato il caso nel 2019 di una serie di accordi come l’accordo UE-Mercosur, l’accordo commerciale UE-Giappone e il CETA firmato tra il Canada e l’UE.

A risentirne in particolare è stato il mercato della soia: le imprese cinesi hanno smesso di importare semi di soia da Washington, scoraggiate dalla decisione delle autorità di imporre dazi all’importazione sugli USA. Le importazioni cinesi di soia americana sono diminuite, rispettivamente, del 99% e del 97% nel quarto trimestre del 2018 e a gennaio 2019, prima di risalire a febbraio 2019. A beneficiare della situazione sono stati Brasile e Argentina. Nell’ottobre 2019 gli USA hanno imposto dazi per 7,5 miliardi di dollari di importazioni dall’UE. Le misure, che riguardano principalmente Francia, Regno Unito, Germania e Spagna, sono una risposta alle sovvenzioni ritenute illegali dall’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) e presentano tariffe del 25% sui prodotti agricoli, tra cui i vini francese e spagnolo e il whisky scozzese. Questi dazi doganali potrebbero avere gravi conseguenze per i produttori agricoli dei paesi interessati, dal momento che Washington rappresenta uno dei principali acquirenti stranieri: nel solo 2017 gli USA hanno acquistato il 22% delle esportazioni di whisky del Regno Unito e il 18% delle esportazioni di vino francese.

A questo punto, l’esplosione del coronavirus sta imponendo al settore un forte stress, determinato da una combinazione di diversi shock, sul lato tanto della domanda che dell’offerta, minacciando produzione e distribuzione. È in corso una vera e propria concorrenza tra paesi per garantire l’accesso sicuro a prezzi contenuti per i prodotti alimentari: se da una parte gli importatori stanno cercando di garantirsi forniture interne, aumentando le proprie riserve strategiche, come nel caso della Cina che ha raddoppiato le proprie riserve di riso, dall’altra ci sono gli esportatori che stanno invece procedendo a diverse restrizioni. Il Vietnam, uno dei principali fornitori mondiali di riso, ha continuato a esportare questa materia prima, ma dal 24 marzo ha temporaneamente sospeso l’assegnazione di nuove licenze di esportazione. La Russia, il più grande esportatore di grano del mondo, ha vietato le esportazioni per dieci giorni, proponendo una quota di vendite di grano, mais, orzo e segale da aprile a giugno per contribuire a stabilizzare il mercato interno. Il Kazakistan, uno dei maggiori esportatori mondiali di farina di grano, ha vietato l’export di farina di frumento, oltre che di carote, zucchero e patate fino al 15 aprile. Nel breve periodo il problema più grande del settore sembra essere collegato alla catena di fornitura e alla limitata capacità di trasporto delle merci, essendo i trasportatori costretti a rispettare le differenti procedure adottate dai diversi paesi per limitare la diffusione di COVID-19.

Tuttavia, non vanno sottovalutati i rischi biologici che continueranno ad avere un impatto sulla produzione agricola globale nel corso del 2020, al di là del coronavirus. Nell’estate del 2018 è scoppiata la febbre suina africana (ASF): l’Asia è molto colpita dalla malattia, che si è diffusa nella regione causando scompiglio tra i produttori di carne suina, in particolare in Cina, mercato che rappresenta il 50% di produzione e consumo a livello globale. ASF in Cina ha diverse conseguenze: il primo è l’aumento delle importazioni di carne di maiale dall’UE, dal Brasile e, nonostante i dazi, dagli USA. Lo scorso settembre l’aumento della domanda cinese ha causato un aumento dei prezzi dei suini del 51%, spingendo alcuni consumatori a passare ad altre carni. Ciò ha portato ad un aumento della domanda esterna di carne bovina e pollo, beneficiando Brasile, Argentina e UE (il Brasile è il maggiore esportatore di carne bovina e di pollo, l’UE è il terzo maggiore esportatore di carne bovina e il secondo più grande esportatore di pollo, mentre l’Argentina è il quarto esportatore di carne bovina). Allo stesso tempo, la diminuzione delle mandrie di suini cinesi sta portando a una riduzione della domanda di soia, utilizzata principalmente per nutrire i maiali. Secondo l’USDA, il mercato cinese della carne suina non dovrebbe riprendersi nel 2020: la produzione dovrebbe diminuire del 25% rispetto al 2019, mentre le importazioni di carne di manzo, pollo e maiale dovrebbero aumentare rispettivamente del 21%, 20% e 35%.

