Il libro appena uscito “L’italiano e i giovani. Come scusa? Non ti followo” (goWare/Accademia della Crusca, a cura di Annalisa Nesi) in edizione digitale e a stampa fa il punto sul linguaggio giovanile contemporaneo ed è una miniera di preziose nuove informazioni. Quello che emerge nei contributi dei vari studiosi che hanno affrontato la questione da diverse prospettive è soprattutto la massiccia anglicizzazione.
L’interferenza dell’inglese
L’interferenza dell’inglese e la presenza degli anglicismi non è certo una novità in questo ambito, ma se si quantifica il fenomeno sembra essere di un ordine di grandezza superiore rispetto al linguaggio dei giovani degli scorsi decenni.
La cultura statunitense e il mito americano che si è affacciato nella società italiana a partire dagli Anni Cinquanta , l’american dream e l’american style , ha permeato sin da subito anche il “giovanilese” e si è allargato di generazione in generazione portando con sé insieme alle forti suggestioni letterarie, sociali e soprattutto musicali, televisive e cinematografiche, anche quelle linguistiche.
L’avvento di internet e la globalizzazione hanno enormemente ampliato questo fenomeno e negli Anni Novanta qualcuno ha cominciato a parlare di “bit generation”, con un gioco di parole che partiva da dove tutto aveva avuto inizio: la beat generation, seguita dall’esercito del surf degli Anni Sessanta, tra jeans, hippy, freak e fricchettoni degli Anni Settanta, o gli yuppies degli Anni Ottanta.
Qualche anno fa, tuttavia, tra le dieci parole simbolo scelte dal linguista Gianluca Lauta “Per una storia dei linguaggi giovanili in Italia” (cfr. Il Lungo Sessantotto) figuravano voci come ciospo, pomiciare, spinello, giusto in una nuova accezione, ma non era presente nemmeno un anglicismo.
Le neologie in lingua inglese
Oggi lo scenario è completamente mutato e Michele Cortelazzo (“Una nuova fase della storia del lessico giovanile”) nell’individuare sette fasi nella storia del linguaggio giovanile, arrivato ai giorni, nostri include nove esempi di neologie che non sono più italiane, ma esclusivamente in lingua inglese (cringe, crush, millennial, pov, trend) o mutuate dall’inglese attraverso uno scorciamento (bando, cioè casa abbandonata da abandoned house) o frutto di ibridazioni (droppare, floppare, stitchare).
Quello che il linguista nota è che, mentre nella seconda metà del Novecento la lingua dei giovani era caratterizzata da una forte componente creativa, negli ultimi dieci anni si è verificata un’interruzione di questo processo e oggi “ha perso gran parte della varietà (sociale e geografica) che lo caratterizzava per imboccare vie più standardizzate e basate su modelli trasmessi attraverso i social network”.
La stessa “stagnazione” è ribadita da Luca Bellone (“Dalla strada a TikTok: sulle tracce del linguaggio giovanile contemporaneo”) che nel periodo 2018–2022 nota una “sensibile riduzione del processo di neoconiazione di parole ed espressioni del cosiddetto «strato gergale innovante ed effimero»”.
Il gergo dei ragazzi, infatti, è di solito caratterizzato dall’essere passeggero, perché le nuove generazioni creano nuove parole rispetto alle precedenti e solitamente, raggiunta l’età adulta, le abbandonano, anche se una piccola parte del lessico giovanile sopravvive e può passare alle generazioni successive o uscire dal suo ambito per entrare nella lingua italiana.
Recentemente, al contrario, “si assiste semmai a un processo di consolidamento di voci ed espressioni dello strato gergale tradizionale (il linguaggio giovanile di lunga durata)”.
La lingua riflette i forti mutamenti sociali
Se si riflette sulle ragioni di questi cambiamenti, bisogna prendere atto che la lingua, anche dei giovani, è l’effetto di mutamenti sociali altrettanto forti.
