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ACCADDE OGGI – Il delitto Matteotti, vittima della violenza fascista

Il 10 giugno 1924 viene rapito e ucciso Giacomo Matteotti che da deputato aveva denunciato le violenze del regime fascista. Pochi giorni prima il suo celebre discorso alla Camera che firmò la sua condanna a morte voluta da Mussolini. Non solo per questioni “politiche”. “Uccidete pure me, ma l’idea che è in me non l’ucciderete mai”

ACCADDE OGGI – Il delitto Matteotti, vittima della violenza fascista

Il 10 giugno 1924, intorno alle 16,30, vicino alla sua abitazione romana, sul Lungotevere Arnaldo da Brescia  Giacomo Matteotti  segretario del Psu (il Partito fondato dai riformisti di Filippo Turati, dopo la loro espulsione dal Psi, nel Congresso di Roma svoltosi nei primi giorni di ottobre 1922 ) venne rapito e caricato su di un’auto, da una squadra di fascisti, appartenenti ad una sorta di polizia politica segreta, detta emblematicamente  la CECA. Erano guidati da Amerigo Dumini, un “bravo” del regime legato allo staff di Benito Mussolini e in particolare a Cesare Rossi, una sorta di portavoce del Duce (il quale ne impose le dimissioni quando le indagini cominciarono a mettere in luce i suoi collegamenti con Dumini). Sulla vicenda, Rossi, fuggito in Francia, preparò persino un memoriale che mise in difficoltà lo stesso Mussolini. 

Matteotti era nato a Fratta Polesine (Rovigo) nel 1885, avvocato, si era distinto nelle lotte bracciantili contro gli agrari. Durante la Grande Guerra, era stato esonerato dalla leva in quanto figlio unico di madre vedova, ma essendo militante neutralista era stato sottoposto al confino. Poi era stato eletto nel suo collegio per tre legislature consecutive e si era rivelato un deputato serio ed impegnato, attento nell’esame dei dossier e aveva chiesto la parole per ben 106 volte.  In diverse occasioni era stato vittima della violenza squadrista che si era particolarmente accanita contro di lui proprio perché persona colta e di origine borghese. Matteotti venne ucciso subito dopo il rapimento, all’interno dell’auto.

I suoi assassini furono individuati, processati (difesi da Roberto Farinacci il boss di Cremona) e condannati per omicidio preterintenzionale perché – sostennero – Matteotti si era difeso. Il suo cadavere venne scoperto casualmente due mesi dopo laddove era stato frettolosamente sepolto.

La sua sorte fu segnata da uno storico discorso che, il 30 maggio, Matteotti svolse in Aula – tenendo testa a durissime contestazioni e interruzioni – per denunciare, documentando una serie di casi concreti, il clima d’intimidazione e violenza in cui si erano svolte le elezioni in quell’anno. Lo stesso Matteotti, alla fine, ammise di aver firmato la sua condanna a morte: “Io, il mio discorso l’ho fatto. Ora voi preparate il discorso funebre per me”.

Ma molti storici sostengono che vi fossero ben altre ragioni che determinarono la decisione di sopprimerlo per ordine dello stesso Mussolini. Attraverso le sue frequentazioni internazionali (soprattutto in Inghilterra) Matteotti sarebbe entrato in possesso di  prove di un giro di tangenti della Sinclair Oil legate al traffico del petrolio in cui era coinvolto Arnaldo, il fratello di Mussolini.  Tanto che si è ritenuto che la borsa che Matteotti portava con sé il giorno del rapimento – e che non fu mai trovata- contenesse i documenti comprovanti  il coinvolgimento in quell’affaire.

Il 26 giugno i deputati dell’opposizione diedero corso all’iniziativa politica che fu definita “l’Aventino” consistente nel disertare i lavori del Parlamento fino a quando non fosse stata compiuta la giustizia per il caso Matteotti. La scoperta del cadavere suscitò molta emozione in tutta Italia. Il governo traballò, fino a quando lo stesso Mussolini, davanti alla Camera si assunse la responsabilità dell’accaduto in un discorso del 3 gennaio 1925: “Ebbene io dichiaro qui, al cospetto di questa Assemblea  e al cospetto di tutto il popolo italiano, che io mi assumo, io solo, la responsabilità politica, morale, storica di quanto è avvenuto”. Così, Mussolini riprese la situazione nelle sue mani.

La protesta aventiniana non ebbe successo e, dopo circa due anni, il 9 novembre 1926 la Camera dei deputati deliberò la decadenza dei 123 deputati aventiniani. Quella protesta si prefiggeva di sollecitare il Re a prendere una iniziativa, per risolvere così la crisi in ambito istituzionale. Si trattò di un’iniziativa rivelatasi ben presto sbagliata perché non metteva in conto che a quella situazione politica si era arrivati con la complicità del Sovrano. Matteotti era sposato con la poetessa Velia Titta (sorella di Titta Ruffo) dalla quale aveva avuto due figli Matteo e Giancarlo, anch’essi, soprattutto il primo (che fu parlamentare e ministro del Psdi), impegnati in politica nell’Italia democratica. In un’altra occasione aveva pronunciato una frase che si sarebbe rivelata profetica: “Uccidete pure me, ma l’idea che è in me non l’ucciderete mai”. 

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