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Accadde Oggi – 29 Febbraio 1996: termina l’assedio di Sarajevo, è la fine di un incubo durato quattro anni

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Il 29 febbraio 1996 si chiudeva una delle pagine più nere della storia europea con la fine dell’assedio di Sarajevo. Avvenuto durante la guerra in Bosnia ed Erzegovina e durato dal 5 aprile 1992 al 29 febbraio 1996 è secondo gli esperti il più lungo assedio della storia europea del XX secolo.

Le forze dell’Armata Popolare Jugoslava (JNA) e le forze serbo-bosniache (VRS) tentarono di prendere Sarajevo, opponendosi alle truppe del governo bosniaco appena indipendente dalla Jugoslavia. Le forze filo-serbe miravano, infatti, a distruggere la neo-indipendente Bosnia ed Erzegovina e a stabilire la Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina.

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Assedio di Sarajevo: i numeri della tragedia

I numeri della tragedia sono agghiaccianti. Si stima che durante l’assedio di Sarajevo ci siano state più di 12.000 vittime e oltre 50.000 feriti, con l’85% delle vittime civili. A causa delle morti e della migrazione forzata, nel 1995 la popolazione si ridusse a 334.664, il 64% in meno della popolazione precedente alla guerra.

I rapporti ufficiali registravano una media di 329 esplosioni al giorno, con un picco di 3.777 il 22 luglio 1993. Nel settembre 1993, prima ancora della fine della guerra, tutti gli edifici della città erano già stati danneggiati, con 35.000 completamente distrutti. Tra i danneggiamenti più rilevanti ci furono quelli della Presidenza della Bosnia Erzegovina e la Biblioteca Nazionale di Sarajevo, luogo di conoscenza e di cultura patrimonio di tutta l’umanità, che venne completamente distrutta insieme ad oltre un milione di volumi, 155.000 rari o preziosi e 478 manoscritti unici. Si salvò solo l’Haggadah di Sarajevo, il più antico documento ebraico d’Europa, portato lì dagli ebrei sefarditi cacciati dalla cattolica Spagna per essere accolti in terra musulmana.

Assedio di Sarajevo: gli antefatti

Dopo la seconda guerra mondiale, il governo jugoslavo mantenne un rigido controllo sui nazionalismi, ma con la morte di Tito nel 1980, questa politica vacillò. Le varie indipendenze etniche e le tensioni nazionalistiche che erano state sopite durante il suo regime cominciarono a emergere, portando alla frammentazione della Jugoslavia e alle guerre che ne seguirono. Nel 1991, la Slovenia e la Croazia dichiararono l’indipendenza, seguite dalla Macedonia nel 1991 e dalla Bosnia-Erzegovina nel 1992. Le tensioni etniche così iniziarono a crescere, alimentate da nazionalismi emergenti e sospetti reciproci tra le comunità etniche di bosniaci (musulmani), serbi e croati.

Nel periodo precedente alla guerra, le forze della JNA si dispiegarono sulle colline circostanti Sarajevo, accumulando artiglieria e altri equipaggiamenti essenziali per l’assedio imminente. Nel aprile 1992, il governo bosniaco chiese alla Jugoslavia di ritirare le truppe, ma Milošević acconsentì solo a ritirare i soldati non bosniaci, che erano pochi. Queste truppe serbo-bosniache furono integrate nel VRS, che aveva dichiarato l’indipendenza dalla Bosnia poco dopo la separazione dalla Jugoslavia.

Il 5 aprile, paramilitari serbi attaccarono l’Accademia di Polizia di Sarajevo, una posizione di comando strategica a Vraca, nella parte alta della città.

Assedio di Sarajevo: 5 aprile 1992, l’inizio dell’orrore

L’assedio di Sarajevo ha avuto quindi inizio il 5 aprile 1992, quando le forze serbo-bosniache circondarono la capitale della Bosnia ed Erzegovina, intrappolando i suoi abitanti in una situazione di disperazione e terrore.

Il 2 maggio 1992, Sarajevo fu completamente isolata dalle forze serbo-bosniache, con principali vie di accesso bloccate e rifornimenti di cibo e medicine interrotti. Solo alcune organizzazioni umanitarie riuscirono a fornire aiuto. Nonostante fossero in minoranza rispetto ai difensori bosniaci, i soldati serbi intorno alla città erano meglio equipaggiati e bombardavano Sarajevo dai bunker sulle montagne dopo i falliti assalti della JNA.

Nel 1992 e nella prima metà del 1993, l’assedio raggiunse livelli estremi di violenza, con gravi atrocità e bombardamenti continui sui difensori. I serbi controllavano molte posizioni e impedivano i rifornimenti. La città era infestata da cecchini e alcuni quartieri caddero sotto il controllo degli attaccanti. L’aeroporto di Sarajevo fu aperto alle Nazioni Unite nel giugno 1992 per i rifornimenti, diventando vitale per la sopravvivenza della città.

Seguirono anni di bombardamenti indiscriminati, assalti armati e privazioni estreme che hanno lasciato la città in rovina e la sua popolazione devastata fisicamente e psicologicamente.

