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ACCADDE OGGI – L’8 settembre 1943 segnò il destino dell’Italia

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L’8 settembre è una data che si commenta da sé. Nel 1943 la classe dirigente che aveva aperto la strada e convissuto con il Fascismo, portando, con cinismo, il Paese in una guerra a cui era impreparato, tentò di salvare se stessa abbandonando la Capitale dopo l’armistizio con gli Alleati. L’esercito venne lasciato in balia dei tedeschi, senza direttive né ordini.

Ma l’8 settembre fu insieme il giorno della vergogna e del riscatto. Gli italiani trovarono da soli la via dell’onore e della salvezza, anche a costo di una guerra fratricida le cui ferite non si sono ancora sanate del tutto. Dopo la caduta di Benito Mussolini la notte dal 25 luglio in seguito all’approvazione dell’odg Grandi da parte del Gran Consiglio del fascismo, il sovrano aveva dato al generale Pietro Badoglio l’incarico di formare un governo, che aprì un negoziato con gli Alleati concluso i 3 settembre con la resa senza condizioni dell’Italia. L’annuncio fu dato l’8 settembre su sollecitazione degli Alleati che avevano preparato un’azione militare per occupare Roma (a cui dovettero rinunciare).

Le indicazioni alle truppe furono estremamente vaghe: “I nostri reparti reagiranno a qualsiasi attacco da altra provenienza”. Il caos di quei momenti è magistralmente rappresentato nel film “Tutti a casa”, il capolavoro di Luigi Comencini (1960), dove il sottotenente Alberto Innocenzi, interpretato da un grande Alberto Sordi, pronuncia una battuta che dà l’idea della confusione di quelle ore. Telefonando al Comando dopo che i tedeschi avevano preso a fucilate il suo plotone avverte che “i tedeschi si sono alleati con gli americani”.

Il re, la regina, il principe Umberto, Badoglio e alcuni dignitari di Corte, tra cui il generale Ambrosio, abbandonarono Roma in auto per raggiungere Pescara dove si Imbarcarono sul “Baionetta” per raggiungere Brindisi. Il grosso della marina salpò dalla Spezia per approdare a Malta; la maggior parte degli aerei atterrò negli aeroporti siciliani. L’esercito venne abbandonato a se stesso. In Italia scesero ben 18 divisioni tedesche che in poche ore si impadronirono di tre quarti del Paese, Roma compresa.

La situazione più grave toccò alle truppe italiane dislocate in zone di combattimento all’estero: Russia, Africa del Nord, Albania, Grecia. In Jugoslavia ci furono dei tentativi di resistenza. Nell’isola greca di Cefalonia reparti italiani combatterono i tedeschi dal 12 al 28 settembre, ma vennero sopraffatti e i superstiti fucilati.

Quella della famiglia reale fu vissuta come una vile fuga (il principe Umberto viaggiò persino su di un’auto sportiva). Storici recenti hanno comunque fatto osservare che in quei giorni era necessario garantire la continuità dello Stato e ciò non poteva che essere garantito dalla persona del sovrano. Diverso fu il caso del principe di Piemonte, che era comandante delle armate del Sud e che aveva lasciato il suo stato maggiore a Sessa Aurunca, senza neppure avvertire.

Mussolini fu liberato da un commando tedesco sul Gran Sasso e si prestò a fondare la Repubblica Sociale Italiana nel Nord della Penisola: uno Stato fantoccio in balia dei tedeschi. Giampaolo Pansa, nel raccontare la storia della RSI, scrisse che il suo esercito era formato dai “puri” (quelli che intendevano restare fedeli al fascismo fino a cercare la “bella morte”) e dalla “teppa”, ovvero da avventurieri e criminali che reagirono con odio, crudeltà e ferocia alla loro sconfitta.

Furono due anni di guerra civile che si concluse con la sconfitta della Germania e dei suoi manutengoli nell’aprile del 1945. A tanti anni di distanza e alla luce delle sgradevoli recenti affermazioni sulla tragedia delle foibe, sarebbe bene prendere atto che in quel tempo non era facile scegliere da quale parte stare, giusta o sbagliata che fosse. Sul compimento di tale scelta pesarono tanti elementi che non erano dipesi da valutazioni ideali, ma da circostanze particolari.

Molto banalmente, la RSI dove esercitava la sua presunta sovranità chiamava i giovani di leva alle armi. Chi poteva si imboscava, mentre molti passavano con i partigiani. Altri indossarono quella divisa. A volte fu decisivo il luogo in cui i militari italiani si trovavano l’8 settembre. Di seguito racconto la storia di due fratelli che quasi a loro insaputa si trovarono a combattere su fronti nemici.

Antonio e Bruno erano fratelli. Richiamati alle armi nella Seconda Guerra Mondiale, l’8 settembre del 1943, si trovavano il primo, più anziano, in Jugoslavia, in un reparto di fanteria col grado di sergente maggiore; il secondo, marinaio con grado di sottocapo silurista, era in navigazione nel Mediterraneo.

Ad Antonio e ai suoi commilitoni si presentarono queste alternative: arrendersi ai partigiani di Tito (ed essere fucilato da loro), farsi ammazzare dai tedeschi o nel migliore dei casi essere deportato in Germania (una sorte che toccò a seicentomila militari italiani). La sua compagnia era comandata da un capitano molto stimato dai soldati. Insieme decisero di restare con i tedeschi (che li misero nelle retrovie e li inquadrarono subito nella RSI), per arrendersi agli alleati non appena si fosse presentata l’occasione durante la ritirata (lo fecero al loro arrivo in Austria).

La nave di Bruno (Il Centauro) si consegnò invece agli Alleati e lui fu inquadrato nei Battaglioni San Marco che combatterono a fianco degli angloamericani. Con queste formazioni risalì la Penisola. Ecco come gli eventi della storia incidono sulla vita delle persone normali fino a trasformare in nemici “per caso” due fratelli. Come è stato detto, “beati i popoli che non hanno bisogno di eroi”.

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