Tra pochi giorni Franco Bernabè assumerà la presidenza delle Acciaierie d’Italia, il nuovo nome dell’Ilva e dei suoi stabilimenti di Taranto, Genova, Novi e Marghera. Una buona notizia per i contribuenti italiani, chiamati a sborsare di tasca loro un miliardo di euro, in due trance, per salvare l’unico impianto italiano a ciclo continuo e assecondare l’uscita di ArcelorMittal dalla maggioranza azionaria. La storia professionale di Franco Bernabè depone a garanzia che quei soldi saranno rispettati e difesi e che si punterà ad una decisa svolta dei destini del più grande complesso siderurgico d’Europa. Ma quella storia non sarà sufficiente da sola per raggiungere gli obiettivi di una vita economica autonoma del complesso industriale, della sua trasformazione tecnologica, dei necessari investimenti impiantistici ed ambientali se non si accompagnerà a contemporanee misure strategiche e gestionali. Se qualcuno gli suggerisce di presiedere l’ex Ilva con riunioni o report, come se ci si trovasse di fronte a un’azienda normale, rilegga il fallimento del complesso siderurgico di Piombino, dove gli eredi di Luigi Lucchini hanno dissipato l’impero dell’acciaio bresciano appunto perché sommersi dai report e dai dossier.
Nessuno pretende un presidente messo a giornata davanti ai forni o a visionare bramme incandescenti e rotoli di coils. Ma il consiglio di un vecchio siderurgico è quello di farlo spesso, magari capitando in qualche stabilimento senza preavviso; altrimenti molte cose gli sfuggiranno e non avrà il polso dei reparti e degli uomini di prima fila. Si dovrà accontentare dei diagrammi che il vertice gerarchico deciderà di sottoporgli quando e come vorrà. Per inciso, un vertice nominato da pochi giorni, magari bravissimo, ma certamente indifferente allo stile dovuto ad un nuovo presidente in arrivo. Un vertice legato ad un amministratore delegato scelto e voluto dai soci anglo-francesi che da molti mesi si mostrano desiderosi di andarsene al più presto, pagando dazio il meno possibile.
Ecco il primo fronte interno: disporre di una catena di comando motivata e identificata con le strategie presidenziali, immersa nella cultura del “conto economico”, senza il quale nessuna acciaieria del mondo, grande o piccola che sia, può vivere di vita propria.
Secondo fronte interno: avere garanzie, ben fondate, dalle istituzioni sulla possibilità rilanciare l’azienda e investire nella riconversione per un periodo non inferiore ai 5-8 anni senza dover incorrere in interventi della magistratura, che negli ultimi anni si sono dipanati in modo contradditorio, molte volte inopportuno, certamente dannoso. Non è sufficiente “scudo e manleva” per l’alta dirigenza. I fornitori ed i clienti non se ne faranno nulla. Vogliono certezze nella continuità delle forniture e degli ordini di un ciclo produttivo basato su quantità, volumi, prezzi e mercati misurati da contratti di medio e lungo periodo.
Terzo fronte interno: disporre, da subito, in modo diretto del controllo e del monitoraggio della gestione, delle vendite, degli acquisti, delle rappresentanze e della distribuzione dei prodotti in un periodo delicatissimo, dai risvolti anche imprevisti, come quello che ci sta davanti della fuoriuscita dei soci anglo-francesi i cui impianti in Europa (soprattutto quello francese di Fosse) esercitano una concorrenzialità sul ricco mercato europeo e su quello di grande potenzialità del Mediterraneo. Acciaierie d’Italia non può essere presa nella morsa del socio di minoranza e di una aggressiva siderurgia turca che si affianca a quella ancor più aggressiva cinese. La recente altalena all’insù dei prezzi delle materie prime e degli aggi dovrebbero insegnare.
Quarto fronte interno: l’evoluzione dei mercati delle economie avanzate del dopo Covid esigono una aggressività commerciale che l’ex Ilva ha perduto dopo la forzata uscita dalla proprietà dei Riva. Bisogna investire in uomini e mezzi commerciali capaci di inserirsi rapidamente nei settori di consumo dell’acciaio. Non significa solo puntare ad una questione di prezzo. Occorre credibilità, competenza, relazioni, progetti in comune. Una tradizione che l’Ilva aveva dentro la propria rete commerciale. Pensiamo ai successi di vendita negli Usa e in Canada degli anni ‘60. Domandare a Bruno Bolfo che allora guidava l’acciaio italiano sui mercati di quei Paesi.
