Sembra un paradosso, ma non lo è: l’Italia è il Paese con le maggiori risorse idriche, potendo contare su precipitazioni record e riserve d’acqua nel sottosuolo come pochi al mondo, ma da noi l’effettiva disponibilità di acqua per abitante è tra le più basse in assoluto. Come molti sanno, il problema è la mancanza di infrastrutture di trasporto, distribuzione e riciclo.
Altro paradosso, in questo caso, invece, reale ed evidente: pur avendo un’economia delle acque tra le più avanzate grazie alle applicazioni digitali e alle innovazioni tecnologiche che fanno della nostra Water Intelligence un caso quasi unico di connessione tra acqua e tecnologia, l’Italia è pressoché assente nel dibattito internazionale che si è aperto sull’acqua come fattore determinante dello sviluppo sostenibile. Ne sono stato recentemente testimone partecipando al World Water Forum tenutosi a Bali (Indonesia), un evento con cadenza triennale che raccoglie rappresentanti del settore pubblico e privato di oltre 130 paesi, sia a livello multilaterale sia a livello nazionale e locale. Tra i 100mila esperti che si sono riuniti a Bali per discutere di innovazioni e forme di collaborazione nel settore idrico, gli italiani si contavano sulle dita di una mano. Nessun italiano è intervenuto dei panel e nelle sessioni plenarie dove pure si sono presentati francesi, inglesi, tedeschi, spagnoli, norvegesi e svedesi per parlare soltanto degli Europei. Ne scrivo perché rischia così di sfuggirci di mano il fil rouge che anima ormai ovunque la sperimentazione e lo sviluppo dell’innovazione nel water management come fattore d’impatto sui progetti di nuova urbanizzazione, di crescita delle risorse agricole e alimentari, di rafforzamento dei sistemi sanitari e, per finire, di nuova finanza internazionale. Anzi, partiamo da qui.
Come rendere finanziabili i progetti di infrastrutture?
A Bali, e nei prossimi summit mondiali dedicati all’acqua, la blue finance è stata e sarà al centro dell’attenzione. Sotto diversi aspetti che potrebbero interessare l’Italia. La domanda di fondo è: come rendere bancabili, cioè finanziabili, i nuovi progetti di trasporto, stoccaggio, riciclo e distribuzione delle acque? Più specificatemene, come determinare, anche a livello locale di città e comunità indigene, il ritorno degli investimenti per equity funds, grandi banche, investitori privati, attori di microfinanza e persino operatori filantropici che puntano oggi sui progetti idrici più innovativi? Un aspetto tutt’altro che secondario che la blue finance internazionale sta cercando di affrontare nella collaborazione tra autorità metropolitane e soggetti privati è l’impatto sociale di questi investimenti misurabile con l’accesso all’acqua potabile di centinaia di milioni di persone assetate oppure con l’accesso all’acqua dato alle donne che in molti paesi hanno, da sole, cura delle produzioni agricole o semplicemente dei loro figli.
Ne va della capacità della finanza de-centralizzata di connettere regioni, paesi e città ai grandi piani multilaterali sull’acqua portati avanti da Onu, Unesco e da altre istituzioni, accordandosi sui fattori di rischio, ma anche sulle ricadute sociali, che devono entrare nelle procedure di autorizzazione. Oppure di come rendere accessibili a tutti le adozioni di applicazioni innovative sull’acqua. La risposta che sta emergendo è racchiusa in 2 parole: blended finance.
Capitali pubblici e privati si stanno unendo in aree del Pacifico, dell’Africa e dell’America Latina, ad esempio, nell’avviare emissioni di crediti comunali (municipal grants) finanziati a livello internazionale e distribuiti a livello locale. È di queste settimane la prima emissione di municipal bonds a cura dell’Asian Development Bank. E che dire dei Tanga Bonds emessi dalla UN Development Bank? Nessuna delle grandi banche italiane è interessata?
L’approccio territoriale, addirittura localistico, sta prendendo piede su scala globale – non è affatto un paradosso!- nella gestione delle risorse idriche e nell’innovazione tecnologica che riguarda, ad esempio, la desalinizzazione dell’acque marine attorno alle coastal cities, la digitalizzazione della gestione distributiva tra bacini e fiumi, così come della depurazione e del riuso delle acque di scarico, il data sharing sulle emergenze climatiche, sulla misurazione dei livelli di Co2 negli oceani, sulla protezione della biodiversità marina e terrestre.
Altro tema al centro delle discussioni in corso è appunto il data sharing, cioè l’approntamento e lo sviluppo di piattaforme trans-frontaliere capaci di generare piani d’azione condivisi in aree e bacini idrici sotto competenze nazionali diverse e separate, fattore determinante per una gestione realmente integrata delle risorse idriche. Otto paesi dell’Amazonia e numerose comunità a cavallo della Loira e della Bretagna ne stanno già facendo ampio uso coinvolgendo, in questo ultimo caso, oltre 2000 partners.
I ruoli in cui l’Italia potrebbe eccellere
L’aspetto forse più delicato, ma che potrebbe dare all’Italia un ruolo di primo piano nel Mediterraneo ‘allargato’, è come interconnettere e integrare dati globali a reti locali allo scopo di generare valore e capacità decisionali per le realtà territoriali che affrontano, altrimenti isolate tra loro, le emergenze idriche e le opportunità di distribuzione e trattamento dell’acqua. Forse anche avviando in questo modo un processo di ri-aggregazione delle autorità, troppe, che oggi sono preposte alla gestione delle risorse idriche. L’approccio olistico che emerge come unico possibile nell’affrontare fattori di crisi e opportunità legate all’economia dell’acqua riguarda sempre di più in molte aree regionali il nexus industria-edilizia-agricoltura oppure il nexus energia-acqua-cibo oppure il nexus banche-assicurazioni-bilanci pubblici.
Ma in questi incontri a livello internazionale sta assumendo una posizione centrale un tema del quale l’Italia è potenzialmente portatrice di grandi idee e proposte. Si tratta della pressoché totale assenza di un piano giuridico condiviso che permetta non soltanto di affrontare la tragedia dei diritti umani all’acqua, che al giorno d’oggi scatena innumerevoli conflitti di frontiera e spinge enormi ondate migratorie, ma che a livello corporate consentirebbe di gettare le basi per forme di collaborazione e di partnership assolutamente necessarie se vogliamo diffondere i benefici delle grandi innovazioni tecnologiche attraverso accordi transfrontalieri pubblico-privato.
Infine, e qui credo davvero che l’Italia possa e debba giocare un ruolo di prima linea, sta divenendo determinante la ‘cultura dell’acqua’, non soltanto promuovendo la crescita di competenze tecniche e professionali nei settori idrici, ma portando le nuove generazioni in un processo di educazione ecologica nel quale l’acqua è al centro del rapporto tra Uomo e Natura, recuperandone la profonda memoria storica, oserei dire memoria biblica, per connetterla alle radici dell’innovazione e della sostenibilità futura. A Bali, dove l’Italia mancava, si è parlato della opportunità di rilanciare il dialogo inter-religioso tra le grandi comunità islamiche, cristiane, cattoliche, indù del Mondo nel rapporto tra scienza, acqua e essere umano. Può sembrare un paradosso, ma non lo è.