Scopro oggi che il New York Times ha pubblicato un pezzo del sig. Greg Smith (illustre sconosciuto, lo dice il cognome stesso!) in cui spiega perché dopo 12 anni lascia il suo impiego a Goldman Sachs, abbandonando il posto dopo aver percepito 12 anni di stipendi… forse non abbastanza alti? Questo pezzo ha avuto enorme diffusione su Twitter e i vari Social Media, ed è anche stato pubblicato dal Corriere e Repubblica di ieri. Ma cos’ha questa lettera di tanto speciale: rivelazioni shock? Scandali sessuali? Notizie bomba? Dettagli sul famoso currency swap della Grecia? La lettera non dice nulla di eccezionale, e l’unico pensiero che mi viene in mente è che bisognerebbe dire al signor Smith che, qualora volesse veramente lavorare per l’interesse di qualcuno che non sia il suo datore di lavoro, le Onlus sarebbero molto più appropriate delle banche d’investimento.
A cosa è dovuto allora tanto clamore? Avete mai letto su un giornale la lettera di un dipendente che decide di lasciare Intesa Sanpaolo o BNP Paribas? Macché. E se anche tali lettere dovessero esistere, non le pubblicherebbe nessuno, mentre Goldman Sachs nel bene e nel male fa notizia, in quanto desta una curiosità morbosa e rocambolesche dietrologie, come quelle dei complottisti, che vedono la sua anima maligna dietro la crisi. I giornali scrivono di qualunque fatto ininfluente che la riguardi (vedi la notizia del dipendente di GS che ha vinto la gara di corsa per le scale dell’Empire State Building), ed è l’unica tra le grandi istituzioni finanziarie del pianeta ad essere invidiata, odiata, ammirata, criticata dai media e oggetto di tanta curiosità, a tal livello da esserci divertenti video “virali” su YouTube.
Io, come ho già scritto su Advise Only, ho lavorato per quasi otto anni per Goldman Sachs e qualche idea sulla causa di tale allure mediatica ce l’ho:
– Il grande successo della banca che da qualche decade fa profitti che superano il consenso degli analisti; ha preso a prestito dal Governo Usa 10 miliardi di dollari e in meno di un anno li ha restituiti – i primi della classe risultano sempre un po’ “irritanti”.
– La cultura aziendale è quella del “basso profilo” e della riservatezza, spingendo a immaginare che dietro questo atteggiamento si nascondano chissà quali segreti.
– La struttura organizzativa basata sulla partnership, cioè sul principio che i “partner”, il massimo livello manageriale, si spartiscono secondo percentuali prefissate gli utili della banca, crea un forte incentivo a generare profitti.
– Il continuo interscambio di personalità di vertice con il mondo della politica e i circoli del potere economico, meccanismo tipico di Goldman Sachs più di ogni altra istituzione finanziaria, è motivo di attenzione – Rubin, Paulson (CEO di Goldman negli anni 2000 e ministro del tesoro nell’ amministrazione Bush nel periodo del fallimento Lehman), ma anche Draghi, Papademos e persino Monti, che non è mai stato dipendente, ma ha fatto parte di un comitato strategico.
Anche io ho lasciato Goldman Sachs perchè mi sentivo un pesce fuor d’acqua, perché cercavo altri stimoli e forse perché il denaro fine a se stesso senza obiettivi strategici non mi interessava abbastanza. La cultura di Goldman Sachs è basata su una specie di set di comandamenti, i famosi business principles tra cui forse il più importante è il “client interests’ always come first” citato dal signor Smith. Purtroppo credo che a partire dal 1999, Goldman Sachs, da partnership privata che poteva permettersi il lusso di coltivare gli interessi strategici dei propri clienti, sia diventata l’ennesima società quotata con l’ossessione dei risultati, delle trimestrali e dei profitti. Tutti questi fattori portano inevitabilmente ad una strategia opportunistica e di breve termine, che, unita all’attribuzione di bonus in denaro eccessivi e “mal costruiti”, è la dimostrazione della degenerazione estrema del modello capitalistico. Il quale non porta crescita e benessere di medio periodo, ma crea mostri come Enron, Lehman, o l’italiana Parmalat, e causa crisi planetarie come quella che stiamo vivendo.
Il profitto di per sé non è “male”, ma deve avere precisi limiti etici. Il signor Smith fa bene a prendersi una pausa, mentre noi stiamo ancora aspettando le azioni dei regulators che riportino Goldman e le altre banche in carreggiata. Ricordiamoci che Goldman opera in prevalenza con grandi clienti istituzionali, con i quali condivide l’obiettivo del profitto, e che dovrebbero essere preparati e sufficientemente abili da “sgamare le eventuali fregature” confezionate da Goldman. Ma i piccoli clienti? che nella vita magari non si interessano di finanza, non hanno competenze di mercato e non finiscono sui giornali, ma si affidano ad Intermediari autorizzati per investire con accortezza i loro risparmi, ritrovandosi in portafoglio strumenti astrusi, illiquidi e soprattutto costosissimi? Che ne è di loro? Lo chiederei al nostro amico Jack Sparrow…
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