Pesa più un chilo di fieno o un chilo di piombo? Preferisci un maglione 80% puro cachemire o 20% misto lana? Uno yogurt 95% magro o uno 5% grasso? E ancora: se vinci 50 euro, preferisci tenertene 20 o restituirne 30?
Stiamo parlando sempre della stessa cosa. Ma il linguaggio usato per descrivere le opzioni può influenzare sistematicamente ciò che scegliamo. È il noto “effetto incorniciamento”. Scoperto e verificato sperimentalmente da Daniel Kahneman, che ne aveva dato comunicazione nel 1981 su Science. A venticinque anni di distanza, una ricerca di Benedetto De Martino e Raymond Dolan dell’University College di Londra, pubblicata sulla stessa rivista, conferma su basi neurobiologiche la felice intuizione del premio Nobel. Al contempo lo studio infligge un altro duro colpo a uno dei cardini della razionalità economica – il cosiddetto principio di “invarianza”, per cui dovremmo manifestarci logicamente coerenti nelle nostre decisioni indipendentemente dal modo in cui ci si presentano le scelte disponibili.
L’esperimento ha coinvolto venti studenti la cui attività cerebrale è stata monitorata con la risonanza magnetica funzionale (fMRI). Ciascun partecipante è stato dotato inizialmente di una somma di 50 euro, quindi invitato a compiere in successione una serie di scelte, ognuna delle quali prevedeva due opzioni:
- una certezza (di conservare o di perdere una parte del denaro);
- una scommessa (espressa come x probabilità di conservare tutto o di perdere tutto).
Nota bene, di ciascuna “opzione certezza” esistevano due formulazioni:
- una incorniciata in termini di vincita (per esempio, conserva 20 euro su 50);
- la seconda incorniciata in termini di perdita (per esempio, perdi 30 euro su 50).
La formulazione dell’“opzione scommessa” era sempre uguale: una rappresentazione grafica della probabilità di conservare o di perdere tutto (nel nostro esempio, la probabilità del 40% di conservare tutti i 50 euro e del 60% di perderli). I dati rivelano un’interessante relazione tra i diversi comportamenti individuali e l’attivazione di differenti aree cerebrali.
L’amigdala, una regione neurale del celebre sistema limbico deputata a processare emozioni (come la paura), si attiva vigorosamente “intercettando” l’effetto incorniciamento in tutti i soggetti. Ma in maggior misura tra coloro che ne sono vittima: cioè tra coloro che scelgono l’“opzione certezza” nel caso in cui la scelta sia incorniciata in termini di vincita (tieni 20 euro su 50) e l’“opzione scommessa” laddove la scelta sia incorniciata in termini di perdita (restituisci 30 euro su 50!).
Mentre una correlazione significativa emerge tra l’attivazione della corteccia prefrontale (mediale e orbitale) – la parte nobile del nostro cervello e più evoluta filogeneticamente – e le scelte razionali (FIGURA 1). Una maggiore attivazione di quest’area consente, infatti, di prevedere che il soggetto neutralizzerà l’effetto incorniciamento, manifestando coerenza nelle proprie decisioni.
Come sanno bene gli esperti di marketing e di pubblicità, chi più chi meno, ci facciamo tutti influenzare dalle nostre emozioni. Nessuno, tranne forse l’homo oeconomicus o l’anaffettivo e iper-razionale vulcaniano dalle orecchie a punta dottor Spock di Star Trek, ne è interamente libero.
Degno di nota che alcuni partecipanti all’esperimento hanno successivamente dichiarato che sapevano benissimo di compiere scelte incoerenti, ma che semplicemente non potevano farci nulla! Come se un piccolo omuncolo emotivo (asserragliato nell’amigdala) sbraitasse dentro di loro senza lasciarli riflettere. Ebbene, anche nei soggetti che hanno esibito un comportamento razionale l’amigdala era attiva (e l’omuncolo emotivo verosimilmente sbraitante), ma hanno mostrato di saper gestire e “sovrascrivere” il messaggio emotivo.
