Una voce dura, graffiata, immediata, che partiva dall’anima e all’anima arrivava direttamente, senza passare per virtuosismi o arzigogoli vocali. Un visino d’angelo che sarebbe stato in grado d’ispirare i cantori dello Stilnovo e che quando cantava si trasformava in un volto sofferto, capace di palesare tutti i dolori di un cuore che troppo dava e troppo sentiva. Un piglio che divenne quello di una generazione che dai garage di un piccolo sobborgo dello stato di Washington cambiò la storia del rock mondiale. Una generazione costretta ad andare avanti senza il suo simbolo, morto troppo presto a causa di un colpo di fucile. Una fiammata, come diceva lui. Trent’anni fa, il 5 aprile 1994, moriva Kurt Cobain, colui che più di tutti cantò la rabbia, il dolore, l’ingiustizia che quelli come lui – ed erano tanti, troppi – sentivano nei confronti di una società che non era più in grado di rappresentarli né di farli sentire vivi.
Punk, Hard Rock, Post Hardcore. In tanti in quel periodo cercarono di definire la musica dei Nirvana. Ma ogni etichetta sembrava troppo limitata, troppo stretta per contenere ciò che era in realtà. Grunge lo chiamarono tutti dopo. Ma prima era solo una musica che sfuggiva (per non dire schifava) i suoni semplici, i ritornelli orecchiabili e i riff acchiappa fan per abbracciare sonorità dirette, primitive e irrazionali che mettevano in soffitta la parola “commerciale” e parlavano di un mondo senza più eroi né riferimenti. Una musica che dai sobborghi di Aberdeen prima e di Seattle poi arrivò ovunque, in ogni angolo “del globo terraqueo”, direbbe oggi qualcuno.
Bleach, Nevermind, In Utero
Kurt Cobain era questo e molto di più. Un volto e una voce capaci di rappresentare, di simboleggiare, di condensare tutta la rabbia del mondo in pochi versi cantati con la bocca attaccata al microfono, gli occhi chiusi e un’energia che esplodeva su qualsiasi palco, che distruggeva stage e chitarre ovunque andasse. Eppure, paradosso dei paradossi, il concerto che tutti ricordano è quello in cui i Nirvana rimasero immobili, senza però perdere un briciolo di potenza espressiva. L’Mtv Unplugged di New York in cui lui, Kris Novoselic e Dave Grohl restarono eccezionalmente ancorati su uno stage che fativaca a contenere ciò che esprimevano quei Nirvana che ancora oggi ispirano canzoni, generi, persone soprattutto.
L’inizio di tutto fu Bleach, nell’89, considerato l’album che segna un punto di congiunzione tra lo sludge-metal dei Melvins e il grunge. Eppure a Cobain non piaceva proprio, “non c’era nulla di nuovo in quell’album”, disse.
Il successo, quello vero, arrivò due anni dopo, quando fu pubblicato il secondo album: si intitolava Nevermind e conteneva perle come “Smell like teen spirits”, “Come as you are”, “Lithium”, “In Bloom”, “Polly”, “Drain You”. Dodici brani che riuscirono a superare i confini di Seattle entrando nell’immaginario collettivo. A spingerli fu anche una delle copertine più iconiche di sempre: quella che ritrae un neonato immerso in una piscina, davanti a una banconota appesa a un amo. Cobain, neanche a dirlo, lo odiava a morte: “Ripensando alla produzione di Nevermind, adesso ne sono imbarazzato”, disse in un’intervista.
Altri due anni è fu la volta di In Utero: potente, diretto, straziante. “Rape Me” un grido di rabbia provocatorio, “All Apologies”, un dolore dolce che ti annida, ma anche “Heart Shaped-Box” e “Pennyroyal Tea”.
Trent’anni fa moriva Kurt Cobain
Volto, simbolo, voce di una generazione. Questo era Kurt Cobain e questo era anche tutto ciò che non voleva essere perché non ne aveva la forza. Un viso candido contro una voce maledetta. Una sincerità urlata ad un mondo che di sincero per lui non aveva nulla. Un’esposizione planetaria contro le mura sporche di un garage in cui forse sarebbe voluto tornare. Arrivarono i dissidi, la sofferenza, l’eroina. Nemmeno il matrimonio (travagliato) con Courtney Love e la nascita dell’amata figlia Francis Bean riuscirono a placare i suoi conflitti. Quelli che aveva con se stesso, stavolta, non con il mondo.
Nei primi mesi del ‘94 cominciarono ad ardere le prime fiammelle di quel fuoco che lo portò a bruciarsi. “Meglio morire in una fiammata che andarsene giorno dopo giorno”, scrisse nei suoi diari citando Neil Young.
L’ultima apparizione in tv fu in Italia, ospite coi Nirvana del programma Tunnel di Rai 3 condotto da Serena Dandini, che di lui disse: “Incontrandolo ho avuto l’impressione di una persona di una sensibilità estrema, indifesa, che difficilmente riuscivi a guardare negli occhi, con uno sguardo di paura come di un cucciolo braccato dal mondo”. A marzo, durante il tour europeo, venne ricoverato a Roma per overdose da farmaci e champagne. Solo un mese dopo, la mattina dell’8 aprile 1994, il cadavere di Kurt Cobain venne rinvenuto da un elettricista nella sua villa sul lago Washington. Era morto tre giorni prima, suicidandosi con un colpo di fucile alla testa. Aveva 27 anni. Lasciò orfana un’intera generazione. Lasciò in eredità alle generazioni a venire una musica diretta, sincera, potente, in grado di esprimere molto più di quello che lui avrebbe voluto esprimere.
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Uno dei migliori articoli che abbia letto su Kurt Cobain e sul tragico anniversario della sua morte. Calibrato e competente. Complimenti