Accadde il 19 marzo 2002. Marco Biagi, professore ordinario di diritto del lavoro nella Facoltà di Economia dell’Ateneo di Modena, quella sera, si era fermato più a lungo del solito nel suo studio e aveva avvertito i famigliari a Bologna che sarebbe arrivato più tardi a cena. Giunto alla stazione aveva trovato subito il treno che in una ventina di minuti lo aveva portato a Bologna, dove l’attendeva una delle tante biciclette che Marco usava per muoversi più rapidamente nel traffico (spesso senza tener conto della segnaletica stradale), ma soprattutto per “fare del movimento” e conservare il fisico longilineo che Madre Natura gli aveva donato e contenere quel tasso di colesterolo che era sempre più elevato del normale, nonostante uno stile di vita molto rigoroso.
Durante la bella stagione, Biagi si travestiva da marziano (così la moglie Marina descriveva la sua attrezzatura sportiva) e, inforcata la bicicletta da corsa, si intruppava con la squadra di Romano Prodi in un saliscendi per le colline bolognesi, spingendosi, a volte, persino sui tornanti della Futa. In tempo però per recarsi allo Stadio nel primo pomeriggio, insieme ai figli, a tifare Bologna, dove si incontrava con Pierferdinando Casini ed altri concittadini più o meno illustri. Nella sera di quel 19 marzo – una giornata che conservava pur sempre la nomea della Festa dei papà, ancorchè fosse stata abolita diversi anni prima – Marco pedalava senza sapere che ad aspettarlo c’era la morte. Il mio amico aveva messo in conto questa possibilità. E la temeva, perché sentiva intorno a sé un clima d’odio tanto più esteso e risoluto quanto più era immotivato.
In tale contesto aveva ricevuto delle esplicite minacce, come se dovesse prima o poi espiare chissà quali delitti commessi ai danni dei lavoratori, lui, consulente del ministro del Lavoro, coordinatore del gruppo che aveva redatto Il Libro Bianco, curatore in sede tecnica del disegno di legge delega che poi fu battezzato col suo nome. Nei confronti del lavoro del professore le manifestazioni di un normale dissenso di merito, per altro legittimo ed utile, erano contornate da un clima contestuale di sgradevoli riprovazioni etiche che sfociavano in una sostanziale accusa di tradimento. Un’accusa che si può sopportare solo se si possiede una grande forza morale, perché la sinistra è implacabile con chi, a suo esclusivo giudizio, tradisce la regola fondamentale dell’appartenenza.
Biagi, dunque, sentiva sulla pelle questo clima ostile ed era molto preoccupato per la decisione del Comitato per la sicurezza di privarlo della scorta. Anche su sollecitazione della famiglia si era rivolto a chiunque potesse aiutarlo per riottenere quella tutela minima che gli avrebbe salvato la vita. Non a caso si seppe, dopo la sua uccisione e l’arresto dei suoi assassini, che il gruppo terrorista si era accertato che il professore non fosse protetto, perché ritenevano di non essere in condizione di reggere un eventuale conflitto a fuoco con un carabiniere o un poliziotto armato. C’è una sua lettera a Pierferdinando Casini, allora presidente della Camera, che è la prova di quello stato di angoscia.
“Devo chiederti aiuto per la mia sicurezza personale – scriveva il 15 luglio del 2001 Marco Biagi alla terza carica dello Stato con il quale condivideva le medesime radici familiari a Lizzano in Belvedere sull’Appennino emiliano -. Da un anno sono sottoposto al regime di tutela-scorta. Poiché collaboro con la Giunta Albertini a Milano e sono l’estensore tecnico del “Patto per il lavoro di Milano”, la Digos di varie città mi ha preso in consegna contro il rischio di possibili attacchi terroristici. Il timore è che si ripeta come il caso D’Antona. Ti lascio immaginare come possa vivere tranquilla la mia famiglia. Ora collaboro anche con Confindustria e CISL, nonché con lo stesso Ministro Maroni, realizzando sul piano tecnico una strategia di flessibilità sul lavoro. Sono molto preoccupato perché gli avversari (Cofferati in primo luogo) criminalizzano la mia figura”.
“Per ragioni che ignoro a Roma da dieci giorni è stata revocata la scorta-tutela e tutte le volte che vengo nella capitale sono molto allarmato. Ti chiederei la cortesia di fare il possibile affinché, continuando il mio impegno tecnico, di cui sopra, io venga tutelato a Roma come a Milano, Bologna, Modena e in genere in tutta Italia. Mi piacerebbe parlarti dieci minuti: se la tua segretaria ci potesse organizzare un incontro anche brevissimo ti sarei molto grato. Ti prego di non fare parola con Mamma (che delicatezza usare la maiuscola per indicare la madre del presidente! ndr) della questione confidenziale che ti ho prospettato – concludeva Biagi – perché mia mamma ne è all’oscuro”.
Alcuni mesi dopo Biagi tornava alla carica con il ministro Roberto Maroni di cui era stretto collaboratore: “Desidero informarLa – scriveva il professore – che oggi ho ricevuto un’altra telefonata minatoria da un anonimo che asseriva perfino di essere a conoscenza dei miei viaggi a Roma senza protezione alcuna, ancora una volta cercando di intimorirmi in relazione alle mie attività di progettazione svolte su incarico Suo e del Sottosegretario Sacconi. Desidero assicurarLa – aggiungeva – che non intendo desistere dalla mia attività di collaborazione con Lei e con il Ministero. Nel contempo vorrei rappresentarLe tutta l’urgenza affinché vengano presi provvedimenti adeguati. Invio la lettera anche al Prefetto di Bologna in quanto tali telefonate si susseguono in questa città dove risiedo. Qualora dovesse malauguratamente occorrermi qualcosa, desidero si sappia che avevo informato inutilmente le autorità di queste ripetute telefonate minatorie senza che venissero presi provvedimenti conseguenti”.
Il contenuto di questa lettera è drammatico, perché è scritta da un uomo disperato, perseguitato da telefonate anonime che ne minacciavano l’esistenza. Ma era pur sempre un militante che non abbandona il suo posto di combattimento. Tuttavia, la risposta che veniva data dalle autorità, allo stesso Presidente Casini, era la solita: non vi sono pericoli. Eppure, ricordo benissimo che il venerdì precedente la rivista Panorama aveva anticipato un rapporto dei Servizi in cui veniva ipotizzato un probabile attentato contro persone che svolgevano dei ruoli chiave nella formazione delle politiche del governo. Era in pratica un identikit di Marco Biagi, da tempo al centro di durissime polemiche per il suo apporto professionale: polemiche a cui rispondeva come un “Rinaldo in capo”, confutando in prima persona le accuse degli avversari, tra i quali c’erano anche amici, colleghi, compagni di studi.
Che dire, diciotto anni dopo? In questo momento il mondo di Biagi – che è anche il mio – è sconvolto da una pandemia ossessiva e devastante, da cui usciremo – se ne usciremo – profondamente cambiati. Le sirene di questi giorni prefigurano che diventeremo migliori. Purtroppo non sarà così. A noi – fino a quando sarà possibile – tocca la missione che svolsero i frati Benedettini nel Medioevo. Diventare gli amanuensi della memoria delle persone che ci furono care.