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ACCADDE OGGI 21 SETTEMBRE – Nel 1979 l’assassinio dell’ingegner Ghiglieno negli anni di piombo della Fiat

Imagoeconomica

Il 21 settembre 1979 alle 8 del mattino un commando terrorista assassinava sotto casa, mentre si stava recando al lavoro a Mirafiori, l’ingegner Carlo Ghiglieno, direttore della pianificazione strategica del settore auto della Fiat.

Il terrorismo colpisce la Fiat

L’omicidio fu nella stessa mattinata rivendicato dall’organizzazione terroristica di estrema sinistra Prima Linea, di cui uno dei capi, il “comandante Alberto”, era Marco Donat Cattin, figlio del più volte ministro della Repubblica e boss democristiano Carlo Donat Cattin, come emerso negli anni seguenti dalle rivelazioni di un pentito.

Tutto questo in quella tragica mattina non si sapeva. Ci si trovava di fronte all’ennesimo attentato di sangue che in quei tragici anni settanta colpiva Torino ed i suoi uomini, gambizzati o assassinati: poliziotti e carabinieri, avvocati, giornalisti, docenti universitari, amministratori locali, ma soprattutto dirigenti e capi della Fiat (tre morti ammazzati e diciassette feriti gambizzati, oltre ai sequestri di persona).  

Erano anni in cui la conflittualità sindacale impazzava in tutti i settori del Paese, nelle fabbriche, nei trasporti pubblici (urbani, ferroviari e aerei), nella scuola, nella sanità, ovunque.

I rapporti tra imprese e sindacati di categoria (metalmeccanici, chimici, tessili) erano difficili.  A nulla era valso l’accordo di Confindustria sul punto unico di contingenza, voluto dal suo Presidente, l’ avvocato Gianni Agnelli e da Luciano Lama, segretario generale della CGIL, che si erano illusi di prevenire i conflitti salariali con il ricorso allo strumento potenziato della scala mobile. Peraltro l’accordo avrebbe innescato la spirale salari-prezzi che avrebbe portato per un decennio ad una inflazione annua a due cifre.   

Il difficile rapporto tra la Fiat e i sindacati

In Fiat la criticità delle relazioni sindacali era iniziata già alla fine degli anni sessanta, con la contestazione giovanile del sessantotto e l’autunno caldo del sessantanove, con tutto ciò che ne derivava, come l’abbattimento del merito e l’amore per il lavoro ben fatto, aspetti che avevano sempre contraddistinto i vecchi operai Fiat, noti per saper fare, come si diceva, i barbis (baffi) anche alle mosche. 

Al contrario, conflittualità permanente e antagonismo erano i valori cui si ispirava il sindacato.

In quel decennio, non passa una stagione contrattuale, nazionale e aziendale, che non sia foriera di scioperi interni con cortei “spazzatutto” per le officine e per gli uffici, con i capi e gli impiegati riottosi, costretti, a volte a calci nel sedere, a sfilare con le bandiere rosse del sindacato in mano, o da duri picchettaggi “di persuasione” agli ingressi negli scioperi totali di 8 ore per turno. 

E poi, per premere sulla chiusura della vertenza contrattuale, si ricorreva al rito della “spallata finale” con il blocco degli stabilimenti anche per una settimana.

Un inferno che per molto tempo viene sottovalutato o non percepito dall’opinione pubblica e dalle forze politiche e sociali. Gli stessi vertici sindacali hanno perso il controllo della situazione in fabbrica. 

Dopo l’autunno caldo del sessantanove, e nonostante le modalità di costituzione delle rappresentanze sindacali aziendali come previste dallo Statuto dei Lavoratori del 1970, il sistema di rappresentanza sindacale nelle fabbriche Fiat non avviene per cooptazione dei più preparati ma è basato sui principi di democrazia diretta con i delegati riuniti in “consigli di fabbrica”.

I delegati vengono eletti dai lavoratori del proprio gruppo omogeneo, con procedure non formalizzate e molto approssimative, indipendentemente dalla militanza sindacale: il sindacato provvede poi a dare loro la copertura di rappresentanti sindacali per poter fruire dei permessi sindacali e delle guarentigie previste proprio dallo Statuto dei Lavoratori.  

Così vengono imbarcati i peggiori elementi, quelli che riescono a coagulare antagonismo e aggressività in una popolazione operaia, in maggioranza alle catene di montaggio, di recente immigrazione dal sud, che riversa in fabbrica tutto il proprio disagio sociale nel passaggio da una cultura contadina ad una cultura industriale non ancora assimilata. 

In questa situazione di conflittualità permanente e di difficile governabilità delle fabbriche si insinuano, con abilità tattica, i terroristi.

I terroristi entrano in fabbrica

I primi terroristi entrano in fabbrica grazie ai meccanismi di avviamento al lavoro vigenti all’epoca con la cosiddetta “chiamata numerica” all’Ufficio di Collocamento, senza alcuna possibilità di selezione e valutazione del personale, confusi tra le migliaia di lavoratori assunti ogni anno per colmare le perdite di efficienza produttiva e ripianare un elevatissimo turn-over.

Ad esempio, si può ricordare il caso di un brigatista, condannato come armiere di un gruppo terrorista, avviato al lavoro con il collocamento obbligatorio in quanto invalido avendo perso una gamba per ragioni “mediche”. Soltanto dopo l’assunzione, lui stesso  racconta ai suoi capi, dopo averli minacciati, di aver perso la gamba in un attentato. I capi non hanno il coraggio, all’ epoca, di parlare e non viene licenziato. 

Come diranno le indagini successive svolte dai carabinieri dell’antiterrorismo e dalla magistratura, i brigatisti si concentrarono nei reparti delle carrozzerie della Mirafiori, di Rivalta e della Lancia di Chivasso, mentre Prima Linea ed altri gruppi eversivi alle meccaniche e alle presse.

