Il 25 aprile del 1945 partì l’appello per l’insurrezione armata della città di Milano, sede del comando partigiano. Per questo motivo quella giornata fu scelta dal Comitato di Liberazione Nazionale come Festa della Liberazione. Questa Festa è sempre stata divisiva. E lo è ancora, anche se fu un Presidente della Camera (ex Pci), Luciano Violante, a ricordare nel suo discorso di insediamento quanti, soprattutto le donne, combatterono e morirono “dalla parte sbagliata’’.
Del resto, anche in Francia il giorno della vittoria alleata in Europa nella Seconda Guerra Mondiale o quello della liberazione di Parigi non hanno lo stesso valore unificante del 14 luglio 1789 quando venne presa la Bastiglia. Così negli Usa si festeggia il 4 luglio (la proclamazione dell’Indipendenza nel 1776) e non il 9 aprile, quando, nel 1865, si concluse, con la resa della Confederazione, la Guerra di Secessione, l’evento da cui ri-nacque la nazione americana.
Anzi, per superare la memoria di quel conflitto (in cui morirono più americani che in tutte le altre guerre) è dovuto trascorrere ben più di un secolo. In Italia, fin dall’immediato dopoguerra, è sempre stata ragguardevole sul piano elettorale e attiva su quello politico, una forza “nostagica’’, che rifiutava di riconoscersi nella nuova Italia nata dalla Resistenza. E purtroppo questa contrapposizione è ancora viva e si è trasmessa – nonostante i cambiamenti intervenuti nei partiti della c.d. Prima Repubblica – da una generazione all’altra.
E così è avvenuto anche in altri Paesi europei. Perché il fascismo non è un fenomeno storico, appartenuto ad un’epoca trascorsa e dimenticata. Come ha scritto Primo Levi, lo scrittore sopravvissuto all’Olocausto, ogni tempo ha il suo fascismo; e si può arrivare a quella situazione estrema “non necessariamente col terrore dell’intimidazione poliziesca, ma anche negando o distorcendo l’informazione, inquinando la giustizia, paralizzando la scuola, diffondendo in molti modi sottili la nostalgia per un mondo in cui regnava sovrano l’ordine”.
Non si tratta, allora, di ricordare l’inizio di una nuova Italia e di fermare la storia a quegli eventi (come talvolta fanno le associazioni partigiane) schierandosi da una delle parti che si combatterono, tra italiani, durante gli anni della guerra civile. L’Italia di oggi e quella di domani non deve rivedere un giudizio storico e neppure coltivare, in vitro, l’odio di quei tempi. Possiamo anche nutrire a tanti decenni di distanza un sentimento di pietas per tutti coloro che persero la vita combattendo, sia dalla parte giusta sia da quella sbagliata.
L’antifascismo deve cambiare come è cambiato il fascismo. Le ideologie non finiscono sepolte dalle macerie. E qui arriva la domanda. Come deve comportarsi, oggi, una forza politica per essere riconosciuta (neo, proto, simil, para, ecc.) fascista? I suoi militanti devono indossare la camicia nera, purgare con l’olio di ricino e bastonare con il “santo manganello” gli avversari politici? Magari, se perdono la pazienza, possono pure incendiare una Camera del Lavoro, la sede di un partito o la redazione di un giornale di opposizione?
Devono spezzare le reni alla Grecia? Devono aggiungere la loro baionetta ad altre otto milioni? Non importa prendersi tanto disturbo. In fondo, anche le culture autoritarie evolvono, soprattutto quando i loro adepti hanno assaggiato il frutto proibito della libertà e ritengono irrinunciabili alcune ‘’uscite di sicurezza’’, individuali e di gruppo. In un mondo divenuto un villaggio globale si è formato un benchmark delle condizioni di vita che difficilmente può discendere, dove è possibile, al di sotto di una certa soglia.
Bisogna saper riconoscere il fascismo nelle sue nuove sembianze (i valori sono sempre gli stessi). E soprattutto bisogna non arrendersi e non trascurare la vigilanza, anche dentro la nostra coscienza. Pensiamo per un momento ai mesi di quarantena che abbiamo trascorso e a quelli che ci attendono. Non ci siamo interrogati se le misure ci privassero delle nostre elementari libertà; abbiamo subìto e basta. Pur comprendendo le necessità imposte dalla lotta al Coronavirus, io non mi sento tranquillo nell’assistere al supino adeguamento dell’opinione pubblica a regole maniacali, all’arbitrio delle sanzioni, ai sentimenti di astio nei confronti dei “trasgressori’’ senza distinzioni.
E comprendo come possa un popolo assuefarsi ad un regime autoritario. Se tutto ciò accade da settimane sotto i nostri occhi (con il consenso di un’opinione pubblica suggestionata), diventa allora comprensibile – anche se ovviamente non condivisibile – l’atteggiamento di sudditanza che, nella storia dell’umanità, i popoli hanno manifestato in situazioni in cui non si correva solo il rischio di ammalarsi, sia pure gravemente.