C’è un solo modo per evitare che la vicenda dell’Ilva di Taranto finisca in una tragedia economica, sociale ed ambientale di immani proporzioni ed è quella di erigere un MURO INVALICABILE fra la vicenda giudiziaria (che ora è nelle mani del Tribunale e non più in quelle della Procura) e la gestione industriale e produttiva dello stabilimento (che è nelle mani del Governo).
Il cortocircuito fra Magistrature ed Industria si è prodotto perché la Procura di Taranto ha arbitrariamente varcato questo confine. Alla base della sua clamorosa iniziativa non vi era la denuncia da parte delle Autorità competenti preposte alla tutela dell’ambiente e della Salute pubblica della violazione da parte dell’Ilva delle normative ambientali. Nè tanto meno vi era la proclamazione da parte di queste autorità di uno stato di calamità ambientale tale da richiedere la cessazione immediata della attività produttiva. Vi erano invece denunce da parte di gruppi privati e alcune perizie di parte (per altro mai sottoposte a contraddittorio) sulla base delle quali la Procura ha maturato la convinzioni di essere in presenza di un disastro ambientale originato dalla attività del centro siderurgico e ha ritenuto che questo disastro potesse essere bloccato soltanto fermando l’attività produttiva. La Procura, cioè, non si è posta il problema di un piano di bonifica, ne quello delle misure da adottare per ridurre le emissioni e neppure quello delle eventuali innovazioni tecnologiche da apportare al ciclo produttivo . Non si è nemmeno proposta di richiedere modifiche ai protocolli ambientali prescritti dai Ministeri e dalle Autorità competenti cui l’azienda era già sottoposta e ai quali cercava di attenersi. Nulla di tutto questo. La Procura ha mirato dritto allo scopo e, anticipando l’esito eventuale del processo, ha intimato di chiudere l’impianto e di cessare l’attività produttiva. Soltanto l’intervento del governo e successivamente quello della Corte Costituzionale ha impedito il disastro. Ciò nonostante la Procura ha proseguito nella sua azione di ostacolo alla attività produttiva prima sequestrando i coils pronti per le vendite (provocando cosi un danno per milioni e milioni di euro), poi bloccando i fondi che servivano per alimentare il ciclo produttivo e da ultimo rinnovando la richiesta di chiusura del forno 3 con una motivazione, questa volta più comprensibile (l’incidente mortale), ma non per questo meno sbagliata.
La vicenda di Taranto, comunque la si voglia giudicare, conferma che l’Italia e ancora lungi dall’essere un paese normale. L’acciaio si produce in tutto il mondo. Esistono protocolli, procedure e standard codificati a livello nazionale ed internazionale. Esistono Autorità indipendenti, Agenzie e Organismi nazionali ed internazionali che sovraintendono al rispetto di queste regole le quali tutelano la salute pubblica e la sicurezza sul lavoro non meno della concorrenza leale. Se qualche impresa viola queste regole le Autorità competenti intervengono e impongono sanzioni che possano arrivare sino alla chiusura degli impianti. Se sono stati commessi dei reati l’Autorità provvede a segnalarli alla Magistratura la quale è tenuta procedere. Cosi va il mondo. La Magistratura non può sostituirsi a queste Autorità, al governo o al Parlamento. Non può ess ere Lei a decidere se chiudere o meno un impianto. Deve quanto meno confrontarsi con chi ha la responsabilità della salute e della sicurezza pubblica e poi eventualmente procedere anche contro quella Autorità se la ritiene inadempiente . Cosi come non può dire ai medici come curare i loro pazienti e se e quando staccare la spina ad in malato terminale. La divisione dei poteri funziona se c’è il rigoroso rispetto dei propri limiti. In caso contrario l’ equilibrio salta ed è esattamente questo quello che è successo a Taranto e il prezzo da pagare , se non si ripristina un nuovo equilibrio, potrebbe davvero essere molto ma molto salato.
Per Taranto esiste una e una sola soluzione possibile ed è quella di proseguire nello sforzo per risanare l’ambiente, ridurre le emissioni inquinanti ,rispettare le prescrizioni previste dal protocollo ambientale e di farlo SENZA cessare l’attività ma, al contrario, riportandola a livelli che le consentano di generare valore e non perdite. Solo se produce lo stabilimento può risanarsi, innovarsi tecnologicamente, divenire più efficiente e produttivo. Solo cosi può sperare di trovare investitori disposti a rilevarlo dalle mani di una procedura che, comunque, prima o poi dovrà finire. Se invece lo stabilimento dovesse cessare di produrr come molti auspicano allora il destino di Taranto (e della siderurgia italiana) sarebbe segnato. Non solo non si troverebbe una soluzione accettabile per i suoi 15000 dipendenti e per l’indotto ( soluzione che non esiste ) ma nessuno, dicasi NESSUNO, avrebbe mai le risorse per riqualificare un’area di quelle dimensioni. Non c’è riuscita Bagnoli, non ci riuscirebbe neppure Taranto! Taranto ritornerebbe ad una economia basata sull’olio e sulle cozze ma, al contrario del passato, dovrebbe convivere con le rovine della sua industria principale e con un porto che a quel punto servirebbe davvero a poco. Sarebbe una citta impoverita e assistita. Una fine che non merita.