I brigatisti erano abili nell’agire sottotraccia infiltrandosi principalmente nei gruppi autogestiti di Autonomia Operaia, che contavano molti aderenti alle logiche dell’antagonismo proletario violento.

I brigatisti entravano in contatto con gli autonomi in fabbrica facendo proseliti per compiere le azioni di intimidazione dei capi, all’ interno e all’ esterno degli stabilimenti, con minacce, attentati, gambizzazioni, assassinii.

Se per la manovalanza si servirono dei gruppi antagonisti, gli stessi “comandanti” brigatisti cercarono di infiltrarsi nelle strutture sindacali di fabbrica, partecipando anche, come rappresentanti sindacali aziendali, alle trattative con le direzioni di stabilimento, sempre però in posizione defilata e silenziosa.

Per tutti, valga il rappresentante sindacale della Mirafiori ucciso in un conflitto a fuoco con i carabinieri, che in stabilimento al tavolo sindacale della trattativa era considerato dai dirigenti aziendali un moderato.

Il diario del brigatista 

Nella primavera del 1979 i carabinieri irrompono in un covo brigatista “freddo” proprio di fronte alla Mirafiori, e sequestrano tutta una serie di documenti, comprese liste nominative di possibili obiettivi.

Tra i documenti si trova anche una specie di diario del brigatista, dove vengono annotati giorno per giorno i fatti salienti della vita di fabbrica, le agitazioni, gli scontri con i capi, le riunioni sindacali e le trattative cui il brigatista infiltrato partecipava.

Una volta, ad esempio, il direttore della Mirafiori si reca nell’ officina di lastratura per verificare con i capi reparto la natura di un problema tecnico insorto; poiché l’impianto è fermo, si avvicinano anche gli operai e i delegati sindacali della linea, compreso lo sconosciuto brigatista che tiene il diario, dove diligentemente riporta le parole del direttore aprendo una finestra sullo stesso. Un dettaglio se si vuole, ma racconta come il terrorismo faceva ormai parte del quotidiano. 

In tutto questo i sindacalisti di fabbrica sono nella migliore delle ipotesi allo sbando: dimostrano un misto di debolezza, incertezza, paura, e in alcuni di loro una prossimità con il terrorismo, come emergerà dalle indagini successive.

Tra spazzolature e bullonature

Le “spazzolature” dei capi (tirati fuori dagli uffici e costretti a sfilare in corteo) e le “bullonature” (il tiro alla testa del caposquadra o capo reparto con biglie e bulloni di ferro mentre passa in officina) sono ormai rituali, prassi consolidate che, secondo i sindacalisti, gli operai che le praticano sanno di non dovere o potere andare oltre; salvo ricorrere immediatamente allo sciopero e alla protezione anche legale degli autori degli atti di violenza, individuati e licenziati dall’ azienda.

Il documento di denuncia dei dirigenti Fiat

Sarà un documento emesso dall’associazione professionale dei dirigenti Fiat, dopo l’uccisione dell’ ing. Ghiglieno, a picchiare duro sul sindacato e far prendere coscienza  delle violenze in fabbrica anche dai mass media e dall’opinione pubblica.

Il documento denunciava ”il clima che da tempo si è instaurato in fabbrica con le pavide coperture e il fertile terreno per le azioni criminose” e concludeva che “ferimenti e uccisioni sono l’aspetto più doloroso e impressionante di quella campagna che passa attraverso i sabotaggi della produzione, le telefonate intimidatorie, gli atti di violenza sui capi, tutti fatti che concorrono a sviluppare quel clima di insicurezza in cui il terrorismo si è sviluppato”.

Non era una vera e propria chiamata di correo del sindacato, ma era una accorata richiesta all’ zionista di intervenire per riportare al rispetto delle regole del vivere civile in fabbrica.

Alcuni giorni dopo, il 4 ottobre, veniva gambizzato dalle Brigate Rosse un altro dirigente, il responsabile delle relazioni sindacali della Mirafiori.

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I licenziamenti del 61

Dopo i due ultimi episodi di violenza terrorista, riesce a prevalere in azienda la linea “dura” portata avanti dalla Direzione del Personale con i famosi “licenziamenti dei 61” effettuati cinque giorni dopo.

Quei licenziamenti fecero comprendere innanzitutto agli operai che la Fiat intendeva reagire. Dalla sua parte si schierò la stragrande maggioranza degli operai stessi che capirono e condivisero le ragioni dell’azienda, tant’è che non fu organizzato nessun sciopero spontaneo. Ai giornalisti che intervistavano gli operai all’uscita dei cancelli di Mirafiori la risposta era sempre la stessa “Ma era ora!”. 

Nel febbraio del 1980 gli uomini del Generale Dalla Chiesa arrestarono a Torino il capo militare della colonna brigatista della Mirafiori, che, da pentito, permise la cattura di quasi tutti i suoi componenti (pochi riuscirono a darsi alla macchia in Francia o in Centro America)), tra cui alcuni rappresentanti sindacali aziendali o membri dei direttivi provinciali degli stessi sindacati. 

Nell’ aprile dello stesso anno sempre i carabinieri dell’ antiterrorismo arrestarono uno dei partecipanti all’ assassinio dell’ ingegner Ghiglieno. Anche quest’ ultimo, pentitosi, permise l’individuazione e l’arresto di tutti i componenti di Prima Linea.

Finiva così la stagione del terrorismo in Fiat.

Il sindacato si ricostituì su posizioni riformiste e partecipative dopo la “marcia dei quarantamila”, che segnò la sconfitta del sindacato antagonista che aveva imperversato negli stabilimenti per un decennio.   

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