Negli ultimi mesi la cronaca ci racconta di un continente africano in difficoltà. La crescita economica è stata tra le più basse degli ultimi anni e sono riemersi vecchi “spauracchi” come l’aumento del debito. La parabola del miracolo economico africano è da considerarsi in discussione? Secondo Sace, no.
Nel 2015 l’Africa Subsahariana ha segnato un record, purtroppo negativo: il Pil della regione è cresciuto del 3,4%, il ritmo più basso registrato dal 2000. Anche nel 2009, anno di recessione globale, il subcontinente era riuscito a fare meglio. E le ultime previsioni per l’anno in corso lasciano poco spazio all’ottimismo e si orientano su un ulteriore rallentamento dell’attività economica, intorno al 3%, in attesa della ripresa a partire dal 2017-1801.
Eppure, secondo un’analisi del gruppo assicurativo-finanziario controllato da Cdp, oggi più che mai è necessaria una differenziazione tra i 49 paesi del continente. E a fare la differenza è spesso quello che Sace definisce Fattore C3, ovvero l’insieme di commodity, Cina e capitali esteri. Le difficoltà maggiori si registrano in quei paesi dove il Fattore C3 è elevato, come ad esempio Sudafrica, Nigeria, Angola o Zambia. Al contrario, alcuni paesi meno esposti al Fattore C3 continuano a presentare opportunità interessanti, ad esempio nell’Africa Orientale, con Kenia, Tanzania e Ruanda, e Occidentale, con Senegal e Costa d’Avorio.
COMMODITY
Innanzitutto le commodity, se si pensa che circa i due terzi dell’export totale della regione è riconducibile alle risorse energetiche e minerarie e ai metalli, rispetto al 16% di beni manufatti e al 10% di prodotti agricoli02. Gli eccessi di offerta, le incertezze sulla domanda dei principali mercati emergenti e un dollaro più forte continuano a spingere al ribasso i prezzi delle materie prime. E a pagarne le ripercussioni sono soprattutto i Paesi africani esportatori di oil&gas, in particolare la Nigeria e l’Angola, anche a causa degli effetti negativi delle restrizioni valutarie sull’attività del settore privato; senza dimenticare altre economie petrolifere in difficoltà, come la Repubblica del Congo, il Gabon e la Guinea Equatoriale. Inoltre anche altri paesi in Africa australe (ad esempio Botswana, Sudafrica e Zambia) e in Africa Occidentale (Guinea, Liberia, Sierra Leone) hanno dovuto fare i conti con il deterioramento dei prezzi delle risorse minerarie non energetiche da loro esportate, come ferro, rame, diamanti e platino.
LA CINA
Il secondo fattore è la Cina, un attore importante per le sorti economiche dell’Africa Subsahariana: già dal 2011 la Cina è divenuta il primo partner commerciale della regione e gli scambi commerciali sino-africani valgono oggi circa 200 miliardi di dollari, un livello paragonabile all’interscambio tra Africa Subsahariana e Unione Europea e quattro volte circa quello con gli Stati Uniti. Da questi numeri emergono chiaramente le potenziali ripercussioni del rallentamento cinese sulla crescita africana.
La spinta di Pechino su una crescita interna più legata a consumi e servizi si è infatti tradotta in un calo dell’import dal subcontinente africano, in particolare di risorse energetiche e minerarie. Soffrono quelle economie che si trovano, per scelta o necessità, a dipendere per gran parte delle loro vendite dal mercato cinese, con quote anche superiori al 40% dell’export nazionale, come l’Angola, la Sierra Leone, la Mauritania, lo Zambia o la Repubblica Democratica del Congo.
I CAPITALI ESTERI
Ultimo, ma non per importanza, il fattore Capitali esteri. Negli anni passati, la ricchezza di materie prime e rendimenti finanziari positivi avevano attratto in Africa Subsahariana le grandi multinazionali e gli investitori internazionali. Oggi, nel quadro di bassi prezzi delle commodity e di un graduale rafforzamento del dollaro, i flussi dei capitali internazionali verso l’Africa Subsahariana sono progressivamente in diminuzione.