Il 1º giugno 1993, durante una partita di calcio, 15 persone furono uccise e 80 ferite. Il 12 giugno dello stesso anno, 12 persone furono uccise mentre facevano la fila per l’acqua. La più grande di queste tragedie avvenne il 5 febbraio 1994, conosciuta come il massacro di Markale: un attacco al mercato della città che causò la morte di 68 civili e il ferimento di 200 persone.

Per quasi quattro anni, Sarajevo è stata simbolo della brutalità della guerra nei Balcani, con migliaia di civili uccisi o feriti e con condizioni di vita disumane che hanno fatto sì che ogni giorno fosse una lotta per la sopravvivenza. L’assedio ha visto anche l’uso sistematico di armi pesanti contro obiettivi civili, come scuole, ospedali e mercati, un chiaro segno di disprezzo per le norme umanitarie internazionali.

Il Tunnel di Sarajevo

Durante l’assedio di Sarajevo, venne scavato un tunnel lungo circa un chilometro (era alto 1,60 metri con una larghezza media di circa 0,80 metri) che andava dai sobborghi della città di Sarajevo fino all’aeroporto, controllato dalle Nazioni Unite. Conosciuto come “tunnel di Sarajevo“, fu utilizzato per trasportare armi, cibo e altri materiali essenziali per mesi durante l’assedio. Persino l’allora presidente della Bosnia-Erzegovina, Alija Izetbegović, viaggiò attraverso il tunnel su una carrozzella.

Oggi, i 20 metri del tunnel conservati sono parte di un museo visitabile.

Sarajevo: il lungo cammino verso la pace

Durante i quattro anni di assedio, ci fu solo una breve tregua, tra l’11 e il 12 dicembre 1992, grazie a un gruppo di 500 pacifisti guidati da don Tonino Bello, provenienti dall’Italia e coordinati dall’associazione padovana Beati costruttori di pace. L’anno successivo, nell’agosto, il gruppo ci riprovò senza successo. In ottobre andò anche peggio, perché il religioso e pacifista italiano Moreno Locatelli fu centrato da un cecchino durante la manifestazione.

Nel 1995, dopo un altro attacco al mercato di Markale che causò la morte di 37 persone e il ferimento di 90, le forze internazionali iniziarono a criticare gli assedianti. In risposta a un raid serbo contro un sito di raccolta delle armi dell’ONU, la Nato attaccò depositi di munizioni serbi e altri obiettivi militari, avviando l’Operazione Deliberate Force. Gli scontri aumentarono, coinvolgendo anche forze armate bosniache e croate, fino a quando i serbi persero terreno nell’area di Sarajevo.

Il “cessate il fuoco” arrivò in seguito agli Accordi di Dayton nell’ottobre 1995, sotto la mediazione degli Stati Uniti, che gettò le basi per la fine del conflitto in Bosnia ed Erzegovina. Dopo un periodo di stabilizzazione, il governo bosniaco dichiarò ufficialmente la fine dell’assedio di Sarajevo solo il 29 febbraio 1996.

Sarajevo: ricostruzione e rinascita di una città

Prima dell’assedio, Sarajevo era in un periodo di crescita e sviluppo, e aveva anche ospitato le Olimpiadi Invernali del 1984. Era una città cosmopolita e multietnica, con una storia ricca di diversità culturale. La città era nota per la sua integrazione multietnica, ma durante l’assedio questa coesione si frantumò, portando a divisioni drammatiche. Molti rifugiati lasciarono la città, mentre un gran numero di serbi di Sarajevo si trasferì nella Republika Srpska. La percentuale di serbi a Sarajevo scese drasticamente, passando dal 30% nel 1991 al 10% nel 2002. Le zone di Novo Sarajevo, ora parte della Republika Srpska, costituirono Sarajevo Est, dove risiede gran parte della popolazione serba precedente alla guerra. Alcuni serbi rimasti a Sarajevo subirono discriminazioni da parte dei rifugiati che fecero ritorno alle loro case.

Con la fine dell’assedio, Sarajevo ha intrapreso un arduo percorso di ricostruzione, sia fisica che sociale. Gli sforzi per riparare le infrastrutture danneggiate, fornire assistenza umanitaria alle vittime e ripristinare un senso di normalità nella vita quotidiana sono stati enormi, richiedendo il sostegno della comunità internazionale. Ma oltre alla ricostruzione materiale, c’è stato un lungo cammino emotivo e psicologico per superare i traumi della guerra. La città ha dovuto affrontare sfide immense nel tentativo di riconciliare le comunità divise e costruire un futuro condiviso basato sulla pace e sulla tolleranza.

Sarajevo oggi

Ventinove anni dopo la fine della guerra, però, la Bosnia Erzegovina si regge ancora su una pace precaria. Il paese è composto da due entità, la Federazione croato-musulmana e la Repubblica serba con la seconda che ha iniziato a istituire istituzioni separate come un esercito e un sistema giudiziario, aumentando il rischio di una nuova secessione e di un nuovo conflitto

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