Quinto fronte interno: prepararsi alla stagione delle grandi infrastrutture che attraverseranno l’Europa e il mondo e a quella della crescente “verticalità” delle architetture urbane. Tutte cose che vogliono dire acciaio. Che dire delle rotaie di Piombino? Con la Voestalpine austriaca quella toscana è ormai l’unica fabbrica produttrice di rotaie d’Europa; una produzione lasciata isolata da Jindal in un sito privo d’acciaio di base.
Ma tra i fronti che attendono Acciaierie d’Italia ve ne sono anche di esterni che risultano essere dei veri nodi.
Primo nodo: riaprire il rapporto col territorio nella chiarezza degli obiettivi. In primo luogo con gli abitanti del quartiere Tamburi. La copertura dei parchi minerari ed i provvedimenti tecnici messo in atto nell’ultimo periodo non possono essere considerati esaustivi rispetto alle attese e ai disagi della gente del Tamburi. In dimensioni diverse la Sea di Giorgio Fossa a Malpensa rispose alle proteste dei quartieri limitrofi alle piste di decollo con una politica di offerta programmata di trasferimenti in nuovi alloggi. Il processo durato alcuni anni ha dato risultati assai significativi se e vero come e vero che a lamentarsi dei voli, alla fine, era rimasta la sola Giulia Maria Crespi e le sue stalle. A Taranto, da subito, uno sforzo nazionale potrà sostenere e sollecitare l’adesione positiva degli enti locali e delle istituzioni che hanno nell’edilizia popolare la loro missione principale. Per qualche anno va privilegiato l’investimento abitativo a Taranto e agevolato, in tutti i modi, l’acquisto di una nuova casa lontana dagli impianti.
Una buona programmazione ed un buon lavoro di comunicazione renderanno possibile, in meno di cinque anni, un trasferimento significativo della gente del quartiere.
Secondo nodo. Va ricostruita una lobby dell’acciaio italiano. Acciaierie d’Italia sono le sole produttrici di prodotti piani e non hanno conflitti di interesse con i siderurgici privati italiani. La stagione della rivalità storica, produttiva e commerciale, con l’Ilva pubblica è da tempo alle spalle. Non esiste quindi nessuna ragione per non vedere una forte unità di interessi comuni dell’acciaio italiano. Al margine di alcune produzioni con Taranto rimane la sola Arvedi di Cremona, ma la sua proprietà ha sempre dimostrato di volersi raccordare con l’ex Ilva, forte della propria specificità impiantistica e tecnologica. La lobby della siderurgia italiana, pubblica e privata, ha vinto storicamente la battaglia europea dell’acciaio, prima crescendo e allargandosi sui mercati internazionali rispetto alle originarie vallate lombarde e piemontesi. Poi, con Davignon, i privati uscirono vincenti dalla sfida della politica di Giovanni Gambardella: quella dell’Ilva imperiale pigliatutto! Dopo quegli anni, la forza associativa degli industriali siderurgici italiani si è infiacchita, quasi venendo meno. Oggi su quel fronte industriale si è fatta le ossa una nuova generazione imprenditoriale che ha dimostrato in molti casi di essere buona erede della storia dei padri. Franco Bernabé guardi a questi con fiducia. Loro lo meritano e lui ne avrà beneficio.
Da siderurgico (più vecchio dell’amico Ugo ) sono completamente d’accordo con la sua lucida analisi.
Chissà se, al fine della resa del testo, era proprio vitale parlare di Giulia Maria Crespi (Fondatrice del FAI) in questo modo sprezzante.
Bravo Ugo Calzoni, Arnaldino doc delle classi di ferro 58/63 o giù di lì….. Siamo stagionati ..ma il ciriveddro funziona
Ciao
Rogelia Giordano Lanza alla quale tiravi le trecce rincorrendola nel cortile dell’Arnaldo!