Tra le spiegazioni, una minore propensione delle banche europee all’attività di credito nella regione, ma anche un calo delle emissioni di Eurobond da parte dei Paesi africani, scese a 9,2 miliardi di dollari rispetto ai 12,9 miliardi di dollari del 2014. Il numero di emissioni è diminuito in seguito a condizioni diventate più costose, in alcuni casi quasi proibitive: gli spread sui rendimenti sono arrivati a superare il 9% (come nel caso dello Zambia a luglio 2015 e dell’Angola a novembre 2015) se non addirittura il 10% (Ghana, a ottobre 2015).
Il mercato dei capitali internazionali sconta quindi un rischio maggiore che i Paesi africani non onorino le proprie obbligazioni, come emerge anche dalle recenti notizie sul caso Ematum in Mozambico. Non è un caso se dall’inizio del 2016 non ci siano state nuove emissioni di Eurobond da parte di paesi dell’area Subsahariana.
L’EXPORT ITALIANO
Il rallentamento economico dell’Africa Subsahariana ha impattato anche sull’attività commerciale delle nostre imprese nella regione. Nel 2015 l’export italiano verso l’area si è fermato a 5,7 miliardi di euro, in calo del 7,9% rispetto all’anno precedente. Questo dato negativo è particolarmente significativo perché arriva dopo il record storico registrato nel 2014 e soprattutto perché si tratta della prima battuta di arresto dopo l’ultima crisi economica del continente nel biennio 2009-10. Le nostre previsioni indicano per il 2016 un’ulteriore flessione dell’export italiano verso l’area, seppure più attenuata.
I mercati africani che registrano un calo più evidente della domanda di beni italiani sono quelli caratterizzati da un elevato Fattore C3. Possiamo citare i cali tra il 25 e il 40% dell’export italiano, in particolare di beni di investimento, verso le economie africane più legate al petrolio, come la Nigeria, l’Angola e la Repubblica del Congo. Ma è anche interessante notare come a un Fattore C3 più basso corrisponda anche un export italiano in forte incremento. Nel 2015 crescono infatti a doppia cifra le nostre vendite verso quelle economie meno dipendenti dai tre fattori, come ad esempio la Costa d’Avorio (che con un +59% diventa il terzo mercato di destinazione nell’intera Africa Subsahariana), il Kenia e il Senegal.
3 CONSIGLI
Per Sace, il recente peggioramento del contesto economico africano sottolinea ancora una volta che per andare all’estero è imprescindibile dotarsi di una accorta strategia, anche quando le cose vanno apparentemente bene.
La società di export credit propone quindi tre suggerimenti: avvalersi di servizi di advisory per conoscere la strategicità di un progetto e valutare l’impatto delle difficoltà logistico-operative nell’area; accompagnare la proposta commerciale con un’offerta finanziaria che alleggerisca l’onere di ripagamento; dotarsi di strumenti di mitigazione o di copertura dal rischio di mancato pagamento, dovuto sia all’insolvenza commerciale della controparte che a eventuali restrizioni valutarie nel paese di riferimento.
LE PROSPETTIVE
In conclusione, nonostante le difficoltà che la maggior parte dei paesi dell’Africa Subsahariana sta sperimentando, non siamo al capolinea del miracolo economico africano. Il boom delle commodity si è arrestato, la Cina esercita una funzione di traino minore per la crescita africana e i capitali esteri possono riorientarsi verso i rendimenti nuovamente offerti dai porti sicuri. Ma l’Africa Subsahariana è ormai una realtà economica che non vale la pena trascurare.
La sua popolazione è di 1,2 miliardi di persone e secondo le proiezioni delle Nazioni Unite, nel 2050 una persona su quattro vivrà nel subcontinente. Anche nei prossimi anni Sudafrica, Nigeria e Angola continueranno da sole a rappresentare oltre il 50% dell’export totale italiano nell’area, ma l’atteso rafforzamento delle altre economie africane emergenti, in particolare di quelle meno legate al Fattore C3, e la sempre maggiore proattività degli operatori italiani in questa regione sono i presupposti per la prosecuzione del miracolo economico africano.