A Reggio Emilia, il 7 luglio del 1960, durante una manifestazione promossa dalla Camera del Lavoro e dai partiti di sinistra contro il governo Tambroni scoppiarono dei tumulti e le Forze dell’ordine aprirono il fuoco. Furono sparati 182 colpi di mitra, 14 di moschetto e 39 di pistola, e una guardia di PS dichiarò di aver perduto 7 colpi di pistola. Sedici furono i feriti ufficiali, ovvero quelli portati in ospedale perché ritenuti in pericolo di vita, ma molti altri preferirono curarsi clandestinamente, allo scopo di non farsi identificare.
Restarono sul terreno cinque morti tra i manifestanti: Ovidio Franchi, Afro Tondelli, Marino Serri, Emilio Reverberi e Lauro Farioli. Franchi e Farioli erano due ragazzi appena ventenni, gli altri erano persone adulte, che avevano partecipato alla Resistenza.
In quella giornata vi fu l’apice di alcune settimane di proteste, scioperi, scontri con la Polizia e i Carabinieri (vi fu persino una carica del reparto a cavallo a Porta S. Paolo a Roma) che culminarono, il giorno dopo l’eccidio, nello sciopero generale proclamato dalla Cgil che bloccò l’intero Paese. In quel tragico periodo della nostra storia molti episodi meriterebbero di un particolare “accadde oggi”; ma nella memoria collettiva s’imposero i moti di Reggio Emilia (anche grazie ad una canzone a loro dedicata di Fausto Amodei; la strage venne anche evocata in un film della saga di Don Camillo e Peppone).
La mobilitazione popolare fu innescata dalla decisione del Msi (il partito neofascista) di convocare dal 2 al 4 luglio il Congresso nazionale del partito a Genova (città partigiana, decorata della medaglia d’oro della Resistenza). Ma sullo sfondo stava la formazione del governo presieduto da Fernando Tambroni, un monocolore democristiano con il determinante appoggio esterno del Msi. Per fronteggiare le proteste, il presidente del Consiglio diede facoltà di aprire il fuoco in “situazioni di emergenza” e alla fine di quelle settimane drammatiche si contarono 11 morti e centinaia di feriti, tra cui quattro morti a Palermo, l’8 luglio, durante lo sciopero generale.
Quel giorno la città siciliana divenne teatro di una guerra contro civili inermi: Rosa La Barbera, una signora di 53 anni, morì mentre chiudeva la finestra di casa. In via Spinuzza la Polizia sparò ad Andrea Cangitano, diciannovenne operaio edile e dirigente sindacale e del partito comunista, mentre cercava di placare i manifestanti. Era una persona conosciuta, i testimoni dissero che fu ucciso apposta per punirlo. Giuseppe Malleo era un ragazzino, aveva 15 anni, morì in via Celso; Francesco Vella aveva 45 anni. Queste drammatiche conseguenze costrinsero alle dimissioni il governo Tambroni il 19 luglio.
E si aprì la prospettiva di un governo di centro sinistra che si realizzò – in forma organica – solo nel 1964, dopo l’apertura di un dialogo a distanza dei partiti storici del centrismo e della Dc con il Psi di Pietro Nenni. Un dialogo che iniziò proprio in quel tragico mese di luglio quando il Psi si astenne nel voto sul governo monocolore presieduto da Fanfani e formato dopo la caduta di Tambroni. Quest’ultimo, prima di divenire presidente del Consiglio, aveva ricoperto diversi incarichi di governo, il più importante dei quali fu il Ministero degli Interni dal 1955 al 1959. Personaggio controverso (si diceva che avesse una relazione extra coniugale, addirittura, con Sylva Koscina, una delle bellezze del cinema di allora) aveva ricevuto l’incarico dal presidente della Repubblica Giovanni Gronchi, a cui era legato sul piano politico.
Dopo che alla Camera (dove si era presentato con un monocolore Dc) aveva ottenuto la fiducia per pochissimi voti grazie all’appoggio del MSI (per questo tre ministri e un sottosegretario si erano dimessi) si vide nell’obbligo di rassegnare il mandato. Gronchi, dopo un tentativo fallito di Amintore Fanfani, respinse le dimissioni di Tambroni e lo mandò a sottoporsi al voto di fiducia del Senato (anche in questo caso, ottenuto di misura con l’appoggio del gruppo neofascista). Fernando Tambroni non si perse d’animo, adottò subito dei provvedimenti populisti (tra cui la riduzione del prezzo della benzina). Ma fu travolto dai gravi fatti di sangue a cui tentò di rispondere col pugno di ferro. Abbandonato dalla Dc, che non volle neppure ricandidarlo alle elezioni, morì nel 1963.
È giusto ricordare che prima delle sparatorie dei giorni di luglio (vi fu un morto anche a Catania), vi erano state proteste e manifestazioni a Genova, con uno sciopero il 30 giugno, durante il quale vi furono scontri violenti con le Forze dell’Ordine in piazza De Ferrari e nelle strade vicine. A guidare la protesta era Sandro Pertini, il deputato socialista che poi sarebbe diventato Capo dello Stato, forse il più amato dagli italiani.
Testimonianza personale: proprio in quei giorni ero impegnato nell’esame di maturità del liceo classico. Quell’esame era il più difficile della vita, non solo per il numero di compiti scritti, ma anche per gli orali a cui si portava il programma svolto nel triennio del liceo. Ricordo che un pomeriggio stavo studiando in terrazza nella mia Bologna e sentii degli squilli di tromba. Era il segnale della carica della Celere ad una manifestazione che si stava svolgendo ad un tiro di schioppo da casa mia. L’8 di luglio, il giorno dello sciopero generale, gli esami si svolsero regolarmente. Raggiunsi l’Istituto (non era lontano da dove abitativo) attraversando una città deserta ed entrai dal portone socchiuso come se dovessi partecipare ad una riunione riservata. Giorni dopo quando alla televisione fu trasmesso in diretta il dibattito alla Camera restai affascinato dall’oratoria di Pietro Nenni. Cominciò il suo discorso leggendo uno per uno i nomi dei caduti di Reggio Emilia, li affidò alla storia attraverso l’iscrizione nei verbali dell’Aula, con l’auspicio che episodi siffatti non dovessero mai più verificarsi in futuro.