Più che al dottor Spock, dunque, tendiamo ad assomigliare a Charlie Brown. Come la sua, anche la nostra testa spesso è “calda e stupida”. C’è però un metodo nella “stupidità”: gli errori che compiamo infatti sono pervasivi, ricorrenti e prevedibili. Sono l’esito di una logica diversa da quella matematica, ma non meno sistematica, frutto di un’incessante negoziazione tra processi “automatici” e processi “controllati”, tra “affetti” e “cognizione” o, più volgarmente, tra passioni e ragione – e dal gioco di sinapsi delle aree cerebrali corrispondenti. I due processi possono facilmente essere in competizione, come quando compiamo una scelta irrazionale cadendo in qualche trappola cognitiva (per esempio l’effetto incorniciamento) o come quando ci buttiamo su un piatto di patatine fritte spinti dai nostri “impulsi viscerali”, sacrificando così un po’ del nostro benessere futuro per un piacere immediato.
Eppure, come ha documentato magistralmente Antonio Damasio, alla luce di numerosi casi di suoi pazienti con lesioni cerebrali nella regione prefrontale ventromediale, per prendere una decisione “giusta” non basta sapere quel che si dovrebbe fare, ma occorre anche che il corpo ce lo faccia “sentire”. Come se la “pura ragione” avesse bisogno di un’assistenza speciale per mettere in atto i suoi piani: un po’ di passione che la aiuti!
Dopotutto, non è così sorprendente che gli individui razionali siano coloro i quali hanno una (meta)rappresentazione mentale più precisa e più raffinata dei propri condizionamenti emotivi e dei propri processi cognitivi e coloro i quali sono dotati di una corteccia prefrontale in grado di integrare e modulare tali informazioni adattandole a seconda delle circostanze. Lo studio delle basi neurali della decisione sembrerebbe confermare proprio questo e, come ha commentato Kahneman, “i risultati non potrebbero essere più eleganti”.
In un lavoro successivo (2009), De Martino ha potuto dimostrare il ruolo causale dell’amigdala nell’avversione alle perdite. Immaginate di partecipare a questo gioco di investimento. Potete decidere se tenervi 100 euro oppure di investirli. L’investimento consiste nel darli allo sperimentatore, il quale lancerà una moneta: se uscirà testa avrete perso i 100 euro, se uscirà croce ne avrete vinti 250. Il gioco prevede venti turni.
Chi ha voglia può farsi i calcoli, ma chiunque noterà che conviene investire essendo il valore atteso maggiore per ogni turno. Eppure, proprio perché il nostro cervello è “progettato” per evitare le perdite, la maggior parte di soggetti sani (in questo esperimento il 60%) preferisce guadagnare complessivamente di meno pur di evitare le potenziali perdite. Non solo, la decisione di investire è fortemente influenzata dall’esito del turno precedente. Dopo una scommessa persa, la volontà di investire nella successiva diminuisce significativamente.
Ma è così per tutti? De Martino e colleghi (2009) hanno sottoposto ad analoghe scelte di investimento due pazienti con una rarissima lesione focale, simmetrica e bilaterale, all’amigdala e le hanno confrontate con quelle di soggetti sani. I soggetti cerebrolesi agivano in modo “perfettamente razionale”, avvantaggiandosi cioè pienamente delle possibilità di guadagno insite in analoghi giochi di investimento. Il fatto di avere un’amigdala deficitaria, evidentemente, rende queste persone insensibili agli effetti della disparità psicologica tra guadagni e perdite.
Per quanto possa apparire strano, le persone che hanno un sistema emotivo danneggiato sono più razionali in certi tipi di decisione: proprio quelle in cui, da efficienti calcolatori di utilità, occorre non subire l’effetto “emotivo” dell’avversione delle perdite. Sebbene tale concetto possa apparire vago per un economista, è quello che meglio cattura la complessità del comportamento delle persone in carne ed ossa.
“Pensate a un animale – spiega De Martino – deve procurarsi il cibo, ma allo stesso tempo proteggersi dai predatori: dal punto di vista dell’evoluzione, essere dotati di un sistema che pesi le perdite maggiormente dei guadagni è estremamente saggio”. Oggi i predatori non sono più quelli di una volta, ma è verosimile che sia sempre l’amigdala alla base di quel meccanismo biologico che inibisce i comportamenti rischiosi in ambito finanziario associati alla possibilità di una perdita.