L’aggregazione giovanile sino agli anni Ottanta era fortemente legata alla socialità fisica e al territorio: dai movimenti studenteschi politicizzati alle identificazioni post-ideologiche connesse ai luoghi di ritrovo o ad altri elementi culturali e musicali (paninari, punk, moods, dark). Ma con il passaggio dalla socialità all’epoca dei social i punti di riferimento sono diventati quelli di una virtualità de-territorializzata dove sempre più spesso i centri di irradiazione della lingua non sono più in Italia, ma provengono da oltreoceano e da una globalizzazione che tende a coincidere con un’americanizzazione dettata dalla cultura dominante che ne è protagonista. Non è un caso che nella stagnazione del linguaggio giovanile venga a mancare la componente delle voci dialettali, un tempo molto forte, ma oggi molto modesta. Se in passato, quando la leva era obbligatoria, dal gergo militare della “naia” arrivavano espressioni come spina o burba, oggi lo stesso concetto, nell’ambito dei videogiochi, si esprime attraverso l’inglese “niubbo”, adattamento di “newbie (forse da new boy ‘novellino, ultimo arrivato’, usato in origine in ambito militare)”, scrive Bellone, che viene declinato anche in altre varianti (newb, nabbo, niubie, niubbone, nabbone, nabbazzo).
L’ambiente virtuale è ciò che nutre e forma i giovani ed è pensato e realizzato negli Stati Uniti, talvolta con traduzioni terminologiche parziali, talvolta riproposto direttamente in inglese.
Gli spazi dei social media
Videogiochi (chiamati game e popolati da player e gamer), video musicali, serie televisive, programmi e film (dai titoli ormai prevalentemente in inglese), piattaforme sociali e informatiche, “meme” virali, pubblicità e merci anglofone: questi sono i punti di riferimento prevalenti con cui i giovani trascorrono ore e ore. Bellone riporta qualche statistica: “Oltre il 98% degli informatori di età compresa tra i 16 e i 20 anni è quotidianamente connesso e dichiara di trascorrere almeno 5 ore al giorno all’interno degli spazi offerti dai social network”. I sistemi più utilizzati sono “WhatsApp e Instagram (la loro percentuale di impiego supera abbondantemente il 90% del campione), seguiti da TikTok (usato dal 75% circa dei ragazzi) e da YouTube (poco meno del 60%).”
La lingua risente di questo nuovo contesto che sovraespone l’inglese e gli effetti vanno ormai ben oltre le semplici categorie del “prestito linguistico”, perché accanto agli anglicismi integrali si diffondono le ibridazioni, che in parte sono un processo di adattamento (l’appellativo di “bro”, scorciamento di brother) che prende forma soprattutto in un’infinità di radici inglesi che diventano verbi declinati seguendo la prima coniugazione (friendzonare, killare, matchare, nerdare, shottare, startare, streammare).
La nascita di una neolingua: nè italiano, nè inglese
Queste neoformazioni non appartengono più né all’italiano (di cui spezzano le norme fonologiche e ortografiche storiche) né all’inglese, ma costituiscono una neolingua che sembra tendere a un ibrido chiamato itanglese. E infatti cominciano a spuntare anche le prime enunciazioni mistilingue.
Kevin De Vecchis (“Come dicono i giovani. La percezione del linguaggio giovanile in rete”) nota l’inserzione di espressioni fisse “di solito citazioni estratte da canzoni, film, programmi televisivi e video”, come fight me, prove me I’m wrong, what a time to be alive) “o anche sintagmi verbali come per es. is over ‘è finito’, che viene unito a diversi soggetti.”
A contribuire a questa fortissima anglicizzazione c’è poi la maggiore conoscenza della lingua inglese rispetto alle generazioni precedenti, nota lo studioso.
L’inglese, che un tempo era una scelta, da anni è diventato un obbligo nella scuola e il monolinguismo a base inglese è sostenuto dai programmi scolastici di tutta Europa, mentre i progetti nati all’insegna del plurilinguismo per favorire l’apprendimento delle lingue, al plurale, si sono di fatto trasformati in strumenti di insegnamento nel solo inglese, dall’Erasmus al CLIL (non a caso acronimo di Content and Language Integrated Learning).
Il risultato è che se un tempo i giovani italiani e spagnoli comunicavano tra loro nelle rispettive lingue, che hanno un forte grado di intercomprensibilità, oggi tendono a farlo in inglese.
