L’ultima volta che ho avuto occasione di parlargli è stato lo scorso gennaio. La sua voce era stanca, spenta, come di qualcuno che ha passato la mano ed è ormai fuori dal giro che conta.
Antoine Bernheim negli ultimi mesi della sua vita si è lasciato andare. Troppe le amarezze professionali e troppi i dolori personali. Concentrati. L’estromissione dalle Generali due anni fa e l’uscita dai principali cda dove ancora siedeva (Gruppo Bollorè e Lvmh tra gli altri). La morte prematura del figlio. Per concludere con un braccio rotto e qualche acciacco di salute dovuto all’età avanzata (87 anni).
“Je suis un viellard”, diceva in continuazione, aspettando che il suo interlocutore gli rispondesse “non è vero”. Ma vecchio non lo era davvero. Il suo cervello continuava ad immaginare nuove operazioni finanziarie, nuove alleanze, nuove scalate. I suoi occhi ti penetravano. Scavavano dentro di te per cogliere il punto debole, per strapparti la confidenza che mai e poi mai avresti dovuto affidargli.
Mi domando se Bernheim, nella sua lunga carriera professionale, abbia colto più vittorie o assaporato più sconfitte. E perché l’ultimo tratto della vita gli abbia riservato tanti dolori, almeno tanti quanti ne aveva dovuti patire all’inizio, figlio di ebrei deportati nei campi di concentramento. Come una parabola che si apre e si chiude sugli stessi toni.
Di sicuro Toniò, come lo chiamavano i suoi amici (ma anche i non pochi detrattori) è stato il più importante e capace banchiere d’affari del dopoguerra. Degno successore di Andrè Meyer a Lazard (il che significa anche Gianni Agnelli, crescita del gruppo Fiat in Francia), ma anche più completo di Enrico Cuccia, con cui i rapporti non sono sempre stati idilliaci.
Colto, mondano (frequentava i più bei salotti di Francia e d’Italia), giocatore e con un gran fiuto per gli affari, Bernheim ha creato, grazie alle sue giocate e alla sua visione, delle vere e proprie fortune miliardarie, da Arnault a Bollorè. Ma anche, si può dire, è stato fondamentale allo sviluppo e all’espansione di tutti i principali gruppi del Cac 40. Siano essi pubblici o privati.
Detestava la mediocrità, questo sì. E non lo nascondeva. Non amava né i giornalisti, né la stampa. Non aveva grande stima della classe politica, né di molti personaggi (manager, imprenditori, banchieri) che si aggiravano gli ultimi anni nel mondo della finanza. Bernheim era un cavallo di razza. Un solitario che non esitava a bruciare la carriera di chi non stimava o non era all’altezza del compito. Un uomo ambizioso, intelligente, predatore, dedicato al suo lavoro e mai (apparentemente) scosso da alcun sentimento.
Non ha mai amato David Weill, erede di uno dei fondatori di Lazard, né ha mai digerito la sua decisione di vendere la banca di Boulevard Haussmann a Bruce Wesserstein, che (prima di morire improvvisamente) l’ha americanizzata, spogliata della sua unicità e quotata in Borsa. Forse è in quel momento che Bernheim ha inizato a morire e a capire che il suo ciclo stava per finire.
Anche se non sono mancate altre soddisfazioni. Nei sottili giochi ed equilibri tra Francia e Italia è stato sicuramente il protagonista indiscusso degli ultimi 40 anni. Non sempre in sintonia con i vertici di Mediobanca, cacciato “come non si fa neanche con un maggiordomo” (ha detto la prima volta) dalle Generali, ha assaporato più volte il gusto della “revanche”.
Quando, ad esempio, ha organizzato l’ingresso dei “francesi” e di Bollorè in Mediobanca. Quando è tornato vincitore sulla poltrona di presidente delle Generali (amava dire che sotto di lui la compagnia triestina aveva prosperato). Quando ha voluto che Gerardo Braggiotti, “cacciato” da Vincenzo Maranghi, approdasse in Lazard e diventasse il principale banchiere di punta della banca parigina.
Francesi (Bollorè in testa) che, “saltato” Bernheim dalla presidenza delle Generali, hanno perso smalto e potere, “inghiottiti” dalle lobby finanziarie italiane e dal “machiavellismo” nostrano.
Peccato, perché il finale della storia non è esaltante come si meriterebbe. Negli ultimi tempi Bernheim è stato “scaricato”da Vincent Bollorè, dalle Generali ed è uscito da decine di cda. “Non c’è riconoscenza” per me, diceva. “Sono tutti dei traditori”, aggiungeva. Era ferito nell’orgoglio e soffriva.
Voleva continuare ad essere protagonista. A fare il presidente a tempo pieno. A concludere affari in tutto il mondo solcando i cieli con aerei privati, facendosi accompagnare da autisti in divisa, utilizzando le prestigiose foresterie delle tante società di cui era consigliere.
Forse il suo errore più grave è stato quello di pensare di essere insostituibile e di non accorgersi che gli anni passavano. Inelegante anche la causa intentata a posteriori alle Generali per reclamare una liquidazione stratosferica alla Geronzi. Sarebbe potuto uscire in bellezza, ritirandosi per tempo dalle scene. Lascerà comunque un grande vuoto. Dobbiamo infatti essergli grati per l’integrità con cui ha svolto il suo lavoro e per la vivacità con cui l’ha interpretato. Au revoir, Toniò