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Affresco della “pizza” ritrovato a Pompei? Lo storico della nutrizione avverte: andateci piano, la storia è un’altra

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La recente scoperta dell’affresco di Pompei ha subito rimandato per la sua forma e per i suoi colori ad una pizza. Non si può tuttavia confondere una pietanza con la sua denominazione. I romani conoscevano molto bene la pasta sfoglia cui attribuivano il nome di “tracta”, ma non utilizzavano il mattarello, il cui uso viene documentato solo in una miniatura riportata nel teatrum sanitatis verso la metà del XV secolo.

I romani conoscevano bene la pasta sfoglia ed era lavorata a mano, il mattarello compare nel XX secolo

Il termine “pizza” (duodecim pizze) viene citato per la prima volta in un contratto di fitto di un mulino posto nei pressi del fiume Garigliano e risalente al 997 d.C. Tuttavia nel corso del medioevo numerosi sono i documenti che riportano il termine “picça” e “picza” che un vassallo dove conferire al proprio feudatario in occasione delle festività.

L’oggetto misterioso raffigurato nell’affresco può ragionevolmente essere interpretato alla luce di un poemetto erroneamente attribuito a Viriglio come un crostino.

L’oggetto misterioso raffigurato nell’affresco può ragionevolmente essere interpretato alla luce di un poemetto erroneamente attribuito a Viriglio come un crostino. Esso è l’unico nella letteratura latina che riportata fedelmente tutte le operazioni ed i gesti una serva intenta a preparare dei crostini

levi tum protinus illam

componit tabula, tepidas super ingerit undas,

contrahit admixtos nunc fontes atque farinas,

transversat durata manu liquidoque coacta,

interdum grumos spargit sale. iamque subactum

levat opus palmisque suum dilatat in orbem

et notat impressis aequo discrimine quadris.

infert inde foco (Scybale mundaverat aptum

ante locum) testisque tegit, super aggerat ignis.

Ecco allora che la serva distende sulla spianatoia la farina e vi aggiunge dell’acqua tiepida e mescola acqua e farina e rivolta l’impasto indurito dalla mano e compattato dall’acqua, aggiunge poi del sale e successivamente solleva l’impasto lavorato e con la mano formando un cerchio e stacca dei riquadri ad eguale distanza. Li mette in cottura (Scibale aveva in precedenza ripulito il posto adatto) e li ricopre con una campana di terracotta sulla quale colloca della brace.

La cottura era effettuata sotto una campana di terracotta denominata in latina “clibano”

La cottura è effettuata non al fuoco del camino, ma sotto una campana di terracotta denominata in latina “clibano” e che l’archeologia ci ha restituito in numerosi esemplari. Sono campane di ridotte dimensioni ad uso esclusivamente domestico, poiché in epoca pompeiana i fornai dell’epoca (pistores) disponevano di ampi forni per la cottura di pani di dimensioni maggiori.

Su quei crostini ritagliati da una sfoglia di acqua, farina e sale, il poemetto aggiunge dell’aneto e del formaggio (traiectus medium sparto sed caseus orbem et vetus astricti fascis pendebat aneti) e questa era la colazione del nostro vilicus che sapeva trarre dal suo orto delle semplici verdure.

Più che di pizza sarebbe più corretto parlare di crostino o di gallette rotonde (che piacevano ad Apicio)

Che l’affresco raffiguri delle semplici gallette rotonde di pasta possiamo essere confortati da Apicio il quale nel suo libro quinto espressamente dice “fai seccare tre dischi di pasta” (tres orbiculos tractae siccas).

La cucina greca arcaica conosceva già il termine “pitta” (πίττα) che indicava una semplice tavoletta schiacciata; ma le focacce schiacciate erano le “placente” (πλακοῦς) più ampie di una semplice galletta.

Dovremo attendere il Platina che intorno al 1450 ci restituisce una ricetta della placenta più simile ad una moderna focaccia.

Insomma, si fa presto, dunque, a dire pizza, ma la storia è un’altra.

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