L’anglicizzazione dell’italiano
Va detto che ciò che avviene in modo molto evidente nel nuovo linguaggio giovanile si inserisce in un’anglicizzazione più generale, un fenomeno sociale che riguarda l’italiano nella sua interezza.
Stando alle marche dei dizionari, il numero degli anglicismi non adattati è più che raddoppiato negli ultimi trent’anni. Il primo dizionario elettronico che permetteva ricerche automatiche, il Devoto Oli del 1990, registrava 1.600 anglicismi crudi, mentre nell’edizione del 2020 se ne contano più di 4.000. La prima versione dello Zingarelli digitale, nel 1995, ne includeva poco più di 1.800 e oggi sono più di 3.000, ma lo scarto tra i due vocabolari è dovuto solo ai diversi criteri di classificazione: il Devoto Oli tende a fare di ogni locuzione un lemma a sé, mentre lo Zingarelli tende a registrarle all’interno della parola madre, per cui marketing mix — per esempio — si trova sotto la voce principale marketing e non viene conteggiato dalle ricerche automatiche. Ma affinando le ricerche, i numeri e le voci delle due opere non sono poi molto diversi tra loro.
Dalla quantificazione dei neologismi del nuovo Millennio, in entrambi i dizionari emerge che più della metà delle nuove parole è in inglese crudo o comunque proviene dall’inglese.
E Luca Serianni (Il lessico, vol. 2 della collana Le parole dell’italiano, Rcs Corriere della Sera, Milano 6/1/2020, pp. 53–54) ha notato che analizzando i neologismi italiani, spicca l’assenza di parole primitive: sono tutte derivate o composte.
Ciò che è nuovo è espresso in inglese: la stagnazione del linguaggio giovanile, perciò, va di pari passo con quella dell’italiano “ufficiale” e i cambiamenti del giovanilese non devono stupire, sono solo lo specchio di un fenomeno ben più ampio.
Tecnologia e lingua
Negli anni Sessanta Pier Paolo Pasolini, nel salutare l’avvenuta unificazione linguistica del nostro Paese, notava con acume che il nuovo italiano non era più quello letterario, ma quello tecnologizzato che proveniva soprattutto dal Nord.
Oggi, però, la tecnologia e la lingua del lavoro si esprimono con una terminologia e dei concetti sempre più in inglese e più in generale anche la lingua della nostra classe dirigente (dalla scienza alla formazione, dalla politica al giornalismo, dalla cultura allo sport ) si distingue, si identifica e si eleva attraverso gli anglicismi, con gli stessi meccanismi sociolinguistici che segnano l’anglofilia giovanile.
Persino Tullio De Mauro, nel 2016, ha rivisto i suoi giudizi che si opponevano all’allarme del “Morbus anglicus” di Arrigo Castellani, constatando che siamo ormai in presenza di uno “tsunami anglicus” che è mondiale, anche se in Italia è particolarmente forte.
Un cambio di paradigma culturale
Se i “nativi halloweeniani” sono stati formati dal potere morbido di film, serie tv, fumetti o videogiochi ambientati in una società che è stata interiorizzata e che emulano in modo naturale, la loro anglofilia espressiva risente di questo contesto.
Ma ciò non vale solo per i millennial(s) e la gen Z, anche i boomer e la generazione X si sono formati sui modelli d’oltreoceano e ricorrono ai jobs act, ai familly day, ai lockdown o ai green pass.
E il fatto che per identificarci come generazioni usiamo ormai delle categorie concepite negli Usa (una volta si parlava per esempio dei sessantottini e gli anni Ottanta erano quelli del riflusso ) e le esprimiamo preferibilmente o solamente nella loro lingua è molto significativo per comprendere il cambio di paradigma culturale che è in atto.
Antonio Zoppetti, laureato in filosofia, nel 1993 ha curato il riversamento in cd-rom del primo dizionario digitale in commercio in Italia: il Devoto Oli. Sull’interferenza dell’inglese ha pubblicato: “L’etichettario, Dizionario di alternative italiane a 1800 parole inglesi (Franco Cesati 2018)”; “Diciamolo in italiano. Gli abusi dell’inglese nel lessico dell’Italia e incolla (Hoepli 2017)”.
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Un articolo sugli anglicismi inutili... pieni di anglicismi inutili.