Oltre all’ASF, la diffusione del verme FAW è uno dei principali rischi biologici per il settore agroalimentare globale. Si tratta di un bruco che si nutre principalmente di mais, ma anche di riso, sorgo, cotone e altre colture. È stato rilevato per la prima volta in Africa occidentale all’inizio del 2016. Alla fine del 2018 si era diffuso nella maggior parte dei paesi di Africa subsahariana e Asia. FAW ha ora raggiunto diversi paesi asiatici, tra cui Vietnam, Myanmar, Bangladesh, Indonesia, Taiwan, Cina, e si sta potenzialmente diffondendo ad altri. La Cina è il secondo produttore mondiale di mais, quindi la presenza di FAW potrebbe portare a pressioni inflazionistiche sui prezzi mondiali di questa coltura.

Cosa significa tutto questo per il Made in Italy? Come riportato dallo studio ISPI, l’agroalimentare vale per il Belpaese circa 205 miliardi e rappresenta il 12% del Pil; valori che, nel caso si considerasse tutta la filiera, sarebbero addirittura di 538 miliardi pari al 25% del Pil. L’Italia ha esportato 41,8 miliardi di prodotti agroalimentari nel 2019 e ne ha importati per 21 miliardi, di qui una buona parte sono a loro volta lavorati e riesportati. Secondo Federalimentare, la produzione italiana è fortemente dipendente dall’importazione estera di materie prime di una lunga serie di prodotti, come la pasta per la cui produzione si importa il 45% delle materie prime o dell’olio d’oliva al 60% fatto da olive importate. Per non parlare del caffè. Più locali sarebbero invece i comparti lattiero-caseario (importa il 14%) e l’ortofrutta trasformata (16%) o il vino: anche questi saranno comunque soggetti a forti limitazioni dovute al virus per la crescente riduzione di manodopera disponibile. Proprio la mancanza di lavoratori stagionali, soprattutto per le colture ad alta intensità di manodopera, è oggi uno dei fattori di maggiore criticità: per quanto riguarda l’Italia, la manodopera stagionale straniera rappresenta il 27% del totale, che in termini assoluti vuole dire 370.000 persone.

Il settore è sottoposto a forte stress anche per il modo in cui la pandemia sta impattando sulla domanda di questi beni. Se da una parte si è sperimentata una vera corsa agli scaffali nei mesi di febbraio e marzo in quasi tutto il mondo (in Italia +18,5%), con un boom per le vendite online balzate in Italia del 142,3%, in generale le vendite al dettaglio sono scese del 20% nel primo trimestre 2020. Allo stesso tempo, ad aver subito un forte ridimensionamento è stato il canale di approvvigionamento di esercenti e ristoratori (-52,4%), che continuerà ad aggravarsi per tutto aprile. Ne consegue che il settore ha perso in media il 20-30% del fatturato.

Ecco allora che, per far fronte all’emergenza e contribuire a migliorarne la resistenza durante l’epidemia, la Banca Europea per gli Investimenti (BEI) ha sbloccato 1,6 miliardi di finanziamenti, con l’obiettivo di sostenere le imprese lungo la catena di approvvigionamento, comprese quelle di settori alimentare, materiali a base biologica e bioenergie. Si prevede che i prestiti andranno da 15 a 200 milioni di euro e saranno mirati a sostenere la protezione ambientale e l’efficienza delle risorse naturali, l’energia rinnovabile, l’innovazione, la competitività e l’efficienza energetica.

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