In Afghanistan continua l’avanzata dei talebani, che nell’ultima settimana, approfittando del ritiro statunitense, hanno riconquistato 10 capoluoghi di provincia. L’ultima città a cadere è stata Ghazni, a soli 150 chilometri da Kabul. L’ex regime della sharia recupera terreno più rapidamente del previsto e ormai la capitale è a portata di mano: secondo l’intelligence americana, potrebbe cadere in meno di tre mesi. Ma è davvero inevitabile? E, soprattutto, cosa può accadere dopo? Lo abbiamo chiesto a Stefano Silvestri, ex presidente dell’Istituto Affari Internazionali (di cui è oggi consigliere scientifico), e consulente per la politica estera di vari governi italiani.
Dottor Silvestri, il ritorno dei talebani e della sharia sono un destino inevitabile per l’Afghanistan?
«È piuttosto probabile che a questo punto i talebani riconquistino buona parte delle posizioni che avevano all’inizio del conflitto, cioè il sud del Paese e probabilmente Kabul. Questo significa ovviamente il ritorno al regime della sharia in queste zone e un balzo all’indietro dell’intero Afghanistan verso il tribalismo. È verosimile, infatti, che i talebani non arriveranno a controllare tutto il Paese: le aree settentrionali e occidentali dovrebbero rimanere in mano ad altre etnie, come tagiki, hazari e turkmeni».
Quindi la guerra in Afghanistan rischia di continuare come conflitto etnico?
«Sì. I talebani hanno il vantaggio di controllare buona parte del commercio dell’oppio, che è incentrato intorno alla zona di Kanadahar, e quindi di avere più soldi e migliori rapporti con la criminalità organizzata. Intanto, nei territori riconquistati, è probabile che inizino una serie di vendette e di repressioni nei confronti di coloro che ritengono traditori della loro ideologia».
E la comunità internazionale resterà a guardare?
«In questa fase sì. Ma se i talebani faranno l’errore di ritrasformare l’Afghanistan nel santuario dei grandi movimenti del terrorismo internazionale – da quel che resta di Al Qaeda all’Isis, ma non solo – una reazione da parte della comunità internazionale ci dovrà essere, anche con l’uso della forza».
Davvero gli Stati Uniti non avevano previsto quello che sarebbe accaduto con il loro ritiro?
«Il punto è che il mantenimento di questa guerra era ormai diventato non solo estremamente costoso, ma anche molto impopolare, soprattutto perché non si vedeva alcuna possibilità di concludere il conflitto. In realtà, l’errore è stato quello di far evolvere una guerra che inizialmente era contro il terrorismo (Al Qaeda e chi la copriva) in un conflitto per cambiare la faccia della società, per trasformare l’Afghanistan in un Paese più o meno democratico e occidentalizzato. Ma un mutamento epocale non può essere assicurato con la forza delle armi e in un periodo di tempo relativamente breve. Se fossimo stati disposti a restare in Afghanistan un paio di secoli, magari… Quindi l’errore è stato strategico e ha portato a una sconfitta non militare, ma politica».
Gli europei, intanto, sono preoccupati per il possibile arrivo di decine di migliaia di individui che andrebbero accolti come rifugiati. Cosa ne pensa?
«Visto che siamo stati noi ad andare in Afghanistan e a rimanerci per tutti questi anni, dovremo rassegnarci all’idea che adesso questi rifugiati hanno tutto il diritto a venire da noi. Prima abbiamo garantito loro l’uscita dal tribalismo e ora li stiamo lasciando nelle mani di quella stessa realtà, che minaccia la vita di molte persone. Mi sembra inevitabile che dovremo aspettarci una certa quota di rifugiati, anche se non credo che si tratti di grandi numeri, perché la maggioranza degli afgani non vuole o non può lasciare il Paese. In realtà, a fuggire sarà una piccola parte delle élite urbane e probabilmente un po’ di gente che ha lavorato per noi come agenti di sicurezza, agenti locali, personale di servizio…».
Che legame c’è fra i talebani e la Cina?
«Molto sotterraneo. È chiaro che fra le due parti non c’è alcuna affinità di tipo ideologico o religioso: al contrario, la Cina reprime tutto ciò che ha a che fare con organizzazioni musulmane politiche o religiose, com’è avvenuto nelle regioni a maggioranza uigura. Tuttavia, la Cina è sicuramente interessata ad accrescere il proprio peso in Asia e l’Afghanistan è un buon canale di penetrazione per la nuova Via della Seta verso il Medio Oriente, assicurando le comunicazioni terrestri con Pakistan e Iran, oltre che con le repubbliche ex sovietiche asiatiche».
Quali sono i rapporti di forza su questa direttrice?
«Pechino ha già una forte presenza in Pakistan (dove gestisce dei porti), ha relazioni conflittuali con l’India (che è anche in conflitto con il Pakistan) ed è sempre più interessata a stabilire un rapporto con l’Iran, da cui già oggi acquista gran parte del petrolio. Da parte sua, l’Iran confina con l’Afghanistan e ha forti interessi nella regione di Herat, nella parte occidentale del Paese. Lì parlano il farsi, la lingua iraniana».
Quindi un’alleanza fra cinesi e talebani avrebbe senso sotto il profilo geopolitico?
«Sì, ma rimane il fatto che non esiste alcuna affinità fra i due regimi, per cui si tratterebbe di un’operazione di realpolitik. In ogni caso, siamo nel campo delle ipotesi: non è affatto detto che funzioni. Anzi, ho i miei dubbi che un regime talebano, al di là di accordi di breve periodo, sia disponibile ad aprirsi alla penetrazione cinese».