Iniziava 67 anni fa l’era del maresciallo Josip Broz, meglio noto come Tito, che il 13 gennaio del 1953 divenne presidente della Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia. Prese il posto di Ivan Ribar e rimase in carica per quasi 30 anni, fino al 4 maggio 1980, giorno della sua morte.
Prima di salire al potere, Tito era stato cofondatore del Partito Comunista Jugoslavo (KPJ) nel 1920, all’età di 28 anni.
Durante la Seconda guerra mondiale, il leader comunista condusse la resistenza partigiana contro l’occupazione tedesca, contando anche sul sostegno degli Alleati.
Finita la guerra, Tito vinse le elezioni dell’11 novembre 1945, in cui si presentò alla guida del Fronte nazionale. Fu quindi nominato primo ministro e ministro degli Esteri.
In questo periodo le forze jugoslave e l’Armata Rossa furono coinvolte nella deportazione e nell’uccisione di massa delle popolazioni di etnia tedesca, giudicate collaborazioniste. La popolazione italiana dell’Istria, considerata sommariamente come fascista, subì i massacri delle foibe.
Sotto la presidenza di Tito, la Jugoslavia si trasformò in uno stato federale governato da un regime comunista ma molto distante dal modello sovietico, sul versante economico – dove inaugurò l’autogestione delle fabbriche -come su quello dei rapporti con le autorità religiose e nella politica estera. La Repubblica balcanica ruppe con l’Urss e si ritirò dal Patto di Varsavia, mettendosi alla testa dei cosiddetti Paesi “non allineati”, ossia gli Stati formalmente equidistanti dai due blocchi contrapposti durante la guerra fredda.
Si può giudicare come si vuole la figura politica del maresciallo Tito ma bisogna riconoscere che riuscì a tenere unito un Paese dalle mille etnie: dopo di lui il diluvio.