Nelle prime ore del 25 luglio del 1943, dopo un tardo pomeriggio e una notte di discussione, il Gran Consiglio del Fascismo (massimo organismo di rilievo costituzionale del regime, che non si riuniva da quattro anni) approvò a larga maggioranza (19 voti contro 7, un astenuto ed un gerarca che non partecipò al voto) l’ordine del giorno Grandi che, in pratica sfiduciava Benito Mussolini, dal momento che chiedeva “l’immediato ripristino di tutte le funzioni statali” e l’invito al Duce di pregare il re “affinché egli voglia, per l’onore e la salvezza della patria, assumere con l’effettivo comando delle forze armate di terra, di mare e dell’aria, secondo l’articolo 5 dello Statuto del Regno, quelle supreme iniziative di decisione che le nostre istituzioni a lui attribuiscono”.
Dino Grandi e l’atto di accusa nei confronti del Duce
Dino Grandi, allora presidente della Camera dei fasci e delle corporazioni, era uno dei principali gerarchi del Regime fascista, stretto collaboratore di Mussolini da più di 20 anni. Considerato più un conservatore di destra che un fascista, vedeva il fascismo come un fenomeno effimero, confinato nella durata della vita di Mussolini. Esperto diplomatico, era stato ministro degli Esteri e ambasciatore nel Regno Unito: fermo nemico della Germania, con una larga cerchia di amicizie nell’establishment britannico (era amico personale di Winston Churchill).
Si dice che il giorno precedente Grandi avesse concordato la ‘’congiura’’ contro Mussolini, in un incontro con il sovrano. Ma l’operazione era molto pericolosa tanto che Grandi si presentò alla riunione armato di pistola. Fu lui a svolgere l’atto di accusa nei confronti del Duce, risalendo anche agli errori commessi nel coinvolgere l’Italia nel conflitto mondiale.
Lo sbarco in Sicilia degli Alleati
Ebbe una influenza determinante nella caduta del regime lo sbarco degli Alleati in Sicilia. Le truppe italiane non riuscirono – come aveva detto Mussolini – a fermare ‘’sul bagnasciuga’’ l’esercito nemico. In poche settimane si comprese che l’Isola era ormai perduta. Ciò spinse parte dell’establishment fascista a cercare una via d’uscita con l’appoggio di Vittorio Emanuele III, arrivando al più presto ad una pace separata con gli Alleati. L’iniziativa di Dino Grandi ebbe successo. I 28 componenti del Gran Consiglio furono chiamati a votare per appello nominale, da parte del segretario del partito.
L’ordine del giorno Grandi
La votazione sull’ordine del giorno Grandi si concluse con:
- 19 voti a favore: Emilio De Bono (quadrumviro), Cesare Maria De Vecchi (quadrumviro), lo stesso presentatore Dino Grandi (presidente della Camera dei fasci e delle corporazioni), Alfredo De Marsico (ministro di grazia e giustizia), Giacomo Acerbo (ministro delle finanze), Carlo Pareschi (ministro dell’agricoltura e delle foreste), Tullio Cianetti (ministro delle corporazioni), Giuseppe Bastianini (sottosegretario agli esteri), Umberto Albini (sottosegretario agli interni), Luigi Federzoni (presidente dell’Accademia d’Italia), Giovanni Balella (presidente della Confederazione industriali), Luciano Gottardi (presidente della Confederazione lavoratori industria), Annio Bignardi (presidente della Confederazione lavoratori agricoltura), Alberto de’ Stefani, Edmondo Rossoni, Giuseppe Bottai, Giovanni Marinelli, Dino Alfieri, Galeazzo Ciano (il genero del Duce);
- 8 voti contrari: Carlo Scorza (segretario del PNF), Carlo Alberto Biggini (ministro dell’educazione nazionale), Gaetano Polverelli (ministro della cultura popolare), Antonino Tringali Casanuova (presidente del Tribunale speciale), Ettore Frattari (presidente della Confederazione agricoltori), Enzo Galbiati (capo di stato maggiore della MVSN), Roberto Farinacci, Guido Buffarini Guidi;
- 1 astenuto: Giacomo Suardo (presidente del Senato del Regno).
Dopo l’approvazione dell’ordine del giorno Grandi, Mussolini (che aveva seguito il dibattito e replicato come se fosse provato fisicamente) ritenne inutile porre in votazione le altre mozioni e tolse la seduta. Alle 2:40 del 25 luglio i presenti lasciarono la sala.
Mussolini dal Re: il Fascismo cadde in una notte
Il giorno stesso Benito Mussolini chiese udienza al Re Vittorio Emanuele III che gliela concesse per le 17 del pomeriggio. Quando il Duce arrivò (con la speranza di ottenere di nuovo la fiducia), il Sovrano gli comunicò che aveva nominato capo del Governo il Maresciallo Pietro Badoglio e lo fece arrestare da una squadra di Carabinieri che allontanarono Mussolini, da un’uscita secondaria del Quirinale, su di un’autoambulanza militare.
Il Fascismo cadde in una notte. Il Duce, in seguito, venne confinato sul Gran Sasso da dove fu liberato e portato in Germania da un commando di soldati tedeschi. Poi, come è noto, i tedeschi occuparono militarmente la Penisola assumendosi in proprio la conduzione del conflitto, mentre Mussolini venne usato da Hitler per fondare la Repubblica sociale italiana (RSI), lo Stato fantoccio che continuò la guerra a fianco e sotto la direzione dei tedeschi.
Dall’8 al 10 gennaio 1944 ebbe luogo a Verona, allora sotto la giurisdizione della RSI, il processo contro sei gerarchi che avevano votato l’O.d.G Grandi e contribuito quindi a sfiduciare Mussolini: Emilio De Bono , Luciano Gottardi, Galeazzo Ciano, Carlo Pareschi, Giovanni Marinelli e Tullio Cianetti.
Il processo si concluse con cinque condanne a morte per Ciano, Marinelli, Gottardi, De Bono e Pareschi e una condanna a trent’anni per Cianetti (che salvò la pelle per aver ritrattato il giorno successivo la sua adesione all’ordine del giorno Grandi).
La sentenza dei cinque condannati presenti, fu eseguita la mattina dell’11 gennaio 1944.